Nelle trattative su Gaza, i palestinesi in cerca di un futuro

Persino il Qatar, abituato a mediare con i talebani e altri irriducibili vari, ormai è sfinito. Le trattative su Gaza sono in stallo. “Il nostro impegno è minato dalla miopia di calcoli di breve periodo”, ha detto il primo ministro Mohammed bin Abdulrahman al-Thani il 17 aprile, annunciando che riconsidererà il suo ruolo. “Non siamo Israele e Hamas. Non possiamo offrire quello che non vogliono offrire”.

Dei no di Netanyahu si è detto molto. Non ha interesse a un cessate il fuoco, e in fondo, non ha mai dichiarato di volerlo. Perché restare a Gaza è il solo modo per restare al potere, e così, rinviare le sue note grane giudiziarie, sì, ma anche tentare di recuperare, di non passare alla storia come il primo ministro del 7 Ottobre, ribaltando la crisi in opportunità: arrivando magari a un’intesa con l’Arabia Saudita, che continua a confermarsi pronta. A una pace più larga. Soprattutto ora che è in campo l’Iran.

Si è detto molto meno, invece, dei palestinesi. D’altra parte: a Ramallah non si vota dal 2006. E il Consiglio Legislativo è stato sciolto nel 2018. Mahmoud Abbas, il cui mandato è scaduto nel 2009, governa da solo. Per decreti. E dal 7 Ottobre, non ha ancora mai parlato.

Basta domandare un po’ in giro, però. I palestinesi sono contro il cessate il fuoco. O meglio: contro un cessate il fuoco a qualsiasi costo. Senza se e senza ma. Viene chiesto in tutto il mondo, ma non qui. Né dagli uni né dagli altri. E’ l’unica cosa su cui israeliani e palestinesi concordano: non vogliono tornare al 6 ottobre come se niente fosse. Solo che per i palestinesi, questo significa non discutere solo degli ostaggi, ma concentrarsi sull’Occupazione. Per gli israeliani si dovrebbe invece discutere proprio solo degli ostaggi, e concentrarsi su Hamas.

Khalil Al-Hayya, rappresentante del braccio politico e capo dei negoziati di Hamas

 

Le trattative non sono mai davvero iniziate. Non è mai stata questione di numeri. Di quanti ostaggi rilasciare, e quali, e in cambio di quanti e quali prigionieri, e di quanti giorni di tregua. Tanto più che Hamas non ha mai voluto dire quali ostaggi siano ancora vivi. O se non altro, quanti. E ora ha detto di non saperlo. In realtà, lo scoglio è sempre stato il Day After. Cosa fare di Gaza?

Mentre Netanyahu ha le idee chiare, e mira a demolirla il più possibile, per forzare i palestinesi a trasferirsi altrove, i palestinesi hanno detto solo che non vogliono al potere Mahmoud Abbas, visto come causa di ogni male, né esterni. Non l’ONU, non gli arabi, non gli europei. E va da sé, non Israele. Promettendo, nel caso, un nuovo Iraq. Ma quindi, cosa vogliono? A sei mesi e 34mila morti dal 7 Ottobre, del governo di unità nazionale su cui è all’opera Mustafa Barghouti, storico mediatore tra Fatah e Hamas, non c’è traccia. Invitato dagli Stati Uniti a un segnale di discontinuità, o almeno, di vita, Mahmoud Abbas ha infine nominato primo ministro l’economista Mohammad Mustafa. Il più stretto dei suoi consiglieri. Tra i palestinesi, la reazione è stata: E chi è?

 

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Parte della risposta è nei Panama Papers di quasi un decennio fa. In cui è molto citato. Tramite Mousa Abu Marzouk, il suo responsabile Affari Internazionali, Hamas ripete di non avere obiezioni a un governo tecnico. E la Turchia, in cui Ismail Haniyeh è stato da poco ricevuto da Erdogan con tutti gli onori, sostiene che Hamas sia disposta a sciogliere le brigate al-Qassam, il suo braccio militare. Ma non sono che tweet, o poco più. Niente di ufficiale. E comunque, a Gaza restano molti altri gruppi armati. Più la Islamic Jihad.

E resta il ritornello con cui viene rispedita al mittente ogni proposta o controproposta di Israele. “Bisogna andare alle radici del problema”. El aasil el-mushkila. Ma quali sono queste radici? Il blocco di Gaza? I coloni? Il processo di Oslo? Tutto? Ancora non è chiaro.

Intanto, si dice che Ismail Haniyeh sia a Istanbul in cerca di una nuova base. Si dice che il Qatar sia stanco di Hamas. Hamas confidava nell’intervento arabo, ma per ora, persino l’intervento dell’Iran, che in più, è stato intenzionalmente limitato, e pensato non per aprire la partita, ma chiuderla, ha sortito l’effetto opposto: deviando l’attenzione da Gaza, e ricompattando molti alleati intorno a Israele.

 

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E quindi l’unica, per Hamas, è che la guerra non si fermi. L’unica è la logica del tanto peggio tanto meglio. Più si trascina, e più questa guerra diventa una seconda Nakbah su sfollati ormai stremati. Un nuovo esodo forzato di centinaia di migliaia di persone. Hamas eclissa così le sue responsabilità. Perché come ha scritto Marwan Bishara, con Hamas Gaza è tornata in prima pagina, sì: ma è sparita dalle mappe.

Una strada di Gaza

 

Un nome per l’unità nazionale però c’è, a quanto sembra. Cioè, per l’unità di tutti tranne Mahmoud Abbas: perché è quello di Nasser al-Qudwa. Suo nemico giurato. Diplomatico dell’ONU, e soprattutto, nipote di Yasser Arafat, vicino a Marwan Barghouti e all’ala dura di Fatah, si è alleato con Mohammed Dahlan – c  un altro nemico giurato di Mahmoud Abbas. E in teoria, anche di Hamas, perché era a capo delle forze di sicurezza quando Hamas vinse le elezioni, nel 2007: e fu battaglia. Ma ora è un imprenditore, vive a Dubai, ed è l’uomo di fiducia non solo di Israele, essendo stato uno degli artefici degli Accordi di Abramo, ma del mondo sunnita in funzione anti-Iran. E come contrappeso interno a Hamas. Hamas detesta gli Emirati: ma sa che salderanno larga parte del conto della ricostruzione, stimato in oltre 20 miliardi di dollari. Dal 7 ottobre, Mohammed Dahlan non fa che ricordare di essere cresciuto a Khan Younis. Nella stessa strada di Yahya Sinwar (dal 2017 leader di Hamas).

E non è un caso che ora, a Gaza stiano entrando molti più aiuti. Non è solo per via della pressione internazionale: è per il rodaggio del futuro governo. Che così, inizia a organizzarsi. E a consolidare un seguito e un consenso. Ma il 30 marzo dieci agenti del generale Majed Faraj, il capo dell’Intelligence di Ramallah, infiltratisi da Rafah, sono stati arrestati da Hamas. Il 12 aprile, invece, Radwan Radwan, il comandante della polizia che coordinava gli aiuti, è stato ucciso dalle forze israeliane. Difficile capire chi è chi, in questo Risiko. E al servizio di cosa.

Mentre è più facile capire l’opinione dei palestinesi: è su GoFundMe – la maggiore piattaforma digitale per il crowdfunding. Vogliono tutti andare via.

Nella West Bank, intanto, le strade principali sono ancora tutte sbarrate dall’esercito israeliano e costellate dei suoi checkpoint. Il 25% del PIL, circa 300 milioni di dollari al mese, arrivava dai palestinesi che lavoravano in Israele, ma ora Israele ha sospeso 100mila permessi di lavoro su 150mila, e in più, trattiene le tasse che riscuote per conto dell’Autorità Palestinese, pari al 65% delle sue entrate. E quindi, i suoi 140mila dipendenti sono pagati a singhiozzo. E timbrano il cartellino altrettanto a singhiozzo. L’Autorità Palestinese si è come dissolta. Si vive essenzialmente di Western Union. Si vive delle rimesse della Diaspora. E probabilmente, Hamas anche qui confida nella logica del tanto peggio tanto meglio. Ma con l’eliminazione di Saleh al-Arouri, il capo delle brigate al-Qassam, assassinato a Beirut il 2 gennaio, si è spento ogni ultimo vero focolaio di Intifada. Non restano che ragazzini con un M16.

Yahya Sinwar promette ancora fuoco e fiamme, ma basta contare i morti e feriti di una notte qualsiasi. Spesso sono più le faide tra Fatah e Hamas che i raid di Israele.

 

 

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