Oltre il “legalismo autocratico” di Israele: la questione palestinese

Con l’espressione “legalismo autocratico” la sociologa Kim Lane Scheppele fa riferimento alle dinamiche attraverso cui i moderni regimi autocratici indeboliscono gradualmente i “gatekeepers” della separazione dei poteri, ovvero le corti supreme e gli altri “guardiani” preposti a porre un argine a possibili soprusi contro la democrazia da parte delle autorità governative.

Il legalismo autocratico è ben visibile anche nell’odierno Israele. La “riforma giudiziaria” voluta da Benjamin Netanyahu mira infatti a sottomettere la magistratura a un esecutivo pressoché onnipotente: ciò avviene attraverso la cancellazione della facoltà per la magistratura di pronunciarsi sulla ragionevolezza delle decisioni del governo. Allo stesso tempo, il primo ministro israeliano sta portando avanti una battaglia legale e politica contro il sistema che ha deciso di processarlo. Ultimo ma non meno importante, i membri del governo israeliano “più a destra di sempre” sanno che il controllo autocratico è precondizione all’annessione selettiva di ampie porzioni (le più strategiche) del territorio occupato palestinese.

Un’immagine da una delle tante manifestazioni contro la riforma della giustizia di Netanyahu

 

Un siffatto retroterra ha innescato alcune delle più ampie proteste di massa nella storia del Paese, accumunate dalla certezza che la riforma giudiziaria metta “in pericolo Israele come democrazia”. Lo scorso 25 luglio numerosi quotidiani israeliani si sono spinti a pubblicare le rispettive prime pagine interamente in nero. Pur trattandosi di pubblicità a pagamento, finanziate dal movimento “Israeli Hi-Tech Protest”, contenevano un chiaro messaggio: “Giornata nera per la democrazia israeliana”.

Milioni di palestinesi sono soggetti a tribunali militari israeliani da oltre cinquant’anni (compresi giovani tra i 12 e i 15 anni, processati in quello che è l’unico tribunale militare minorile al mondo), tonnellate di rifiuti tossici vengono seppelliti in Cisgiordania, numerose espulsioni di nuclei familiari palestinesi sono tuttora in corso (incluse quelle a Sheikh Jarrah), una diffusa impunità è ormai la norma (la possibilità che una denuncia per un danno causato a un palestinese da parte di un soldato israeliano si concluda con un atto d’accusa è pari allo “0,87%”): a dispetto di ciò e tanto altro, sembra che in molti abbiano iniziato a intravedere una “giornata nera per la democrazia” solo oggi.

La retorica del “giorno nero per la democrazia” – così come quella dell’“unica democrazia del Medio Oriente” – rafforza un sistema di oppressione strutturale, nascondendone le ripercussioni su milioni di esseri umani. Solo pochi giorni fa il portavoce dell’IDF (l’esercito di Israele) non ha battuto ciglio nel mostrare che, nell’Area C della Cisgiordania, le autorità israeliane negano ai palestinesi il 95% delle richieste dei permessi di costruzione, mentre approvano circa il 70% delle domande provenienti dai coloni israeliani. A ciò si aggiunga che il 94% dei materiali prodotti nelle cave israeliane in Cisgiordania viene trasportato in Israele e che “almeno il 72% degli aiuti internazionali” destinati ai palestinesi in Cisgiordania finisce nell’economia israeliana.

 

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Giova ricordare che la ragione per la quale la Cisgiordania (una delle tre parti che compongono lo “Stato non membro” di Palestina) è ancora oggi divisa nelle aree A-B-C è riconducibile a uso selettivo degli accordi di Oslo (13 settembre 1993). In questi ultimi, che tra l’altro prevedevano un periodo di interim di massimo cinque anni, le parti in causa misero nero su bianco che la Striscia di Gaza e la Cisgiordania formano “una singola unità territoriale”. O gli accordi di Oslo sono ancora validi, e con essi anche la “singola unità territoriale”, oppure non ha alcun senso attribuire una validità legale a un loro uso “a singhiozzo”.

Ma cosa pensano i palestinesi di ciò che sta accadendo? Prima di rispondere è bene ricordare ciò che scrisse il geografo palestinese al-Muqaddasī nel X secolo: “Ho parlato con loro [lavoratori a Shiraz] della costruzione in Palestina […]. Il maestro scalpellino mi ha chiesto: sei egiziano? Ho risposto: no, sono palestinese”. Circa 1.000 anni più tardi, in data 3 settembre 1921, un editoriale pubblicato su Falastīn (in stampa dal 1911 al 1948) chiarì che “Siamo prima palestinesi e poi arabi”. Questi due brevi esempi, tra tanti altri, per ricordarci che quanti si riferiscono ai palestinesi con cittadinanza israeliana semplicemente come “arabi” ignorano il peso delle parole (una cittadinanza non cancella un’identità), oppure sono mossi da forme più o meno consapevoli di razzismo.

Dalla prospettiva di una larga maggioranza dei palestinesi e di numerosi attivisti israeliani, la Corte Suprema israeliana non rappresenta un “bastione della democrazia”. Lo sradicamento delle comunità beduine nel Negev, lo sgombero delle famiglie a Sheikh Jarrah, quelli a Masafer Yatta in Cisgiordania: tutto ciò e molto altro, compresa la rimozione di tante famiglie ebree seferdite a Kfar Shalem e Givat Amal, è figlio, dal 1948 in poi, anche delle decisioni della Corte Suprema israeliana. Il punto è che se questo governo spaventa solo o soprattutto per ragioni che hanno a che fare con il sistema giudiziario e la ‘clausola di ragionevolezza’, è forse opportuno chiedersi se abbiamo raggiunto il punto di non ritorno.

 

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“Il fascismo è il colonialismo che si ripiega verso l’interno”, sosteneva l’intellettuale martinicano Aimé Césaire. Negli ultimi decenni, le autorità israeliane hanno attuato una serie di strategie volte ad “annacquare” i confini (o “linea di separazione”) tra Israele e il territorio occupato palestinese, promuovendo al contempo politiche volte a imporre una supremazia ebraica su ogni area compresa tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo.

Il processo di annacquamento è stato imposto attraverso un uso selettivo della religione, della storia e del diritto internazionale, nonché tramite narrazioni fuorvianti che mirano a equiparare i palestinesi con cittadinanza israeliana ai coloni insediatisi in anni recenti nel cuore dei territori palestinesi. Il legalismo autocratico, e più in generale l’ascesa al potere dei coloni e dell’estrema destra israeliana, sono in primo luogo il risultato di tali politiche, ma anche, e forse soprattutto, una testimonianza di ciò che scrisse l’intellettuale inca Dionisio Yupanqui due secoli fa: “Una nazione che ne opprime un’altra forgia le proprie stesse catene”.

 

 

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