I punti di contesa per il raggiungimento di un accordo tra Londra e Bruxelles sull’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea continuano ad essere prevalentemente tre: la pesca nelle acque britanniche, il cosidetto “level playing field” e la risoluzione delle eventuali dispute future, con le relative sanzioni del caso. Tutti e tre gli elementi sono, nella loro diversità, significativi e rappresentativi delle diverse dinamiche in gioco nello scenario attuale.
Il nodo della pesca
Secondo la prospettiva di Londra, i pescherecci britannici dovrebbero essere gli unici autorizzati a operare nelle proprie acque territoriali, e non dovrebbero essere tenuti a seguire le quote prescritte dall’ Unione per quanto riguarda i limiti di pesca.
Se si guardano i numeri, la pesca nell’economia britannica si presenta come effettivamente minoritaria: lo 0,1% della forza lavoro con un contributo di 1,4 miliardi di sterline, lo 0,1% del PIL. Però, la pesca rimane la principale fonte di occupazione nelle cittadine costiere britanniche, che insieme alle aree ex industriali, rappresentano alcune delle aree più economicamente depresse del Paese.
Il governo di Boris Johnson non vuole rischiare di tradire le aspettative dell’elettorato delle cittadine costiere, che ha sostenuto in gran parte il Leave nel 2016 e i Conservatori nel 2017 e soprattutto nel 2019. Inoltre, il tema della sovranità sulle acque territoriali rappresenta un simbolo potente dell’indipendenza che il Regno Unito riacquisterebbe con la Brexit, nella narrativa dei politici favorevoli al divorzio dall’Unione. Sul lato europeo invece, i governi del continente, con la Francia in prima fila, non vogliono far perdere l’accesso alle vaste acque britanniche alle proprie flotte di pesca.
Il dispiegamento di quattro navi – fonti della Marina Britannica e il Ministero della Difesa hanno annunciato che le imbarcazioni verranno schierate nelle acque territoriali britanniche in caso di un mancato accordo, a partire dal I gennaio – con l’intento di “difendere” le acque territoriali britanniche in caso di un mancato accordo è indicativo di quanto questo aspetto nella partita delle trattative vada ben oltre gli aspetti economici.
Gli ultimi sviluppi tuttavia hanno visto un alleggerimento su questo fronte, con la rimozione di tali clausole da parte della Camera dei Lord, ma queste potrebbero poi essere successivamente reinserite. La loro presenza è foriera di frizioni non solo con l’Unione, ma anche all’interno dello stesso Regno Unito. Soprattutto la Scozia teme che Londra approfitti dello smantellamento delle regole europee per stabilire la propria supremazia ed influenza nel mercato interno britannico, a dispetto delle altre componenti del Regno Unito.
Le regole del gioco nel commercio
La sovranità nazionale resta poi al centro del cosiddetto “level playing field” volto a regolare il futuro delle relazioni commerciali tra Londra e Bruxelles; qui l’obbiettivo britannico sarebbe quello di stabilire e mantenere le proprie regole nazionali in futuro per quanto riguarda la tassazione, la protezione ambientale, i diritti dei lavoratori e gli aiuti di stato alle imprese.
La prospettiva europea invece è quella di mantenere l’armonizzazione alle regole europee, specialmente per quanto riguarda gli aiuti di stato. Se le merci e le imprese britanniche avessero libero accesso al mercato comune europeo, senza dazi o tassazione, si presenterebbero dunque come una forma di concorrenza sleale.
Su questo fronte, va aggiunto poi il fondamentale nodo dell’Internal Market Bill, l’accordo sul mercato interno che presenta un problematico vulnus, ovvero la presenza di alcune clausole che permetterebbero al Regno Unito di riscrivere parti dell’accordo con l’UE, violando in questo modo il diritto internazionale. Anche in quest’ambito, la Scozia teme che tutto il processo decisionale sulle regole economiche finirà per essere accentrato nelle mani del governo e del parlamento di Londra.
Gestione delle controversie future
La gestione delle controversie tra le due parti dopo il I gennaio 2021 (nel caso in cui un accordo venga raggiunto) è la terza fonte di dissidi tra le due parti. Bruxelles supporta il ruolo della Corte di giustizia dell’Unione come arbitro in un simile scenario.
La questione della sovranità torna ancora al centro della discussione in quanto ad esempio il CETA, l’accordo di libero commercio tra UE e Canada non include nessun ruolo della Corte di Lussemburgo. tuttavia questo si scontra nettamente con la prospettiva di mantenere lo stesso accesso al mercato comune del quale il Regno Unito ha goduto finora.
Se si guarda alla Norvegia o all’Islanda e ad altri Paesi che non fanno parte dell’UE ma vi sono associati mediante l’“Area economica europea” (EEA), il loro accesso al mercato unico resta vincolato all’assenza di una voce al tavolo delle trattative, cioè devono accettare regole e arbitro europei. Allo stesso tempo la libertà di movimento anche delle persone fisiche tra UE e EEA resta garantita, mentre dal I gennaio l’accesso al Regno Unito per i cittadini dell’Unione sarà vincolato a un sistema a punti sul modello australiano, un altro dei punti chiave della trionfante narrativa emersa nella campagna referendaria.
Le ultime mosse e lo scenario interno
Il dilemma è chiaro: sovranità, ossia autonomia decisionale totale, contro l’idea di un’uscita morbida dall’Unione, con il Regno Unito che manterrebbe le proprie regole armonizzate a quelle del resto del continente.
Il Primo Ministro conservatore Boris Johnson, dopo aver vinto lo scorso anno nel cosiddetto Red Wall, il Muro Rosso del Nord dell’Inghilterra composto da storiche roccaforti laburiste, non può optare per troppe concessioni sul primo fronte, in quanto questo rappresenterebbe una specie di suicidio politico specialmente per chi, come Johnson, della Brexit è sempre stato un tifoso. D’altro canto però le prossime elezioni avranno luogo nel 2024, quindi sfidare la pressione dell’opinione pubblica al momento avrebbe un prezzo minore, fattore che può aver agevolato un’attitudine più favorevole a una risoluzione negoziale, senza hard Brexit.
L’opposizione laburista si trova di fronte a un grave dilemma, con il leader Keir Starmer che sembra pronto a imporre ai suoi parlamentari di sostenere un potenziale accordo raggiunto da Boris Johnson, per scongiurare uno scenario di Brexit senza accordo. Una simile mossa tuttavia potrebbe portare a una serie di dimissioni di parlamentari laburisti di spicco e a un indebolimento della nuova leadership, che da aprile ha sostituito tra le polemiche quella di Jeremy Corbyn.
Tra le altre forze, i Liberal-Democratici guidati da Ed Davey restano contrari sia all’abbandono del tavolo negoziale, al pari dello Scottish National Party; nel referendum del 2016 in Scozia il Remain trionfò, e sia l’hard Brexit che un mancato raggiungimento immediato di un accordo non farebbero altro che rafforzare le ragioni di un secondo referendum sull’indipendenza scozzese.
La prospettiva di un ritorno al confine, ai controlli e alle dogane tra Irlanda del Nord e Repubblica d’Irlanda complica ulteriormente le cose, perché il partito conservatore DUP, filo-inglese e filo-Brexit, non potrebbe presentarsi ai suoi elettori con un accordo che di fatto isola l’Ulster dal resto dell’isola d’Irlanda. Non è un caso dunque che per la prima volta in decenni la prospettiva di una riunificazione irlandese stia tornando ad essere popolare, al pari del partito che la sostiene da sempre, il Sinn Féin. La questione è cruciale anche sul fronte di futuri accordi commerciali con gli Stati Uniti, in quanto Joe Biden ha più volte sottolineato la sua contrarietà a scenari che possano rivelarsi dannosi per la popolazione irlandese.
Da parte europea, il rischio di creare un precedente con eccessive concessioni è altrettanto concreto per la tenuta dell’Unione. Bruxelles non può accettare che il Regno Unito mantenga lo stesso accesso per quanto riguarda non solo il commercio, ma anche la sicurezza, una volta uscito dall’Unione, mantenendo appieno o quasi la sua sovranità.
La pandemia ha un doppio ruolo in questo scenario: da una parte è uno stimolo a continuare le trattative, per contenere l’impatto economico di un mancato accordo, che sarebbe più pesante rispetto a un esito felice dei negoziati, soprattutto appunto se sommato al pesantissimo impatto economico della pandemia. Dall’altra però potrebbe rappresentare per entrambe le parti una forma di alibi in caso di un insuccesso.
In entrambi i casi, i negoziati sono destinati a continuare ben oltre il I gennaio, ma la loro natura sarà decisamente diversa nel caso in cui le parti non riescano a raggiungere un accordo complessivo in tempi brevissimi.