Nell’ultimo anno, la tensione tra Cina, Stati Uniti e Taiwan è cresciuta a dismisura, facendo apparire uno scontro militare nel mare Cinese Meridionale ormai imminente. Le ragioni sono molteplici e di lunga data, e includono questioni storiche e identitarie legate alla fine del periodo imperiale con la fondazione della Repubblica di Cina, alla guerra civile tra comunisti e nazionalisti e alla fondazione di Taiwan, alla volontà della Cina Popolare di promuovere una visione nazionale unitaria per mantenere consenso interno, fino ad aspetti più recenti che hanno a che fare con la postura strategica militare americana e la crescita delle capacità militari cinesi.
Sono stati realizzati svariati simulazioni o wargames, alcuni condotti dalle parti in causa: riassumerli richiederebbe molto spazio. Identifichiamo invece qui due scenari estremi, ai quali aggiungiamo una serie di considerazioni accessorie. Prima di procedere, è utile riepilogare la modernizzazione militare cinese, che abbiamo riassunto qualche mese fa per Aspenia: nel corso degli ultimi due decenni, la Cina ha cercato di aumentare il raggio di azione dei suoi armamenti così da obbligare gli avversari ad operare a maggiore distanza dalle sue coste.
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Il tentativo più o meno esplicito di Pechino consiste nel “contestare” la potenza americana all’interno della prima catena di isole del Pacifico al largo del continente asiatico (l’arco di penisole e isole che va dalla Borneo passando per Taiwan fino al Giappone meridionale) e potenzialmente anche nella seconda catene di isole (che va da Papua Nuova Guinea passando per Guam fino al Giappone Orientale), così da impedire agli Stati Uniti o ai loro alleati di stanziare delle forze e operare liberamente all’interno di queste due aree. Allo stesso tempo, spingendo gli Stati Uniti ad operare da basi più distanti, la Cina aumenterebbe il costo operativo della presenza, e di un’eventuale operazione, americana nella zona, che è legato alla distanza – molte piattaforme militari, prima di tutto i caccia di quinta generazione come l’F-22/A Raptor e l’F-35 Lightning II Joint Strike Fighter hanno un raggio limitato.
Come potrebbe dunque svilupparsi un eventuale conflitto su Taiwan? Mentre nel dibattito pubblico e accademico i conflitti militari vengono spesso presentati come accidentali, frutto di fattori contingenti e inaspettati, della corsa agli armamenti, di errori umani, o addirittura di un algoritmo, nella storia i conflitti non voluti sono eventi estremamente rari. Da questo punto di vista, la storiografia recente sulla Prima Guerra Mondiale ha sfatato questo mito anche sul conflitto che, per antonomasia, è stato a lungo considerato il prodotto di una tragica sequenza di eventi. Per questa ragione, dati i suoi interessi strategici e politici, assumiamo qui che la Cina inizi lo scontro e consideriamo due scenari estremi e contrapposti: una guerra lampo e una guerra di logoramento. Li approfondiamo nei successivi due paragrafi.
Scenario uno: guerra lampo
Negli ultimi anni, con un’accelerazione significativa negli ultimi mesi, Pechino ha condotto un crescente numero di esercitazioni e intimidazioni nei confronti di Taiwan. Con queste azioni, come la Russia verso i Paesi Baltici, la Cina aumenta intenzionalmente le probabilità di incidenti, e quindi potenzialmente di scontri ed escalation, in quanto ogni esercitazione e intimidazione non solo obbliga Taiwan ad alzare il livello d’allerta ma anche comporta degli inevitabili rischi.
Esercitazioni ed intimidazioni hanno però anche dei vantaggi pratici, che vanno oltre la sempre pressione politica sulla parte avversa. Da una parte, la Cina può infatti comprendere come Taiwan si prepari a reagire in caso di conflitto. Dall’altra parte, il costante ricorso ad esercitazioni ed intimidazioni progressivamente affievolisce il senso di minaccia, anche per il suo carico psicologico e costo economico. In linea del tutto speculativa, ciò potrebbe permettere a Pechino di lanciare un attacco durante una di queste esercitazioni, sfruttando così le difese meno allertate di Taiwan, che si troverebbe dunque impreparata. Se infatti l’effetto sorpresa nelle guerre moderne è molto difficile da sfruttare per via della rapidità dei sistemi di comunicazione, si può normalizzare l’emergenza per poi trarre vantaggio dall’inerzia avversaria. E’ quanto abbiamo visto, per esempio, nel 1982 in Siria e nel 1991 in Iraq: le difese siriane e quelle irachene vennero colte di sprovvista dopo esercitazioni israeliane e americane, rispettivamente, durate 12 e 6 mesi e che portarono Siria e Iraq ad assumere, nel giorno dell’attacco, che si trattasse nuovamente di una semplice esercitazione.
In questo scenario, la Cina potrebbe lanciare un attacco lampo attraverso missili di precisione, caccia bombardieri, e attacchi cibernetici alle infrastrutture critiche di Taiwan per neutralizzare in brevissimo tempo le sue difese: centri di comando e controllo, sistemi di comunicazione, difese anti-aree, porti e aeroporti ed eventualmente anche centrali elettriche. Una volta incapacitato, Taiwan non potrebbe difendersi da un’invasione, e la Cina potrebbe così preoccuparsi di “riprenderne il controllo” e stanziarvi capacità militari per impedire una risposta avversaria (di Stati Uniti e Giappone).
Scenario due: guerra di logoramento
La guerra lampo non è ovviamente l’unica possibilità. Un conflitto potrebbe infatti svilupparsi in maniera diametralmente opposta, attraverso una guerra di logoramento. Taiwan è un’isola, non solo ha ridotte risorse naturali ma è anche dipendente da un punto di vista economico dal commercio internazionale. Attraverso un blocco aero-navale, la Cina strangolerebbe Taiwan, rendendo il collasso politico-sociale del Paese praticamente inevitabile, in maniera analoga a quanto la guerra sottomarina tedesca cercò di ottenere durante la Prima e la Seconda Guerra Mondiale.
In un contesto del genere, Taipei potrebbe cercare di forzare il blocco aero-navale, ma senza aiuto e supporto esterno avrebbe poche chance, non solo per una ragione strettamente numerica ma anche perché nel breve-medio termine, le sue scorte verrebbero rapidamente meno (munizioni, pezzi di ricambio e carburante, tra gli altri).
La strategia del porcospino e un intervento di terra: uno scenario intermedio
Un attacco lampo contro Taiwan dipenderebbe dalla capacità di identificare e distruggere in breve tempo i principali obiettivi militari del Paese. Se Taipei adottasse la cosiddetta “strategia del porcospino”, ovvero basata su un largo numero di piattaforme efficaci ma poco costose, riuscirebbe a rendere un attacco lampo cinese più difficile: batterie anti-aree, missili anti-nave, caccia intercettori, sottomarini convenzionali possono rappresentare una fastidiosa minaccia, se dispiegati in numero sostenuto e usati ad intermittenza con tattiche volte a sfruttare coperture e camuffamenti (offerti dalla morfologia montana del Paese) per lasciare penetrare il nemico e poi colpirlo di lato. Questa strategia potrebbe impedire alla Cina di assicurarsi in breve tempo il controllo dello spazio aereo taiwanese e così obbligarla ad intervenire con truppe di terra per annientare, una ad una, ogni minaccia: ciò richiederebbe però, a sua volta, un attacco anfibio, che nello stretto di Taiwan sarebbe particolarmente complesso, sia per le sue correnti, che per la minaccia rappresentata da sottomarini, mine navali, e missili anti-nave.
Per Taiwan, un po’ come per i talebani in Afghanistan o per la Serbia durante la guerra del 1999, l’obiettivo strategico è dunque abbastanza chiaro: resistere sufficientemente a lungo, e infliggere costi abbastanza elevati, da far desistere l’avversario. Il presidente serbo Slobodan Milosevic grazie ad una strategia del genere riuscì a prolungare il conflitto abbastanza a lungo da far prendere seriamente in considerazione l’opzione di un intervento di terra da parte della NATO. Questo alla fine non ci fu (durante il conflitto), ma scovare ogni difesa aerea serba fu tutt’altro che facile, anche in un contesto sbilanciato come quello che vedava impegnata la NATO contro il piccolo Paese balcanico. Taiwan potrebbe mirare ad un obiettivo analogo. Ovviamente il successo non è garantito, ma per Taiwan sembra la strategia più vantaggiosa: ciò spiega come mai gli Stati Uniti abbiamo promosso vigorosamente la strategia del porcospino presso le autorità taiwanesi negli ultimi anni.
Gli altri attori
I due scenari discussi sono estremi, nel senso che si collocano sui due lati opposti di una linea che ordina per velocità i vari tipi di intervento militare. Questi due scenari sono però anche estremi concettualmente, in quanto non contemplano l’intervento di attori terzi, principalmente Stati Uniti, Giappone, ma anche eventualmente Australia, Regno Unito, Francia, India. Questi Paesi potrebbero realisticamente intervenire in entrambi i tipi di conflitto.
Nel primo scenario, gli Stati Uniti sarebbero direttamente coinvolti per una serie di questioni, incluso i rapporti bilaterali con Taiwan, le relazioni con gli alleati regionali, e la loro credibilità internazionale. Prevedere come uno scontro tra Cina e Stati Uniti – che, ripetiamo, non ci auguriamo – potrebbe avere luogo è difficile, anche per il ruolo delle armi nucleari. Le capacità nucleari cinesi si sono evolute negli ultimi anni, in termine di testate, di struttura e di dottrina. La Cina ha a lungo adottato una postura minima, con un arsenale ridotto e con un basso livello di allerta. Questo arsenale è cresciuto negli ultimi anni, e soprattutto sono cresciute le infrastrutture e le piattaforme accessorie, e di conseguenza è evoluta la dottrina: la Cina ha rafforzato le sue capacità anti-spazio e anti-sottomarine, volte a contrastare alcuni pilastri dell’infrastruttura nucleare americana, il suo arsenale non sembra più tenuto a bassi livelli di allerta e la stessa dottrina sembra muoversi verso obiettivi più ambiziosi. Ad oggi la Cina sembra avere circa 350 testate nucleari, un decimo degli Stati Uniti.
Il dato importante è che la Cina vede Taiwan come una repubblica ribelle. Un intervento americano a supporto dell’isola potrebbe essere interpretato come una minaccia alla sovranità cinese e quindi rientrare all’interno delle contingenze per cui viene considerato, nella dottrina nucleare cinese, lecito il ricorso alle armi nucleari. Non possiamo dire se ciò sia possibile o verosimile, ma certo è necessario interrogarsi sia su questa prospettiva che sulle sue conseguenze. Come reagirebbero, eventualmente, gli Stati Uniti ad un tale sviluppo? Un dato abbastanza assodato è che l’uscita degli Stati Uniti nel 2019 dal trattato INF (Intermediate-range Nuclear Forces, contro la proliferazione delle testate a media distanza) con la Russia è stato sì giustificato dalle continue violazioni russe ma trova anche ragione proprio nella necessità di aumentare le capacità militari americane in Asia, così da poter colpire più obiettivi e quindi rendere una risposta cinese più difficile.
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Una domanda accessoria riguarda il ruolo dei principali alleati degli Stati Uniti: quale ruolo svolgerebbero? Secondo alcuni analisti, questi Paesi non potrebbero tirarsi fuori da un eventuale conflitto. Secondo altri, gli incentivi sarebbero differenti a seconda del Paese, e quindi presumere una partecipazione di tutti questi paesi al fianco degli Stati Uniti potrebbe portare ad amare sorprese. Altri ancora ritengono che il supporto diplomatico e militare verrebbe offerto con geometrie variabili. Vi è ovviamente un grande punto interrogativo a proposito della localizzazione della crisi: alcuni attori avrebbero incentivo ad internazionalizzare la crisi mentre altri avrebbero un vantaggio nel tenerla a livello strettamente locale. Ovviamente ciò influenzerebbe la partecipazione di altri attori: in un mondo in cui lo spazio, l’energia e il dominio cyber hanno importanti risvolti strategici, non si può escludere che la crisi si allarghi anche a questi ambiti. Ex ante, si può dire che un’invasione anfibia sarebbe altamente difficile con l’opposizione militare degli Stati Uniti: ciò a sua volta spiega come l’importanza della carta nucleare, che può essere usata (o quantomeno minacciata) proprio per evitare questa contingenza.
Nello scenario di una guerra di logoramento, la comunità internazionale sarebbe invece inevitabilmente coinvolta in quanto un blocco aero-navale avrebbe dirette implicazioni legali, commerciali, economiche e industriali su un numero significativo di Paesi, anche per il fatto che Taiwan è il primo produttore di semiconduttori al mondo. Nello scenario di un blocco aero-navale, più Paesi potrebbero decidere di dispiegare piattaforme militari per scortare i convogli commerciali in entrata e in uscita da Taiwan e così vanificare gli obiettivi della strategia cinese. Ovviamente, in questo contesto, un contro-blocco contro la Cina non può essere escluso. E’ però utile sottolineare come ogni tentativo di forzare un blocco aero-navale, da parte di Taiwan contro la Cina o da parte della Cina contro una possibile coalizione, implica il possibile uso della forza e quindi una possibile escalation.
Verso il 2030
La competizione tra Stati Uniti e Cina segnerà la politica internazionale per il prossimo decennio, e forse oltre. Uno scontro tra i due Paesi, su Taiwan o su un altro dossier, è possibile, ma non è inevitabile. Non è neppure ovvio come questo scontro possa avvenire e poi svilupparsi. Come abbiamo illustrato, i due scenari più estremi sono contrapposti e la loro evoluzione dipende dall’interazione tra una molteplicità di fattori e contingenze – molti dei quali non possono essere previsti ex ante, come per esempio le precise “preferenze” (nell’accezione strategica usata ad esempio nelle teorie dei giochi) e le decisioni dei vari attori coinvolti.
Tre grandi questioni meritano attenzione. Secondo un rapporto del Pentagono dello scorso novembre, la Cina raggiungerà la parità strategica in termini di armi nucleari con gli Stati Uniti alla fine del decennio. Confrontarsi direttamente con Cina e Russia sarà quindi più difficile, a meno che gli alleati degli Stati Uniti non svolgano un ruolo maggiore o gli Stati Uniti stessi non aumentino ulteriormente le loro capacità nucleari.
Il numero di interdipendenze è notevole. Ne abbiamo trattate solo alcune, ma è facile vedere come vi sia una connessione tra questioni energetiche, commerciali, tecnologiche e militari. Per esempio, in caso di conflitto, una domanda centrale riguarda la distribuzione dei costi dovuti dall’assenza di microchip taiwanesi e fino a che punto questa interdipendenza potrebbe influenzare l’evoluzione di uno scontro. Infine, se la poderosa crescita economica e militare cinese ha reso l’equilibrio geopolitico in Asia orientale più instabile, è utile interrogarsi sugli sviluppi interni cinesi, inclusa la sua società e la sua economia e se questi, in prospettiva, aumentino o meno i rischi di conflitto negli anni a venire.
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