La guerra fra Hamas e Israele mette in difficoltà anche le monarchie del Consiglio di Cooperazione del Golfo (CCG), impegnate in percorsi di diversificazione economica post-idrocarburi che richiedono stabilità regionale. È anche per centrare obiettivi economici così ambiziosi che gli Emirati Arabi Uniti (dal 2019) e poi l’Arabia Saudita (dal 2021), hanno ricalibrato le loro politiche in Medio Oriente, optando per distensione e cooperazione economica che includesse anche Israele dopo anni di iper-competizione e assertività, anche militare.
Il fattore saudita
Di solito, il prezzo del barile di greggio tende ad aumentare in contesti di crisi e il nuovo conflitto premierebbe le monarchie, come già avvenuto dopo l’invasione russa dell’Ucraina nel 2022. Stavolta, la guerra è però in Medio Oriente e il rischio, per le capitali arabe del Golfo, è molto più alto. Gli storici legami del movimento-milizia di Hamas, palestinese e sunnita, con le Guardie della Rivoluzione Islamica, iraniane e sciite, nonché con gli altri attori armati non-statali filo-Teheran del quadrante (come gli Hezbollah libanesi, le milizie sciite pro-Assad della Siria e i gruppi armati dell’Iraq), conferiscono alla guerra tra Hamas e Israele una notevole dimensione regionale, accentuando così il rischio dell’allargamento ad altri attori e/o fronti.
Dall’inizio del conflitto, gli osservatori si sono concentrati sull’atteggiamento dell’Arabia Saudita. Fino al 7 ottobre, Riyadh era infatti impegnata, di concerto con gli Stati Uniti, in un lento ma progressivo percorso di normalizzazione delle relazioni diplomatiche con Israele, che sarebbe dovuto culminare nell’adesione ai cosiddetti Accordi di Abramo – già firmati da Emirati Arabi, Bahrein, Marocco e Sudan. È probabile che il ´fattore saudita` abbia giocato un ruolo decisivo nella scelta del timing dell’attacco, con modalità terroristiche, da parte di Hamas. Il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman (MbS) aveva dichiarato in un’intervista che “ogni giorno che passa ci avviciniamo di più a un accordo” con Israele: era il 20 settembre 2023. Il ministro della Comunicazione del regno si era poi recato in Israele il 2 ottobre scorso per una conferenza, nella stessa settimana del ministro del Turismo di Riyadh.
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Il percorso di normalizzazione tra sauditi e israeliani verrà congelato, ma non interrotto. Riyadh teme l’allargamento del conflitto (come dimostra la telefonata fra MbS e il presidente iraniano Ebrahim Raisi) e la messa in stand-by dei negoziati permetterebbe inoltre ai sauditi di provare l’ultimo equilibrismo: riposizionarsi per provare a mediare nella crisi. Tuttavia, la stagione degli Accordi di Abramo è un processo di portata storica incentivato anche dal rinnovamento delle classi dirigenti e dei sovrani del Golfo. Nonostante le forti pressioni a cui lo ´schema di Abramo` sarà sottoposto – dalla durezza dell’assedio israeliano di Gaza alla rabbia delle piazze arabe pro-palestinesi- esso è destinato a proseguire, almeno come dialogo informale, anche da parte saudita. Tra l’altro, Emirati Arabi e Israele hanno avviato, in soli tre anni, tanti investimenti economici e collaborazioni industriali (energia, infrastrutture, high tech e innovazione digitale, industria della difesa). Bahrein e Israele hanno persino siglato, nel 2022, un accordo di sicurezza in materia di intelligence, industria della difesa ed esercitazioni militari congiunte.
Il legame Qatar-Hamas e la diplomazia di Doha
C’è un altro aspetto da tenere d’occhio per comprendere l’impatto di questa guerra sugli equilibri del Golfo: l’approccio differenziato delle monarchie nei confronti di Hamas. A conflitto iniziato, il Qatar ha diffuso un comunicato molto duro nei confronti di Israele, il più duro di tutte le monarchie dell’area: Doha ritiene il governo israeliano “il solo responsabile dell’escalation in corso”. Invece, Emirati Arabi e Bahrein sono stati gli unici nel CCG a citare esplicitamente Hamas nei loro secondi comunicati, puntando il dito anche contro il movimento-milizia. Per Abu Dhabi gli attacchi di Hamas rappresentano “una seria e grave escalation”, mentre per Manama essi “costituiscono una pericolosa escalation che minaccia le vite dei civili”. La spiegazione va ricercata negli Accordi di Abramo, di cui emiratini e bahreiniti sono firmatari, oltreché nei rapporti con l’Iran.
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Paradossalmente, è proprio l’emirato del Qatar, che ha preso una posizione così netta e pertanto sbilanciata allo scoppio del conflitto, a essere sollecitato come mediatore da Stati Uniti e da paesi europei come la Germania. La ragione va cercata nella rete di rapporti che Doha ha coltivato negli anni con Hamas. Dal 2014, l’emirato degli Al Thani è infatti tra i principali donors della Striscia di Gaza, con l’approvazione di Israele, e dunque ha una relazione consolidata con Hamas, al punto da ospitare a Doha molti dei suoi dirigenti. Grazie ai 30 milioni di dollari mensili che il Qatar dona alla Striscia, Hamas è in grado di pagare gli stipendi pubblici a Gaza, sotto la sua amministrazione, e riceve carburante: solo dal 2021, gli aiuti qatarini per Gaza vengono distribuiti tramite i meccanismi delle agenzie delle Nazioni Unite e non vanno direttamente cash a chi controlla la Striscia dal 2007, pratica che lasciava aperti molti interrogativi rispetto al loro effettivo utilizzo. Per esempio, gli aiuti finanziari degli Emirati Arabi e dell’Arabia Saudita per Gaza vengono forniti tramite le agenzie delle Nazioni Unite. Già nel 2012, l’allora emiro Hamad bin Khalifa Al Thani (padre dell’attuale emiro Tamim) fu il primo capo di stato a visitare Gaza dall’ascesa al potere di Hamas. C’è un altro elemento che rende Doha un potenziale mediatore: i buoni rapporti con l’Iran, che finanzia, arma e addestra il movimento-milizia palestinese.
Il Qatar è attualmente il primo intermediario diplomatico tra Stati Uniti e Iran. Il 18 settembre scorso, Doha ha mediato uno scambio di prigionieri fra statunitensi e iraniani: un accordo che ha inoltre scongelato 6 miliardi di dollari di proventi petroliferi dell’Iran in Corea del Sud, ora in deposito presso un istituto di credito qatarino. Dal 2021, Doha è inoltre impegnata nel tentativo di rilanciare l’accordo sul nucleare iraniano (Joint Comprehensive Plan of Action, JCPOA) tramite un’attività di shuttle diplomacy tra americani, europei e iraniani.
Durante la presidenza Biden, la Casa Bianca ha ulteriormente rafforzato la partnership con l’emirato: molto ha pesato il ruolo diplomatico e logistico giocato dal Qatar durante il completamento del ritiro dei soldati USA e l’evacuazione del personale diplomatico dall’Afghanistan nel 2021. Nonché la scelta di entrare nel defense contact group per l’Ucraina – unica monarchia del CCG a farlo – dopo che l’emiro aveva definito “ingiusta” la guerra scatenata dall’invasione russa. Posizionamenti che nel 2022 sono valsi a Doha la designazione di major non-NATO ally. Sono tante le ragioni per cui Washington auspica dunque che il Qatar possa mediare con Hamas come mediò con i talebani, anche se il contesto e le cause della crisi tra Hamas e Israele sono molto diverse (e l’esito del precedente afghano dovrebbe comunque inquietare, almeno i paesi occidentali).
Qatar ed Emirati divisi su Hamas
Le reazioni diverse nei confronti di Hamas da parte delle monarchie del Golfo riportano sotto i riflettori gli approcci divergenti di Qatar ed Emirati Arabi alla politica mediorientale. Paesi che, dopo la crisi del 2017, quando Emirati Arabi, Arabia Saudita e Bahrein ruppero le relazioni diplomatiche con il Qatar, boicottandolo e sottoponendolo a un embargo senza precedenti, hanno ristabilito relazioni diplomatiche solo nel 2021 (Accordi di al-Ula). Innanzitutto, Doha e Abu Dhabi si differenziano su Hamas per la vicinanza del movimento-milizia alla Fratellanza Musulmana (che ne fa parte, anche se ha allentato i legami dopo il 2017). Fra le 13 richieste al Qatar che gli emiratini e i sauditi avevano inoltrato al governo di Doha nel 2017, ai tempi dell’embargo, c’era proprio la fine del sostegno qatarino alle organizzazioni legate alla Fratellanza. Dopo le rivolte arabe iniziate nel 2011, il Qatar aveva infatti appoggiato i Fratelli Musulmani nella regione (per esempio, in Egitto, Tunisia e Libia), mentre gli Emirati Arabi (e in parte anche l’Arabia Saudita) erano stati i loro primi oppositori.
In secondo luogo, Qatar ed Emirati hanno una posizione differente rispetto all’Iran, primo sponsor di Hamas. Doha intrattiene relazioni cordiali con Teheran, anche perché i due paesi condividono lo sfruttamento del grande giacimento gasifero off shore di South Dome/North Pars. Nonostante l’emirato di Dubai ospiti una folta diaspora iraniana e coltivi solidi legami commerciali con la Repubblica Islamica, gli Emirati Arabi – a cominciare dall’emirato-guida di Abu Dhabi – tendono a percepire l’Iran come la prima minaccia di sicurezza nazionale. La federazione emiratina ha un contenzioso territoriale aperto con Teheran a proposito di tre isole occupate (Abu Musa; piccola e grande Tunb) e ha re-inviato l’ambasciatore a Teheran solo nel 2022: era stato ritirato ben sei anni prima, a seguito degli scontri generati dall’esecuzione del religioso sciita saudita Nimr al-Nimr. La terza differenza va identificata nel rapporto con gli attori non-statali. Doha non ha mai nascosto le sue interlocuzioni, come nel caso di Hamas e dei Talebani, mentre gli Emirati li considerano un fattore di potenziale destabilizzazione – specie quando agiscono su base transnazionale come la Fratellanza – rispetto alle strutture statuali e a quel processo di costruzione dello “stato-nazione” che il governo emiratino ha sviluppato, proprio all’indomani delle cosiddette primavere arabe.
La guerra che è tornata a infiammare il cuore del Medio Oriente presenta rischi di stabilità regionale, nonché implicazioni economiche, che preoccupano le monarchie del Golfo. Tuttavia, l’esistenza degli Accordi di Abramo e il rapporto con Hamas disegnano posizionamenti diversi, soprattutto fra Qatar ed Emirati Arabi. È ancora troppo presto per comprendere se queste differenze si trasformeranno in questioni politiche.