Macron e l’Europa, sette anni dopo

Un commento sintetico del discorso di Emmanuel Macron pronunciato il 25 aprile, centrato sulla fragilità dell’Europa in un mondo in forte cambiamento e durato quasi due ore è molto arduo. Quello di Macron è stato evidentemente anche un esercizio influenzato dalla campagna elettorale in corso e dalla minaccia rappresentata dalla crescita dell’estrema destra in Francia e altrove, ma che ha una valenza strategica di lungo periodo.

Emmanuel Macron alla Sorbona il 25 aprile 2024

 

L’europeismo di Macron è sicuramente profondo e appassionato. Scegliendo di nuovo l’anfiteatro della Sorbona sette anni dopo il primo discorso con cui volle esporre la sua concezione dell’unità europea, era evidente la volontà di fare un bilancio e di indicare nuove prospettive. Il bilancio è realistico, ma anche complessivamente positivo. Descrivendo un’Europa confrontata a crisi tanto gravi quanto inaspettate, da Brexit, alla pandemia, all’esperienza di una guerra che coinvolge una potenza nucleare ai propri confini, alla conseguente crisi inflazionistica e energetica, alle tensioni generate dalla pressione migratoria, Macron pone l’accento sulla sorprendente capacità dimostrata dagli europei di reagire in un modo unitario e per molti versi efficace. La volontà di collegare questi successi al messaggio del discorso precedente che invitava l’Europa a mobilitarsi e cercare una sua “autonomia strategica” o “sovranità”, era prevedibile, ma tutto sommato legittima.

Dopo il bilancio, l’analisi delle sfide. Che si tratti della difesa e della sicurezza, della transizione climatica, del ritardo dell’Europa nella rivoluzione digitale e dell’intelligenza artificiale, del mutato e più pericoloso contesto internazionale, Macron riprende quella che può essere considerata un’analisi ormai prevalente in Europa. Che si ritrova in molte proposte della Commissione Europea, nel recente rapporto di Enrico Letta sul futuro del mercato unico ripetutamente citato da Macron, nonché nei preannunci del rapporto che Mario Draghi si appresta a completare; fino alla necessità di una zeitenwende annunciata dal Cancelliere Scholz in Germania e confermata in un importante discorso a Praga (era l’agosto 2022).

Sono tutte analisi certamente non compiacenti e per certi versi allarmanti sulla situazione dell’Europa e che reclamano cambiamenti radicali. Tuttavia, se tutti sottolineano la gravità delle sfide, Macron, parlando di “pericolo di morte” per l’Europa, usa toni particolarmente drammatici. Come per tutti i discorsi importanti dei leader politici, bisogna distinguere la retorica dalla realtà sottostante. Una certa distanza fra le due è sempre presente, ma è forse più accentuata nel dibattito politico francese; ciò che a volte non facilita la comprensione degli ascoltatori stranieri. Resta il fatto che il primo impatto di un discorso politico è sempre maggiormente influenzato dalla retorica; la realtà si scoprirà più tardi.

 

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Citiamo qui solo alcuni aspetti di particolare interesse. La parte molto estesa consacrata ai problemi della difesa e della sicurezza tratta anche della possibilità per l’Europa di mettere in atto una sua capacità di dissuasione. Contiene a questo proposito anche un accenno peraltro non sviluppato al fatto che la Francia dispone di una “difesa completa” che quindi include l’arma nucleare; un accenno che non mancherà di essere analizzato e commentato nelle altre capitali. In secondo luogo, l’analisi sulla transizione climatica spiega in modo politicamente convincente l’apparente contraddizione fra il tentativo dell’UE di programmare la sua strategia sul medio periodo e la difficoltà politica di gestire la sua messa in opera. Pone anche con chiarezza la necessità di articolare le priorità della transizione e la loro compatibilità con gli imperativi della crescita e della competitività. Infine, la parte dedicata al prossimo allargamento all’Ucraina, alla Moldova e ai Balcani occidentali, espone chiaramente allo stesso tempo la sua necessità e il rapporto con le necessarie riforme dell’UE.

A questo proposito, è interessante la riaffermazione della necessità di estendere la possibilità di decidere a maggioranza; non è tuttavia chiaro quanto l’Europa di Macron sia in continuità con quella di Jean Monnet che poneva la delega di competenze a istituzioni sovranazionali non solo come elemento di efficacia, ma anche come essenziale garanzia dell’uguaglianza di tutti i membri. Infine, anche se non mancano le sottolineature abituali del ruolo centrale del rapporto franco-tedesco, c’è nel discorso dei Macron una consapevolezza non molto abituale in Francia dell’importanza della complessa rete di rapporti che uniscono in maniera variabile e a volte informale tutti i Paesi membri, Francia compresa.

 

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Vengono posti con chiarezza i termini della sfida che consiste nel ridare all’Europa centralità sul piano internazionale e recuperare il ritardo accumulato nelle nuove tecnologie, ma allo stesso tempo preservare le sue grandi ambizioni in materia ambientale e la salvaguardia del modello di protezione sociale più avanzato del pianeta. L’osservatore straniero ne ricava tuttavia la sensazione che la soluzione del dilemma è sistematicamente trovata in una forma di chiusura verso l’esterno.

L’Europa di Macron sembra essere sola e senza amici. Ci sono ovviamente degli avversari, la Russia in primo luogo con i suoi alleati di fatto Iran, Corea del Nord e Cina, ma anche il resto del mondo appare potenzialmente ostile. Certo, non manca l’accenno al fatto che di fronte all’invasione russa dell’Ucraina l’Europa ha potuto contare su un appoggio americano peraltro precario e forse transitorio, ma per il resto nel discorso di Macron l’America è nelle migliori delle ipotesi un concorrente se non un potenziale avversario. Ritorna un concetto di equidistanza enunciato al momento di un viaggio in Cina e che fu a suo tempo oggetto di critiche interne ed esterne.

È peraltro del tutto assente l’Occidente in quanto entità strategica e anche culturale, salvo per notare che “l’Europa non ne deve esserne un’appendice”. La cancellazione dell’Occidente come dimensione ideale va molto più lontano della ricorrente constatazione che un’America preoccupata dei propri interessi e che guarda con priorità all’Asia, ci obbliga ad assumere maggiori responsabilità e ad abbandonare definitivamente l’illusione di poter affidare interamente la nostra sicurezza agli Stati Uniti. Nel lungo, appassionato e molto ben argomentato passaggio dedicato ai pericoli che la democrazia liberale corre oggi nel mondo, l’Europa appare come un’isola assediata. Macron sembra ignorare che i nemici dell’Europa sono anche nemici dell’Occidente. Nella sua appassionata e molto incisiva difesa dei valori dell’umanesimo e della democrazia liberale, sembra anche dimenticare il comune patrimonio storico e culturale che ci unisce non solo agli USA, ma anche a Paesi come il Canada, l’Australia e la Nuova Zelanda; per non parlare di Gran Bretagna e Norvegia (nella NATO ma non nella UE), che sono certamente europei ma si considerano anche parte integrante dell’Occidente. Un patrimonio culturale e una storia che conducono a una comunanza di valori condivisi ormai in modo crescente anche da paesi non di tradizione europea come il Giappone e la Corea. Come se di fronte non solo al pericolo rappresentato dalle autocrazie, ma anche all’immensa sfida di come regolare nuove tecnologie in tumultuosa evoluzione, il resto dell’Occidente non fosse alle prese con gli stessi problemi e non fosse alla ricerca di difficili soluzioni. Come se i pericoli interni che corre la democrazia liberale ma anche le forze necessarie per farvi fronte, non fossero fondamentalmente simili in America e in Europa. In fondo, dalla crescita del populismo dell’estrema destra ai rigurgiti di antisemitismo che dilagano nelle università, i fenomeni che ci preoccupano sono comuni a tutto l’Occidente.

 

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Se ammettiamo che le sfide efficacemente analizzate nel discorso sono effettivamente epocali, come può essere credibile pretendere che l’Europa possa affrontarle da sola e non con il concorso di alleati che sono confrontati a problemi in gran parte simili? Anche la necessità dovuta a fattori geopolitici di ricostruire le catene di approvvigionamento di tecnologie e materie prime critiche, assume una dimensione tutta diversa se l’Europa deve farvi fronte da sola, o se può unire le forze con Paesi che condividono le stesse preoccupazioni. Sembra proprio che una parte del dibattito politico europeo non riesca a liberarsi da una presunta alternativa fra il vassallaggio e un sostanziale distacco nei confronti dell’America; due opzioni altrettanto perdenti e che rendono impossibile una risposta costruttiva alle questioni reali che ci pone l’evoluzione della politica americana.

Sono questioni che si pongono all’Europa indipendentemente dai risultati delle imminenti elezioni americane e che condizionano la visione dell’Europa di molti Paesi membri dell’UE. Senza chiarezza su di esse, la strategia comune che Macron auspica non è possibile. Poche cose sono fonte di divisione fra europei come la mancanza di consenso sui rapporti transatlantici. Anche un’eventuale vittoria di Trump costituirebbe per molti europei un fattore di convergenza, ma non fino al punto di immaginare una rottura strategica transatlantica.

Ancora meno credibile è l’idea che l’Europa possa porsi come “potenza d’equilibrio” nel confronto in atto fra USA e Cina. È certamente giusto il richiamo alla necessità di sviluppare una sua autonoma politica africana o verso l’Indo-Pacifico, ma deve tener conto del fatto che le rivendicazioni dei nostri interlocutori, che siano potenziali avversari come la Cina o potenziali partner come il cosiddetto “sud del Mondo”, si rivolgono a noi in quanto occidentali. Del resto, la strisciante ostilità contro l’Occidente di molti Paesi africani è più legata all’eredità del colonialismo europeo che al rifiuto “dell’imperialismo” americano; come peraltro la Francia dovrebbe aver imparato a sue spese nel Sahel. Un esempio emblematico di questa contraddizione sta nell’idea interessante di instaurare un dialogo costruttivo con il “Sud del mondo”, ma nello stesso tempo la richiesta di cambiare radicalmente le regole del commercio internazionale per subordinare tutti i nostri accordi al rispetto da parte dei nostri partner delle stesse regole sociali e ambientali che si vuole dare l’Europa, e perfino alla difesa della nostra autosufficienza alimentare. Non deve sorprendere che, visto dall’Africa ma anche dal Brasile o dall’Indonesia, un simile atteggiamento sarà interpretato come una nuova forma di colonialismo. C’è dietro tutto ciò l’illusione che l’importanza del nostro grande mercato ci dia una forza negoziale che invece per altri è solo espressione di un “imperialismo regolatorio”.

Questo tipo di contraddizioni o di ambiguità si riflette anche su alcuni aspetti della dimensione interna del discorso di Macron. Tutti ormai convengono che le regole del gioco dell’economia internazionale stanno cambiando e che l’Europa deve prenderne atto, compresa qualche forma di politica industriale. Tuttavia, alcuni appelli a una nuova politica industriale pronunciati da un leader francese o anche italiano, saranno sempre accolti con sospetto di protezionismo o dirigismo da parte di paesi che, pur consapevoli del nuovo contesto, restano convinti della necessità di preservare per quanto possibile i benefici di un’economia aperta e della concorrenza.

Lo stesso vale per accenni che sembrano mettere in discussione l’indipendenza della BCE, o la critica severe alle regole europee sulla gestione delle finanze pubbliche; regole che peraltro nella loro nuova formulazione sono appena state approvate (con il nuovo Patto di Stabilità). Esiste ormai in Europa un largo consenso che le sfide di cui si parla richiederanno un grande sforzo d’investimento, pubblico e privato, stimato in vari miliardi di euro all’anno. Come Paesi in situazioni strutturali diverse e con diversi ma ovunque elevati livelli di indebitamento potranno farvi fronte, è una questione aperta che conduce logicamente a discutere, come propone anche Macron, di un maggiore sforzo di finanziamento comune a livello europeo. Il problema che si pone è però come finanziare questo sforzo di così grande dimensione da parte di economie in cui la pressione fiscale è già vicina se non oltre al 50% del PIL. L’idea che ciò possa avvenire senza gravare sui contribuenti europei ma sotto forma di tasse, ambientali o rivolte alle multinazionali comunque sempre a carico degli “stranieri”, è forse la parte più debole di tutto il discorso.

Le perplessità che possono sollevare certi aspetti della retorica di Macron, sono in alcuni casi compensate da molto opportuni richiami alla realtà. Per esempio accanto ad accenti che, come si è visto, sembrano condurre a un allargamento del fossato fra Europa e America, troviamo l’auspicio per la Francia abbastanza nuovo di “un pilastro europeo della NATO”. Oppure, la critica radicale ai principi che hanno finora ispirato gli accordi commerciali dell’UE, è accompagnata da una vigorosa e convincente difesa dell’accordo CETA con il Canada. Accordo che proprio a causa del tipo di retorica che caratterizza alcune frasi di Macron, trova attualmente ostacoli apparentemente insormontabili per la sua ratifica in Francia e in Italia.

Colmare questo divario fra la retorica e la realtà è indispensabile se si vuole che il discorso di Macron non sia solo una rispettabile espressione di posizioni francesi ma eserciti anche una funzione di leadership ideale più vasta all’interno dell’Unione. Per fare un esempio, il “pilastro europeo della NATO” ha senso se rappresenta il percorso verso un’alleanza strategica fra uguali; perde completamente di senso se rappresenta solo una misura transitoria per guadagnare tempo in attesa che siano corrette le debolezze strutturali dell’Europa dimostrate in occasione dell’invasione dell’Ucraina e sia possibile recuperare una completa autonomia.

 

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Sarebbe in effetti un peccato se inevitabili e prevedibili diffidenze oscurassero una passione e un’ambizione ideale che il discorso di Macron del 25 aprile contiene e che sono rari nell’Europa attuale, e Macron è al momento l’unico leader francese all’altezza di esercitare questo ruolo. La mobilitazione degli europei per rispondere alle nuove sfide ha bisogno di una leadership francese capace di creare consenso. È quindi importante che al discorso della Sorbona seguano abbastanza rapidamente gesti concreti capaci di dimostrare che si tratta di idee capaci di creare consenso.

Un esempio fra tanti potrà essere fornito rapidamente dopo le elezioni di giugno con la nomina da parte dei governi e del Parlamento Europeo dei nuovi vertici delle istituzioni europee. Un test fondamentale sarebbe quello di promuovere da parte francese, quali che siano i nomi proposti, istituzioni forti, autorevoli ed efficaci almeno quanto ha dimostrato di esserlo nella pandemia e in altre occasioni la Commissione che sta concludendo il suo mandato.

 

 

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