Non molti governanti, dopo un anno al potere, possono vantare la paternità di una politica che ha portato alle morte di quasi diecimila persone e allo stesso tempo conservare tassi di apprezzamento da capogiro tra la popolazione. Ma Rodrigo Duterte, lo sboccato e controverso presidente delle Filippine, che in campagna elettorale si è paragonato ad Adolf Hitler ed è solito insultare i suoi interlocutori (dal Papa a Barack Obama), non è un politico come tutti gli altri.
Secondo un sondaggio realizzato a giugno dall’istituto di ricerche sociali filippino Sws, il 75 % della popolazione è soddisfatto dall’operato del governo, specialmente per quanto riguarda la lotta alla povertà. In un paese in cui quasi 22 milioni di persone non possono permettersi neanche gli alimenti di base, Duterte ha promesso di ridurre l’incidenza della povertà di un quarto in tre anni e la riforma presentata in parlamento per ridurre le tasse sui redditi più bassi ha riscontrato enorme favore. Nel 2016 il Pil è cresciuto del 6,8%, un dato superiore alla media degli ultimi cinque anni, mentre la disoccupazione è scesa dal 6,3% del 2015 al 5,5 del 2016. Esiste inoltre un ambizioso piano di spesa per migliorare le infrastrutture del paese. Ma il sostegno popolare arriva perfino quando si parla di “rispetto dei diritti umani”, benché sia soprattutto la tutela dell’”ordine pubblico” a essere apprezzata. La violentissima guerra alla droga, costata migliaia di cadaveri, ha infatti contribuito a ridurre il numero di crimini nel paese. Questi, secondo un rapporto della polizia locale, sono diminuiti da 159 mila a 79 mila tra luglio 2016 (data di inizio mandato) e marzo 2017. Motivazioni a parte, nessun altro presidente del paese aveva mai raggiunto i livelli di consenso di Duterte.
Il controverso presidente ha però tre spine nel fianco, di cui dovrà liberarsi se vorrà conservare i suoi consensi.
Guerra alla droga. Una delle più importanti promesse elettorali del presidente filippino è appunto la consistente riduzione del consumo e traffico di droga, insieme al giro di attività illegali che ruota attorno al fenomeno.
Duterte l’anno scorso ha promesso di fornire «migliaia di cadaveri» ai becchini – ed è quello che ha fatto. In poco più di un anno sono morte almeno novemila persone, uccise dalla polizia o da gruppi illegali di vigilanti improvvisati nei quartieri delle città dove agivano i criminali. Basta essere sospettati di trafficare o consumare droga per essere uccisi senza alcun processo, e la violenza è alimentata dall’impunità garantita dalla politica presidenziale. Solo il 15 agosto, uno dei giorni più sanguinosi in assoluto, sono state uccise 32 persone. Come rivelato da un’inchiesta dell’agenzia Reuters, ogni poliziotto riceve 10mila pesos (160€) per ogni tossicodipendente ucciso, 20mila per ogni “pusher”, 50mila, un milione o 5 milioni (80.000 €) per ogni responsabile dello spaccio o signore della droga.
Né l’allarme lanciato dalle grandi organizzazioni umanitarie né quello gridato dalla Chiesa cattolica sono serviti a fermare Duterte, che ha usato toni più concilianti nei confronti della politica anti-droga solo recentemente, dopo la morte dell’ennesimo ragazzino. Il 6 settembre il 14enne Reynaldo de Guzman è stato trovato morto in strada, il 18 agosto era stato ucciso un suo coetaneo mentre il 16 dello stesso mese era stata la volta del 17enne Santos ad essere raggiunto da armi da fuoco per errore durante un’operazione anti-droga della polizia. In tutto, sono 54 i minori rimasti uccisi in un anno. Le ripetute manifestazioni di protesta per le strade della capitale hanno convinto Duterte a giurare che i colpevoli verranno trovati e puniti e che nessuno, al contrario di quanto dichiarato in precedenza, ha davvero licenza di uccidere indisturbato. Fino ad ora la popolazione ha sopportato il pugno duro del presidente, ma morte di questi ragazzini ha scosso l’opinione pubblica, forse abbastanza da costringere il governo a cambiare rotta. Resta da vedere se la priorità di “legge e ordine” continuerà a dominare il quadro politico.
Lotta al terrorismo. Rodrigo Duterte si trova ad affrontare la più grave minaccia terroristica che un paese del Sud-est asiatico abbia mai conosciuto negli ultimi decenni.
Nell’isola meridionale di Mindanao, dove è in corso una guerriglia con organizzazioni comuniste e jihadiste fin dal 1969, miliziani del Maute e Abu Sayyaf (gruppi che hanno aderito allo Stato Islamico nel 2014) hanno cercato di conquistare un’intera città per stabilirvi la capitale di un “Califfato asiatico”. La scelta è caduta su Marawi, 200mila abitanti in prevalenza musulmani. Il 23 maggio l’intera città è stata occupata da centinaia di jihadisti, che hanno preso in ostaggio decine di persone, mentre 180mila residenti scappavano già dopo le prime ore dell’offensiva. L’esercito è intervenuto subito per riconquistare la città, ma dopo tre mesi di guerra casa per casa e bombardamenti a tappeto, che hanno ridotto Marawi a un agglomerato di macerie e scheletri di palazzi distrutti, i jihadisti controllano ancora alcuni quartieri. Dall’inizio dell’offensiva sono già morte più di 800 persone.
Sconfiggere la guerriglia sarà fondamentale per Duterte, se vuole dimostrare di poter davvero garantire la sicurezza del paese. L’attacco di Marawi, infatti, ha distolto il presidente da uno dei suoi principali obiettivi: firmare una pace duratura con l’esercito comunista Nuovo Esercito Popolare, che combatte contro i governi delle Filippine fin dagli anni ‘70. Duterte ha promesso che porrà fine a un conflitto che ha già causato la morte di 30mila persone negli ultimi decenni, ma per ridare lustro alle trattative di pace, già naufragate e riprese diverse volte, deve prima sventare la minaccia del terrorismo islamico.
Politica estera. Il successo della presidenza Duterte dipenderà in larga parte dalla riuscita della sua politica estera. L’ex sindaco di Davao è il presidente che ha viaggiato di più nella storia del paese, con 21 visite internazionali in un solo anno. Molti giornali locali l’hanno definito “iperattivo e spendaccione” ma tra contratti firmati e promesse di investimento, Duterte ha già raccolto 40 miliardi di dollari, 21 solo dalla Cina – molto interessata ai rapporti economico-diplomatici con un paese tradizionalmente filo-americano.
Il presidente conta su questi fondi per finanziare la lotta alla povertà, obiettivo fondamentale in un paese dove un quarto della popolazione vive con meno di un dollaro al mese.
Il rapporto con la Cina è cruciale. Duterte ha dichiarato più volte di voler attuare una politica estera «indipendente» e di volersi distaccare dal suo più importante alleato: gli Stati Uniti. Anche se, diversamente da quanto minacciato, non ha mai cancellato le esercitazioni militari congiunte in funzione anti-Cina, con due viaggi a Pechino in un solo anno ha dimostrato di volersi avvicinare al paese di Xi Jinping. Addirittura ha dichiarato che se il Dragone continuerà a violare i trattati internazionali nel Mar Cinese meridionale, dove Pechino sta moltiplicando basi militari e rotte commerciali, pur in caso di confronto bellico non chiederà l’aiuto degli Stati Uniti come prevederebbe il patto di reciproca difesa firmato nel 1951 tra USA e Filippine.
Il tentativo di smarcarsi da Washington per avvicinarsi a Pechino, senza però rompere del tutto l’antica alleanza con gli Stati Uniti, secondo molti osservatori è un gioco pericoloso. D’altronde, i frutti sperati tardano ad arrivare: la maggior parte dei 21 miliardi promessi da Xi Jinping, di fatto, non hanno ancora preso la via di Manila.