Lo stato (e il futuro) della riforma sanitaria di Obama

La settimana prima del discorso sullo Stato dell’Unione, la Camera dei Rappresentanti, insediatasi dopo la brillante vittoria repubblicana nelle elezioni di medio termine di novembre, ha “ripudiato” la riforma del sistema sanitario americano approvata nel marzo 2010. Un gesto simbolico (il Senato e il presidente non permetteranno che si vada oltre) sul quale i repubblicani hanno mostrato unanimità, per sottolineare con forza che la battaglia è appena cominciata: proprio a partire dall’opposizione a quella legge, il fronte conservatore aveva ritrovato la strada per contrastare con successo l’amministrazione Obama. Dunque, quasi un atto dovuto verso i propri elettori. Un ponte ideale lanciato in direzione della propria base che si era mobilitata, anche prima del partito, allo scopo di ostacolare l’iter di una legge che avrebbe rafforzato il ruolo del governo nella vita quotidiana degli americani e aumentato la spesa federale. Del resto, fu proprio nelle prime, infuocate, town hall dell’estate del 2009 che il Tea Party fece la sua apparizione in pubblico: quelle dimostrazioni di rabbia ruppero la luna di miele del paese con l’amministrazione Obama.

Che risposta ha dato il presidente Obama al repeal voluto dai repubblicani? Come ha difeso il dispositivo legislativo più contestato di questi due anni, ufficialmente denominato Patient Protection and Affordable Care Act? Ci si poteva aspettare che nello Stato dell’Unione il presidente spiegasse per l’ennesima volta, con il suo stile “pedagogico”, il senso di quella legge. Lo stile pedagogico ha in effetti caratterizzato anche il discorso di quest’anno, ma è stato dedicato ad altre cause (per esempio, spiegare agli americani come siano cambiate modalità e forme dell’organizzazione del lavoro in questi ultimi venti anni).

Obama ha dedicato solo un paio di passaggi – rapidi – al tema della riforma sanitaria, aprendo con una battuta accolta da risate bipartisan: “Now, I’ve heard rumors that a few of you have some concerns about the new health care law”. Subito a seguire è arrivata la richiesta al Congresso di indicare soluzioni capaci di migliorare la legge in vigore (i repubblicani hanno scelto di attivare quattro commissioni della Camera allo scopo di proporre una contro-legislazione), quasi a sottolineare l’inconsistenza politica del voto repubblicano della settimana scorsa. Il commento in realtà va contestualizzato nell’impianto generale del discorso, poiché esso stabiliva una relazione tra la riforma sanitaria e le proposte di carattere programmatico – economia verde ed energia pulita, l’aumento dei livelli di istruzione e ricerca del paese, l’innovazione tecnologica e del sistema delle infrastrutture.

Il legame era di natura culturale e ideologica, volto a contrastare il public discourse repubblicano:  nei tre casi appena citati e in quello del Patient Protection and Affordable Care Act – ma anche in altri, come quello della riforma del mercato delle carte di credito, dove l’amministrazione è intervenuta a difesa del consumatore – Obama ha voluto esaltare il ruolo dell’azione di governo. Ha dunque tenuto il punto sull’idea che la crisi sia nata per colpa di “troppo poco stato”, e non il contrario. Il “troppo poco stato” avrebbe danneggiato categorie sociali che il governo deve poter difendere dall’arbitrio del più forte (nel discorso l’immancabile storia, con nome e cognome, del paziente malato di tumore che avrebbe potuto perdere la copertura assicurativa): E “troppo poco stato” avrebbe significato mancati investimenti in settori chiave dell’economia del futuro: senza quel tipo di intervento pubblico si danneggia il paese e si rischia di lasciare indietro una parte di Stati Uniti che è pronta a sudarsi il suo pezzo di sogno americano. Di nuovo, come avviene da più di sei anni (da quando cioè Obama divenne un personaggio pubblico nazionale grazie alla Convention democratica del 2004), la declinazione “inclusiva” del sogno americano, versione obamiana.

“As we speak, this law is making prescription drugs cheaper for seniors and giving uninsured students a chance to stay on their parents’ coverage. So instead of re-fighting the battles of the last two years, let’s fix what needs fixing and move forward”. Questo e poco altro ha detto il presidente per affrontare direttamente le questioni poste dai repubblicani nel voto della settimana scorsa.

In realtà la strategia repubblicana prevede una serie di imboscate legislative (e il dibattito sulla possibile efficacia di questa scelta è appena cominciato), tese a indebolire l’impianto della riforma: ad esempio, il drenaggio di denaro verso altri capitoli di spesa – per sottrarre la copertura economica necessaria all’ulteriore implementazione della legge – o la cancellazione dell’obbligo di pagamento di ammenda per chi non si procuri una copertura sanitaria (in questo ultimo caso, i ricorsi per via legale sono destinati a moltiplicarsi). Nel frattempo i democratici continueranno a pubblicizzare gli effetti positivi della riforma – o almeno quelli immediatamente percepibili – come l’inapplicabilità della clausola delle pre-existing condition per negare la copertura a chi è già malato, la possibilità di includere i figli al di sotto dei 26 anni all’interno del piano assicurativo dei genitori, le facilitazioni fiscali per le piccole imprese che garantiscono la copertura sanitaria verso tutti i dipendenti.

I repubblicani hanno scelto di tenere vivo questo dibattito il più a lungo possibile – è la tesi di Karl Rove, ad esempio – per continuare a galvanizzare la propria base su un tema “vincente”, ma non solo: l’Obamacare continua ad allontanare l’amministrazione da un segmento di elettorato che sta diventando un bunker repubblicano, ovvero quello degli over 65 (negli USA i 65 sono l’età del pensionamento, un traguardo lavorativo e mentale). Se da un lato Obama ha rilanciato il partito democratico insediandosi nell’elettorato giovanile, il contrario è avvenuto con gli over 65, destinati a divenire il 26% dell’elettorato nel giro di un paio di decenni (oggi rappresentano il 17% del totale).

I sondaggi e le analisi delle elezioni di medio termine hanno mostrato come, per una parte consistente di questa fascia elettorale, l’approvazione della riforma sanitaria abbia rappresentato un defining moment della storia politica americana. Nel mezzo della crisi economica – e con un debito pubblico alle stelle – il governo ha promesso di stanziare fondi per i 30 milioni di americani non coperti da assicurazione sanitaria. Tra i pensionati e tra le associazioni che li rappresentano è cresciuto il timore che questo possa avvenire a spese loro, ovvero a spese del sistema pubblico di Medicare, che garantisce copertura sanitaria a tutti gli over 65. Obama, non a caso, nel discorso sullo Stato dell’Unione ha fatto un riferimento esplicito alla necessità di riformare il sistema, che rappresenta una delle voci principali della spesa pubblica americana: fino a oggi, per un presidente democratico, il tema era tabù.

Poco importa che la riforma abbia portato alcuni benefici immediati, come l’abbassamento dei costi dei medicinali. Paradosso dei paradossi, la paura di un ridimensionamento della spesa pubblica favorisce oggi il fronte repubblicano, legando ancora di più un blocco di elettorato tradizionalmente attivo alle fortune del GOP.

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