Occupy Wall Street e le organizzazioni nazionali progressiste

Una ballerina campeggia sul toro di bronzo di Wall Street. L’occupazione di Zuccotti Park, a poche centinaia di metri dalla sede della borsa di New York, è cominciata con un manifesto e un appello lanciato da Adbusters.org. Con il passare delle settimane, quell’occupazione ha prodotto decine di imitazioni davanti ad altri edifici pubblici o sedi locali della Federal Reserve, qualche manifestazione di dimensioni apprezzabili, e soprattutto ha catturato l’interesse generale. Sono in molti, tra commentatori e analisti, ad aver paragonato la mobilitazione contro la finanza a quella anti-stato del Tea Party.

È utile capire da dove parte la protesta. Adbusters è una rivista canadese anti-consumista e ambientalista, che utilizza strumenti di culture-jamming – chiamiamolo “sabotaggio culturale” – tesi a spiazzare, ridicolizzare, attirare l’attenzione e far riflettere il passante. Una tecnica che vale per i grandi cartelloni pubblicitari modificati ad arte, o i finti broker di borsa che si aggirano per Wall Street inscenando una parodia della contrattazione. Adbusters è anche una rete di persone, professionisti dei media e non, capaci di usare gli strumenti della comunicazione con lo scopo di ritorcerli contro la società dei consumi. È da questi attivisti dello spiazzamento mediatico che viene l’idea di utilizzare il fascino delle piazze occupate, prodotto da Tahrir Square e da Puerta del Sol, per lanciare l’idea di occupare Wall Street.

Abbiamo dunque la combinazione di un messaggio che funziona e di un obbiettivo polemico (la finanza senza regole) condiviso da una parte consistente della società americana. L’obiettivo della parte militante tra coloro che hanno dormito nelle tende a Zuccotti Park non è quello di reintrodurre il Glass-Steagal Act che separava banche di deposito da banche di investimento, ma modificare il funzionamento del sistema.

Il messaggio militante raccoglie in fretta adesioni e consensi. Con il passare delle settimane – altro aspetto cruciale per far crescere la visibilità –  studenti, militanti post-anarchici, nostalgici delle stagioni di grande mobilitazione degli anni Sessanta cominciano a passare per Zuccotti Park. Il messaggio è efficace a tal punto che, nelle tante interviste che i media pubblicano con le persone che dormono accampate nei pressi di Wall Street, cominciano a spuntare giovani “apolitici” alle prese con difficoltà economiche, come la restituzione del prestito d’onore per i propri studi, il licenziamento o l’abbassamento del tenore di vita della propria famiglia.

Nei primi giorni dell’occupazione di Zuccotti Park viene creato il blog wearethe99percent.tumblr.org, dove ciascuno può caricare una propria foto e un messaggio. “Decimo mese senza lavoro, niente assicurazione sanitaria, niente soldi”; “Ho servito il paese per 5 anni e ho un Phd, ma non trovo lavoro”; “Mio padre è stato licenziato dopo 20 anni e ora siamo a rischio di perdere la casa”. Messaggi dall’America della crisi, né liberal, né anti-sistema. Le facce delle persone sono una fotografia della middle class in sofferenza, diverse da quelle dei primi occupanti di Wall Street.

Le foto e le assemblee nelle tendopoli esprimono domande e proposte diverse. Una debolezza, ma anche una forza, almeno nel suo primo mese di vita. E un rinvio a quel movimento planetario anti-globalizzazione esploso al vertice del WTO a Seattle nel 1999, di cui hanno fatto parte alcuni di quelli di Zuccotti Park. La vaghezza della protesta ha anche un’altra causa: i manifestanti sanno che il loro obiettivo polemico principale non si riforma all’interno del sistema democratico nazionale. Wall Street, simbolo del capitalismo finanziario, significa anche i fondi cinesi o la speculazione contro la Grecia o ancora le decisioni assunte (o non assunte) nei vertici dove gli eletti a livello nazionale si confrontano su problemi planetari.

L’attenzione dei grandi media cammina di pari passo con quella delle reti nazionali liberal e progressiste: le organizzazioni ambientaliste, i sindacati, i media di sinistra, le organizzazioni per la registrazione al voto delle minoranze e di advocacy, le reti di community organizers e quelle di immigrati. Questi gruppi hanno vari gradi di militanza e radicalità: ci sono le reti che hanno organizzato i due US Social Forum di Atlanta (2007) e Detroit (2010), dove non erano invitati intellettuali del radicalismo come Michael Moore o Naomi Klein, ma solo organizzazioni grassroots. Come nella tradizione della sinistra americana, anche queste reti tendono ad incardinare il loro messaggio in uno spirito nazionale e patriottico: sono le “famiglie di americani senza casa” a non voler pagare la crisi, piuttosto che i “proletari sfrattati”.

Poi ci sono i sindacati nazionali che – come ci ha raccontato una portavoce di SEIU Local 32BJ, il sindacato che organizza i custodi, la sorveglianza e gli addetti alle pulizie dei grattacieli di Manhattan – hanno visto i loro iscritti premere sui dirigenti perché sostenessero il movimento di Occupy Wall Street. I sindacati sono impegnati in un duro braccio di ferro con diversi governatori repubblicani eletti nella tornata del 2010, quella che ha portato in Congresso e nelle diverse assemblee statali esponenti delle ali estreme di entrambi i partiti. In Wisconsin e in Ohio le leggi statali limitano parzialmente le attività sindacali, e in entrambi gli Stati il confronto è molto serrato. I sindacati quindi, senza aderire ufficialmente, sostengono la protesta. Essi fungono da cassa di risonanza in ambienti colpiti dalla crisi e terrorizzati dall’idea che il Partito Repubblicano vinca le elezioni – i lavoratori dei servizi e del manufatturiero, nel primo caso, i lavoratori dei servizi pubblici nel secondo.

Le reti nazionali abituate a lavorare a Washington, quelle lobby non economiche che vivono di campaigning, chiese progressiste e organizzazioni ambientaliste, hanno tenuto nei primi giorni di ottobre una conferenza nazionale a Washington dal titolo “Take back America”. Portavoce della conferenza era Van Jones, nota figura dell’ambiente liberal, autore e fondatore di diverse organizzazioni ambientaliste e pro-diritti. Jones è fellow al Centre for American Progress di John Podesta e ha ricoperto l’incarico di special adviser del presidente per i “green jobs” – incarico dal quale si è dovuto dimettere per una polemica relativa al suo passato politico giudicato troppo estremo dagli avversari.

La conferenza radunava diversi gruppi nazionali con l’intenzione di dare forma a un’offensiva liberal su alcuni temi chiave per la prossima campagna elettorale (e per l’ultimo anno di questa amministrazione). Anche da Take Back America veniva un immediato riconoscimento di Occupy Wall Street – seppure con una certa cautela, condivisa dai sindacati, per evitare di farsi portavoce di una mobilitazione chiaramente più radicale nei contenuti di fondo. Per tutte queste organizzazioni nazionali, l’obiettivo sembra essere quello di approfittare del momento creato da Occupy Wall Street per dare voce ad alcune istanze che sono opposte a quelle del Tea Party, pur proveniendo dalle stesse ansie e preoccupazioni.

È evidente che i gruppi più radicali non condividono gli obiettivi di queste reti nazionali. Che futuro ha dunque una protesta spontanea e non organizzata? Il primo dato è una raccolta fondi di 300mila dollari in un mese, e una grande quantità di pacchi alimentari, coperte e altre suppellettili: segno di interesse e sostegno. Le proposte, però, restano vaghe e i partecipanti molto diversi tra loro.  Quanto all’interazione tra movimento e strutture nazionali, sembra esserci una informale divisione dei compiti: l’uno è impegnate a “cambiare il mondo”, le altre a ottenere leggi e – anche – a sostenere il Partito Democratico. Il sindacato fornisce soprattutto un aiuto logistico e partecipa alle manifestazioni, mentre le reti nazionali – come fecero alcune organizzazioni conservatrici nel 2010 – sperano che Occupy Wall Street e il suo parlare al cuore dell’America in difficoltà produca un effetto sulle elezioni. Intanto, si preparano a usarne il messaggio.

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