Le nuove priorità americane e la giovane sovranità europea

In un lungo colloquio pubblicato dalla Fondation Schuman nell’ottobre scorso, l’ex presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker ha spiegato con il tono provocatorio a lui congeniale che la presidenza Trump è stata in fondo per l’Europa “una benedizione, perché ci ha obbligati a diventare adulti”. A suo parere, il nuovo nazionalismo americano ha indotto i paesi europei a riflettere seriamente sul futuro dell’Unione e sul ruolo che la costruzione comunitaria deve avere nel garantire, tra le altre cose, la sicurezza del continente.

L’elezione di Joe Biden alla Casa Bianca modificherà solo in parte una tendenza ormai ventennale segnata da uno strisciante Entfremdung, allontanamento. Certo, il nuovo presidente americano smusserà gli spigoli e vorrà tentare un riavvicinamento tra le due sponde dell’Atlantico, forte della sua esperienza diplomatica, ma nei fatti Donald Trump ha contribuito negli ultimi quattro anni a gettare le basi di una nuova sovranità europea. Proviamo quindi a ribaltare la prospettiva. Non chiediamoci quanto la nuova presidenza Biden modificherà i rapporti transatlantici: piuttosto, interroghiamoci su come la nuova Europa, sulla scia della pandemia da Covid-19, stia modificando il rapporto tra Bruxelles e Washington.

 

UE-USA, UNA TENDENZA VENTENNALE ALL’ALLONTANAMENTO. Nel giugno 2020, il ministro degli Esteri Heiko Maas ha avuto parole sorprendenti per uno statista tedesco. “Chiunque si dica convinto che con un presidente democratico il partenariato transatlantico tornerà al passato sottovaluta alcuni cambiamenti strutturali. Le relazioni transatlantiche sono straordinariamente importanti, restano importanti, e stiamo lavorando perché abbiano un futuro. Ma per come sono oggi, non rispondono alle esigenze dei due blocchi”. In questi ultimi anni le incomprensioni tra Europa e Stati Uniti sono state numerosissime: dal commercio bilaterale alla questione iraniana, dalla crisi della nato al rapporto con Israele. Imprevedibile ed erratico, il presidente Trump ha scombussolato le carte, alzato i toni, provocato tensioni.

Il caso tedesco è particolarmente significativo perché ben riflette l’evoluzione del rapporto tra Stati Uniti ed Europa, al netto delle differenze tra i paesi europei nel gestire la relazione con la Casa Bianca. Faremmo un errore ad attribuire il cattivo rapporto tra Berlino e Washington al solo presidente Trump. Da due decenni ormai la relazione è andata peggiorando.

Gli attentati terroristici del 2001 hanno generato profonde incomprensioni tra la Germania e gli USA. Dopo aver appoggiato la guerra in Afghanistan, condotta dai neoconservatori evangelici di George W. Bush, l’allora cancelliere Gerhard Schröder ha criticato la guerra in Iraq. Nello stesso modo in cui la Ostpolitik di Willy Brandt negli anni Settanta ha modificato in profondità l’approccio della Germania Ovest nei confronti del Patto di Varsavia, indipendentemente dalla tradizione politica del cancelliere in carica, la Westpolitik di Gerhard Schröder ha segnato come non mai le relazioni tedesco-americane nei due primi decenni di questo secolo, nonostante il successivo arrivo al potere di Angela Merkel. Da anni ormai in Germania la popolarità degli Stati Uniti è in declino. Molti tedeschi hanno una visione negativa di un paese che nell’Ottocento godeva invece di una straordinaria ammirazione. Nel 1827 Goethe scriveva: “Amerika, du hast es besser” (America, sei la migliore).

Il Cancelliere Willy Brandt e il presidente USA Richard Nixon nel 1973

 

IL SOLLIEVO PER L’ELEZIONE DI BIDEN. Ciò detto, è evidente che Donald Trump ha peggiorato ulteriormente il clima. Oltre alle accese critiche dell’establishment americano contro il surplus commerciale tedesco, l’ex ambasciatore americano a Berlino Richard Grenell ha usato nei confronti del paese in cui rappresentava gli Stati Uniti toni aggressivi e quasi insolenti, in particolare quando si trattava di criticare la modesta spesa militare tedesca. Altro motivo di tensione è stata la costruzione del gasdotto Nord Stream ii tra la Germania e la Russia, che Washington teme possa mettere in crisi le sue esportazioni di gas liquefatto verso l’Europa. Nervosismo è emerso anche quando l’establishment americano ha cercato di convincere gli europei a non utilizzare la tecnologia 5G della cinese Huawei.

Allargando il quadro, il presidente Trump si è attirato critiche quando ha deciso di spostare la rappresentanza diplomatica americana in Israele da Tel Aviv a Gerusalemme, di abbandonare l’Accordo sul Clima raggiunto a Parigi nel 2015, di rinnegare l’accordo sul nucleare iraniano.

La politica estera del presidente uscente è stata segnata da palesi scelte unilaterali. È comprensibile che da questo lato dell’Atlantico l’arrivo alla Casa Bianca di Joe Biden sia stato accolto con un sospiro di sollievo. Il nuovo presidente, urbano e civile, è un vecchio frequentatore delle cancellerie occidentali. È probabile che il suo metodo di lavoro sarà più conciliante e aperto nei confronti dei vecchi alleati europei. In un articolo pubblicato da Foreign Affairs nel numero di marzo-aprile 2020, Biden scriveva: “Il mondo non si organizza da solo. Per settant’anni gli Stati Uniti, sotto la guida di presidenti democratici e repubblicani, hanno avuto un ruolo di primo piano nella stesura delle regole, nel forgiare gli accordi e nell’animare le istituzioni che guidano le relazioni tra le nazioni e fanno progredire la sicurezza collettiva e la prosperità – fino alla presidenza Trump. Se continuiamo ad abdicare a questa responsabilità, allora accadrà una di queste due cose: o qualcun altro prenderà il posto degli Stati Uniti, ma non in modo da far progredire i nostri interessi e i nostri valori, o nessuno lo farà, e ne deriverà il caos. In entrambi i casi, questo non conviene all’America”.

 

IL FUTURO DEI RAPPORTI TRANSATLANTICI E LA NUOVA POSTURA UE. L’impronta multilaterale è chiara, la riaffermazione dell’Accordo di Parigi sul clima probabile, il desiderio di un’atmosfera più serena nelle relazioni internazionali anche. Eppure, è lecito essere cauti. Il presidente eletto dovrà fare i conti con l’ala sinistra del partito democratico, guidata da Elizabeth Warren e Bernie Sanders. Questi ultimi vogliono innanzitutto proteggere la classe operaia americana e hanno dei rapporti internazionali una visione che flirta con l’isolazionismo. Non è chiaro se Joe Biden, (che, dopotutto, ha adottato come uno dei suoi slogan in campagna elettorale Buy American), vorrà rimettere in discussione alcune delle scelte di Donald Trump.

Lo slogan protezionista di Joe Biden

 

Non mi riferisco tanto ai dazi sull’acciaio e l’alluminio importati dall’Europa, criticati anche dal neopresidente, quanto al desiderio di difendere la politica agricola americana o di proteggere le grandi imprese digitali da una nuova tassazione internazionale, voluta fermamente dagli europei. Nel suo articolo per Foreign Affairs Biden ha parlato dell’importanza dei “valori”, un termine che utilizzò a suo tempo George W. Bush lanciandosi in guerra contro l’Iraq e l’Afghanistan. Più del presidente Trump, il candidato Biden ha criticato le ambizioni di Pechino nel Mar Cinese Meridionale, la persecuzione delle minoranze uigure o la repressione del regime cinese a Hong Kong.

In questo contesto, il presidente Biden rischia di illudersi se pensa che alla mano tesa americana corrisponderà un abbraccio europeo. Come accennato, il futuro del rapporto tra Bruxelles e Washington non dipenderà solo dalla politica americana ma anche dalla nuova postura europea. Un semplice riallineamento con Washington non è più un dato di fatto in Europa. In questi ultimi anni, i Ventisette hanno guadagnato in termini di assertività, di consapevolezza di sé, di autonomia. La controversa presidenza Trump, il nuovo nazionalismo cinese, turco o russo, l’instabilità del Vicino Oriente, l’uscita del Regno Unito dall’Unione, il gravissimo shock economico provocato dalla pandemia: sono tutti fattori che stanno inducendo i Ventisette a stringere le fila. Certo non mancano le divisioni tra i paesi membri, ma guardata da una prospettiva più ampia la strada percorsa negli ultimi anni è tutt’altro che banale.

 

L’UE SULLA STRADA – NON FACILE – DELLA SOVRANITÀ. Nel 2017, in un discorso alla Sorbona, il presidente francese Emmanuel Macron parlò della necessità di dotarsi di una sovranità europea. Molti allora reagirono con prudenza, cautela, se non scetticismo. A tre anni di distanza, gli elementi di una possibile sovranità europea si stanno moltiplicando. La premessa è che sulla scia dell’uscita di Londra dalla costruzione comunitaria stanno scemando e progressivamente scomparendo le tradizionali differenze tra l’unione monetaria a 19 e l’Unione Europea a 27. In questi mesi, alcune scelte simboliche sono passate quasi inosservate. Le prime riguardano la Banca centrale europea, incredibilmente non più banca della sola zona euro.

Nel Consiglio europeo del marzo scorso, i leader dei Ventisette – non soltanto quelli della zona euro – hanno “sostenuto l’azione risoluta della BCE” nel reagire allo shock economico provocato dalla pandemia. Sarebbe stato possibile con il Regno Unito, geloso della sua secolare moneta e dello storico ruolo della Banca d’Inghilterra, intorno al tavolo? Probabilmente no. La presa di posizione di marzo ha autorizzato la presidente dell’istituto monetario Christine Lagarde a intervenire pubblicamente durante il lungo vertice europeo di fine luglio dedicato al bilancio comunitario per il prossimo settennato per esortare i Ventisette – non soltanto i leader della zona euro – a trovare una intesa. Inoltre nelle scorse settimane, per la prima volta, la BCE è intervenuta al tradizionale seminario tra i commissari che la Commissione europea organizza al ritorno dalla pausa estiva.

Ancora a proposito dell’economia, i Ventisette – traendo la lezione dalla pandemia – vogliono perseguire una nuova “autonomia strategica”. In buona sostanza, intendono rimpatriare almeno in parte le catene di produzione, adottare una tassa alla frontiera calcolata sul contenuto di co2 dei beni importati in Europa, spingere su temi quali il clima e il digitale, selezionare con molta attenzione gli investimenti provenienti da paesi terzi, e adoperarsi per proteggere dalle mire di società straniere le banche-dati europee, nuove e lucrative fonti di attività economiche.

Altre scelte simboliche, che confermano il nascere di una nuova sovranità europea, riguardano la libera circolazione delle persone. I paesi membri dell’Unione Europea (27) non corrispondono ai paesi membri dell’Area Schengen (in tutto 22), ma ormai formalmente le differenze tra le due entità politiche e geografiche si stanno stemperando, certamente nel discorso pubblico e nella pubblicistica, ma anche a livello istituzionale. A proposito della riapertura delle frontiere esterne ai paesi terzi dopo le restrizioni della primavera, le riunioni a livello diplomatico prima della pausa estiva si sono svolte a 27. Vi hanno partecipato anche paesi che non appartengono all’Area Schengen – l’Irlanda, la Croazia, la Bulgaria, Cipro, e la Romania. Ne è scaturita una raccomandazione del Consiglio, non dei paesi dell’Area Schengen. Lo stesso sta avvenendo in queste settimane mentre i paesi stanno discutendo di una possibile armonizzazione delle regole relative alle quarantene o ai test.

Nel contempo, per la prima volta i paesi dell’Unione Europea si stanno dotando di un embrione di politica economica e industriale comune, finalizzato a rispondere alla recessione di questi mesi, accettando che la Commissione europea si indebiti sui mercati finanziari per un totale di 750 miliardi di euro. Mai in passato ciò era avvenuto per un importo così elevato.

Le differenze di approccio rispetto alla crisi del 2008 sono evidenti. Certo, i piani per la ripresa economica restano nazionali, ma il denaro che li finanzierà è comune e i singoli progetti verranno approvati a livello comunitario secondo linee-guida europee. C’è di più. Le prime emissioni obbligazionarie – legate al progetto SURE per finanziare la cassa integrazione a livello nazionale – hanno mostrato rendimenti competitivi con quelli dei titoli tedeschi. I paesi membri stanno toccando con mano i vantaggi di indebitarsi in comune. Anche se alcuni paesi rumoreggiano, il precedente non potrà non influenzare le scelte future.

Intanto, avanza inesorabilmente, sia pure tra molte difficoltà, il dibattito pubblico su una qualche forma di armonizzazione fiscale. La presenza di grandi imprese digitali capaci di eludere l’imposizione a livello nazionale sta inducendo i Ventisette a riflettere su forme di tassazione comunitaria. Alla discussione contribuisce la necessità di rimborsare i 750 miliardi di euro che la Commissione europea prenderà a prestito sui mercati finanziari nei prossimi mesi.

 

UN’UNIONE FINALMENTE PIÙ ADULTA, ANCHE GRAZIE ALLA BREXIT. Stiamo assistendo a un processo lungo e complesso di sovrapposizione tra Unione Europea, Area Schengen e zona euro. L’esito è incerto, ma la tendenza non è banale, perché in fondo lo spazio di circolazione delle persone, la politica monetaria, la politica economica, la politica industriale, la politica fiscale, la politica commerciale, la politica sanitaria (i Ventisette hanno dato mandato alla Commissione europea di negoziare con i produttori di vaccini l’acquisto di un lotto comunitario) sono tutti elementi formativi di una qualche forma di sovranità. È vero che il termine sovranità non piace a molti. Troppo carico di significato: secondo il vocabolario Zingarelli per sovranità si deve intendere “il potere supremo di comando a livello statale”. I paesi baltici sono preoccupati di perdere la loro recente indipendenza; l’Ungheria e la Polonia hanno fatto del nazionalismo uno strumento politico; i paesi scandinavi temono nuove forme di dirigismo economico.

Ciò detto, le scelte pratiche appena elencate riflettono in fondo la consapevolezza nelle file degli establishment nazionali di come, lasciando l’Unione, il Regno Unito si illuda di ritrovare la propria sovranità (Global Britain, dicono i brexiteers). È sempre più chiaro che il paese, nonostante le sue straordinarie risorse, rischia di essere in balìa di attori più grandi, più potenti e magari più spietati. Peraltro la stessa Brexit, così come la presenza alla Casa Bianca di un presidente americano che ha messo in dubbio l’alleanza con l’Europa, ha contribuito a nuove forme di cooperazione rafforzata tra i paesi europei in campo militare, impensabili fintanto che il Regno Unito era uno Stato membro dell’Unione per via della ritrosia di Londra ad accettare l’integrazione politica.

Certo, non vi è ancora una alleanza militare che possa sostituire la NATO, ma i primi passi sono stati compiuti. Più in generale, con la partenza di Donald Trump, Varsavia o Budapest perdono a Washington un alleato politico, e potrebbero essere costrette a rivalutare il loro legame comunitario.

Le relazioni tra Bruxelles e Washington si preannunciano dunque ricche di novità. Non solo per l’arrivo alla Casa Bianca di Joe Biden, e per un inevitabile aggiustamento in corsa della politica estera americana, ma perché – forse per la prima volta dalla fine della guerra – il rapporto sarà segnato da una nuova postura europea, più consapevole del ruolo internazionale dell’Unione, più assertiva nel difendere gli interessi comunitari, più adulta nell’affrontare il minaccioso mondo esterno, per usare l’espressione dell’ex presidente della Commissione europea Juncker.

Non è immaginabile una rottura tra i due blocchi – troppo profondi sono i legami economici e finanziari e anche politici – ma Washington scoprirà un’Europa meno accomodante e possibilmente più unita. Come disse un giorno Paul Valéry, “il futuro non è più quello di una volta”.

 

 


Questo articolo è stato pubblicato sul numero 91 di Aspenia

 

 

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