Le proteste contro la guerra a Gaza nei campus universitari degli Stati Uniti sono divenute una questione nazionale nel giro di poche settimane. Si tratta di una protesta destinata ad avere effetti potenziali sulla politica estera dell’amministrazione Biden?
Questo è tutto da vedere, ma certo alle pressioni di una parte dell’establishment di politica estera preoccupato per le conseguenze di una politica mediorientale che non soddisfa nessuna delle parti coinvolte, si somma quella di una parte politicamente attiva della società. In un anno elettorale come questo le preoccupazioni del Partito Democratico riguardano anche la tenuta di una coalizione che, a differenza di quella repubblicana, è meno omogenea e fatta di componenti diverse che occorre convincere tutte a non disertare le urne. E così il disagio dei giovani, degli arabi americani, degli ebrei rischia di essere un problema elettorale enorme sia in termini di immagine che in termini strettamente aritmetici.
Le proteste non sono solo alla Columbia di New York e in altre università come Berkeley che hanno una popolazione studentesca tradizionalmente militante, ma sono già giunte in 55 campus. Il numero maggiore è concentrato nella costa Est o in centri urbani dove hanno sede le università della Ivy League, dove vivono ampie minoranze ebraiche e musulmane – e dove, aspetto da non sottovalutare pensando alla composizione dell’elettorato, vengono eletti molti dei rappresentanti della sinistra del Partito Democratico.
Per capire le proteste nei campus contro la guerra a Gaza che tanta attenzione stanno attirando da parte di media, politica e opinione pubblica planetaria è importante guardare ai dati delle rilevazioni statistiche in materia di Medio Oriente. Tutte le indagini a campione condotte negli ultimi anni e negli ultimi mesi segnalano come i punti di vista cambino in maniera drastica a seconda dell’età della persona intervistata.
Prendiamo i dati del Pew Research Center che indicano come solo il 38% degli under 34 ritenga che Israele abbia delle ragioni valide per combattere Hamas contro il 58% gli americani in generale e il 76% gli over 65. A ritenere che il modo in cui la guerra a Gaza viene condotta sia inaccettabile è il 46%, contro il 34% del campione complessivo e il 29% degli over 65 – accettabile rispettivamente per il 21%, 38% e 53%. I giovani sono anche più critici del modo scelto dall’amministrazione Biden per gestire la situazione e il divario generazionale permane anche quando si parla dell’aiuto militare a Israele.
Questi dati non ci aiutano a capire dove stiano le ragioni di questa differenza che non è, se parliamo dei campioni del Pew, antisemitismo delle giovani generazioni: il 63% dei giovani si dice contrario al richiamo alla violenza nei confronti degli ebrei (stesso dato per i musulmani) e solo il 10% ritiene che quei richiami siano tollerabili. A definire accettabili i richiami alla violenza contro questi gruppi sono un Repubblicano su cinque e un Democratico su dieci. Se di antisemitismo e islamofobia si tratta, allora, stiamo osservando un fenomeno di destra precedente la strage del 7 ottobre 2023 e l’invasione di Gaza – oppure una diversa prospettiva sul primo emendamento che sancisce la libertà di espressione, cioè la contrarietà libertaria a vietare di affermare qualsiasi cosa.
Un ultimo dato viene da un sondaggio Gallup, le cui rilevazioni periodiche hanno sancito da tempo un cambiamento generalizzato di attitudine nei confronti di Israele, più accentuato tra i giovani ma comune a tutte le generazioni. Alla domanda “Approvi il modo in cui Israele sta conducendo le operazioni a Gaza?” il 55% risponde “No” e solo il 36% “Sì”. A novembre 2023 i “Sì” erano il “50%”.
Tutti questi numeri ci aiutano a leggere le proteste diffuse nei campus in maniera meno emotiva: negli USA c’è un cambiamento di opinione riguardo al conflitto israelo-palestinese che ha molte ragioni e tra queste c’è senza dubbio la presenza al governo di Benjamin Netanyahu e le politiche di colonizzazione nella West Bank per la maggior parte degli anni in cui un under 30 ha memoria – la seconda intifada finisce vent’anni orsono.
Le proteste hanno anche aperto un’ampia discussione sulla questione dell’antisemitismo. Nelle tendopoli spuntate sui prati ben rasati dei campus universitari, si è letto in molti resoconti, gli studenti ebrei si sentono minacciati e non è raro che vengano insultati o aggrediti. I sondaggi ci segnalano che sia ebrei che musulmani ritengono di aver osservato un aumento negli episodi di maltrattamenti, aggressioni e molestie. Le occupazioni e proteste, poi, hanno come ulteriore risultato quello di mettere pressione sulle leadership delle istituzioni universitarie, con i grandi donatori che minacciano di chiudere i rubinetti dei finanziamenti e i dissidi nel corpo accademico tra chi difende le proteste e chi le ritiene inaccettabili nel linguaggio e nei metodi.
Le proteste appaiono come l’ennesimo argomento su cui la società americana si divide e nel quale la rappresentazione di quanto accade è anche il prodotto di un posizionamento pregiudiziale e di identità comunitarie che tendono a cancellare le ragioni dell’altro. Generalizzando: i musulmani americani sentono che la questione palestinese (e il suo portato simbolico legato ai luoghi sacri dell’Islam presenti in Israele) venga ignorata e negletta per via della storica amicizia di Washington con lo Stato ebraico e non vedono l’emergere di toni e atteggiamenti che confinano talvolta con l’antisemitismo; da parte loro, gli ebrei identificano la rabbia nei confronti di Israele con un pregiudizio nei confronti della loro comunità ma tendono a ignorare quanto avviene nei Territori occupati o la brutalità con la quale il governo Netanyahu ha condotto le operazioni militari a Gaza.
Le tendopoli nei campi sarebbero un problema relativo se non alimentassero una discussione su antisemitismo, islamofobia e ruolo delle diverse comunità all’interno di un Paese dove tutto è divenuto oggetto di divisione, polarizzazione e, dunque, di esagerazione nei toni usati nella discussione pubblica. Le proteste sarebbero una tra le tante se non fossimo in un anno elettorale e se la Convention democratica del 19-22 agosto non si svolgesse a Chicago, città dove nel 1968 le manifestazioni contro la guerra in Vietnam trasformarono l’appuntamento in un disastro che contribuì a determinare la vittoria di Richard Nixon nel novembre successivo. Le organizzazioni arabo-americane, che hanno già organizzato la protesta alle primarie portando decine di migliaia di persone a votare “uncommitted” e non Joe Biden per la nomination democratica, hanno annunciato manifestazioni per agosto. La mobilitazione studentesca in un periodo di vacanza universitaria potrebbe far diventare di massa quelle proteste. Le divisioni nell’opinione pubblica sulla guerra a Gaza sono anche interne al partito e agli eletti, il che è un ulteriore problema di immagine per l’amministrazione Biden. C’è la preoccupazione che giovani, sinistra e porzioni dell’elettorato afroamericano disertino le urne a causa dell’atteggiamento assunto nei confronti della guerra a Gaza, e c’è il tema del voto moderato che potrebbe scegliere di non votare se spaventato da una Convention agitata da manifestazioni, scontri e arresti.
Raramente le elezioni presidenziali USA si vincono o perdono a causa della politica estera, ma con un voto che tutti i sondaggi annunciano come molto incerto, anche piccoli segmenti di elettorato rischiano di determinare il risultato finale. A oggi l’amministrazione Biden ha tenuto un atteggiamento che sembra guardare alla nuova drammatica fase della vicenda israelo-palestinese con occhi del XX secolo.
Come indicano i sondaggi, però, la società americana nel suo complesso, e non solo i giovani, sembra aver cambiato parzialmente punto di vista. E così Biden, il Segretario di Stato Antony Blinken e il Consigliere per la Sicurezza Nazionale Jake Sullivan dovranno cercare di navigare un mare complicato nel quale gli scenari internazionali e la politica elettorale si intrecciano come raramente in passato. Nel 1968, come nel midterm del 2006 e nel voto del 2008, il partito nella posizione di gestire una crisi internazionale che generava proteste sul fronte interno ha perso consensi.