Orbán. Ancora Orbán. Sempre più Orbán. Le elezioni ungheresi di domenica 8 aprile mostrano un paese quasi interamente arancione, il colore del partito Fidesz del carismatico primo ministro , in carica dal 2010 e giunto con questo ulteriore trionfo al terzo mandato consecutivo. Non è inopportuno scomodare la storia nell’analizzare i risultati di questo voto, perchè come rilevato da diversi commentatori ungheresi e internazionali la vittoria di Orbán ha un carattere dirompente nelle proporzioni e potenzialmente addirittura epocale nelle conseguenze di medio periodo per l’Ungheria, ma anche per l’Europa.
I dati sono chiari: il partito di Viktor Orbán ha ottenuto il 48,9% dei voti di lista (pari a 2,6 milioni di elettori): quasi 4 punti percentuali in più del 2014. E’ un risultato che si avvicina (3,5 punti in meno) al massimo storico del 2010, quando Fidesz era stata issato al governo con una maggioranza plebiscitaria dall’incapacità dei governi di centro-sinistra, che avevano retto l’Ungheria nel quadriennio precedente. Grazie a un sistema elettorale misto elaborato alla vigilia delle elezioni del 2014 (106 collegi uninominali a turno unico, in cui vince il primo classificato, e 93 seggi di lista con sbarramento al 5% nazionale), il partito di Orbán ha ottenuto ancora una volta la supermaggioranza di due terzi dei seggi necessaria a operare modifiche costituzionali.
Mentre tuttavia quattro anni fa il risultato fu accolto con pacata rassegnazione da un’opposizione numericamente sostanziosa ma divisa fra socialisti, destra radicale e verdi, quest’anno nel paese, o meglio in alcuni settori minoritari del paese, sembrava spirare un vento diverso. A fine febbraio, dopo l’inattesa vittoria di un candicato di opposizione alle elezioni comunali supplettive in un bastione governativo, le opposizioni si erano improvvisamente galvanizzate giungendo a ipotizzare accordi di desistenza nei singoli collegi intesi a evitare di consegnare a Fidesz un’altra supermaggioranza: non solo fra candidati ideologicamente „compatibili” (socialisti; liberali di sinistra; ecologisti) ma anche localmente con candidati della destra radicale – ma non più antisistema e razzista – di Jobbik. Nel frattempo, i pochi media a larga diffusione e vicini all’opposizione bombardavano i propri lettori con rivelazioni quotidiane legate alla corruzione, da tutti percepita come sistemica e ormai intollerabile, dei piccoli e grandi „oligarchi” legati al partito di governo e ai terminali politici dei fondi europei. Paradossalmente, proprio questi fondi hanno avuto un ruolo centrale negli anni nell’assicurare all’anti-brussellese Orbán un accesso illimitato alle risorse economiche.
Nel corso di una campagna elettorale di rara aggressività, la comunicazione governativa ha ignorato qualunque tematica concreta, dalle tasse alla sanità, dall’istruzione alle infrastrutture, mobilitando al contrario risorse straordinarie per inculcare nella popolazione il nesso causale Soros/ONU/migranti/terrorismo. Il magnate George Soros, raffigurato come un sobillatore dell’ordine costituito e come l’architetto dell’Europa meticcia e post-nazionale, ha assunto da anni un ruolo centrale nella narrazione mediatica del partito di Orbán.
Come altre volte nella sua trentennale carriera politica, Orbán ha rischiato, puntando questa volta tutto sulla carta identitaria, dunque conducendo una campagna all’attacco, perfino a costo di rinunciare a illustrare i risultati economici e sociali dell’azione di governo, primo fra tutti la crescita economica. Il pubblico ludibrio inflitto a Soros, la denigrazione riservata alle ONG e soprattutto il terrore del „diverso” instillato nella popolazione meno colta e informata sembravano a molti un azzardo non soltanto morale ma soprattutto politico.
Fino al tardo pomeriggio dell’8 aprile, l’ottima affluenza alle urne (quasi il 70% alla chiusura dei seggi) aveva alimentato nei partiti di opposizione la speranza che l’aumentata partecipazione costituisse un segnale della voglia di cambiamento. Nel frattempo arrivavano notizie e segnalazioni di irregolarità, tentati brogli ma soprattutto dell’uso massiccio di quelle che nel mondo post-sovietico si definiscono „risorse amministrative”: l’uso discrezionale e legalmente opaco degli apparati statali e degli organi amministrativi locali in favore del partito di governo: carovane in „sostegno” degli elettori rom in decine di villaggi, lavoratori socialmente utili istruiti dai sindaci, e non da ultimo il rimpolpamento di alcune circoscrizioni nord-orientali con ungheresi dell’Ucraina, dove la doppia cittadinanza è ufficialmente bandita ma informalmente tollerata in cambio di qualche beneficio materiale.
Qualche ora più tardi, i dati reali hanno smentito in pieno qualunque percezione di cambiamento. L’Ungheria rurale, profonda, ignorata dai media e disprezzata dalle classi benestanti, dalla gauche caviar e dai sofisticati intellettuali della capitale ha votato con rabbia e convinzione non contro, ma a favore del proprio primo ministro. Fidesz ha conquistato appena 6 collegi su 18 a Budapest, mentre l’opposizione intera non è stata in grado di strapparne più di 3 su 88 fuori dalla capitale.
Tuttavia, le indagini sociologiche preliminari condotte sul voto indicano che Orbán ha legato a sé anche una porzione non indifferente di classe media (ad esempio molti piccoli imprenditori) oltre a pensionati, agricoltori, operai, disoccupati. Stimolando meccanismi ancestrali di autodifesa identitaria Orbán ha parlato direttamente al cuore e alla pancia di un’Ungheria popolare, proletaria, sgraziata e a volte sguaiata, sconosciuta ai turisti, ai giornalisti e perfino ai leader dell’opposizione, ma perfettamente leggibile per questo animale politico dotato di una rara capacità manovriera.
Nei suoi otto anni di governo Orbán non ha migliorato di molto le condizioni vita delle campagne. Nonostante la crescita economica, l’Ungheria resta uno dei paesi più poveri dell’Unione Europea rispetto al pil pro capite, con un differenziale crescente tra classi medio-alte e ceti deprivati. Molti problemi di fondo aspettano una soluzione, in particolare quelli legati alle infrastrutture stradali e sanitarie; altri sono stati risolti dalla popolazione con la scorciatoria dell’emigrazione per lavoro in Germania o in Austria. Ma tre anni di propaganda statale e governativa ininterrotta, martellante e a tratti ipnotica hanno convinto oltre metà della popolazione dell’imminenza di un’invasione islamica dalla quale solo l’Ungheria e i paesi del gruppo di Visegrád possono salvare l’Europa. Un tema squisitamente virtuale in un paese completamente libero da „migranti” e islamici è stato deliberatamente trasformato in un’arma elettorale perfetta, da rivolgere contro tutti gli oppositori politici e i movimenti civili antigovernativi.
Le conseguenze dell’ennesimo trionfo elettorale di Orbán sono duplici. Da un lato, la disfatta elettorale ha determinato un terremoto fra tutti i partiti di opposizione. A sinistra è stato avviato un prevedibile quanto feroce dibattito sulle cause e le responsabilità della sconfitta (il partito socialista è crollato al 12%, il minimo dal 1990 quando tuttavia si presentava come erede dello screditato partito-stato del socialismo reale). Il leader della destra „normalizzata” di Jobbik, Gábor Vona, ha invece annunciato lunedì 9 aprile il suo completo ritiro dalla scena politica in seguito al risultato del suo partito, secondo con oltre il 19% e 25 seggi parlamentari su 199, ma ben lontano dall’obiettivo di coagulare gli scontenti. L’opposizione esce non solo assai indebolita dalla prova elettorale, ma priva di leader autorevoli e soprattutto di una narrazione da proporre al paese.
Dall’altro lato, il terzo mandato consecutivo proietta il dominio politico del primo ministro ungherese in una dimensione storica. Orbán ha ormai trasformato il sistema costituzionale e l’economia politica di una democrazia post-comunista in un sistema ibrido (o neo-patrimoniale) in cui convivono pluralismo, paternalismo statalista e autoritarismo soft. L’Ungheria di oggi, seppur membro dell’Unione Europea e della NATO, segue percorsi identitari e geopolitici alternativi e, visti in un’ottica di lungo periodo, incompatibili con il suo ruolo in entrambi i sistemi di alleanza e stretto partenariato.