Le forze militari ibride dell’Iraq: la Nato e le milizie filo-Iran

Nei giorni in cui la Nato prepara una nuova missione di addestramento militare in Iraq, appaiono sempre più evidenti le contraddizioni interne alle forze militari irachene. Le conseguenze degli squilibri e dei problemi irrisolti nell’esercito dell’Iraq producono e produrranno ricadute politiche innanzitutto, ma anche nelle relazioni civili-militari locali, geopolitiche regionali – perché l’Iran è un attore interessato, e internazionali, sia a livello Nato che nei rapporti fra gli Stati Uniti e la Russia.

La fisionomia del settore militare-securitario in Iraq, forgiatosi anche grazie alla campagna di terra contro Daesh, è ibrida. Sono tre le componenti principali: esercito regolare, reparti d’élite autonomi e milizie formalmente legittimate ma “indipendenti”. All’esercito nazionale regolare si aggiunge infatti; il Counter Terrorism Service (CTS, di cui la prima Brigata è conosciuta come “Divisione Oro”) legato al primo ministro, il corpo meglio addestrato ed equipaggiato, che dal 2016 ha anche lo status di un ministero.; Infine c’è un numero imprecisato di milizie, come Hashd Al-Shaabi o Popular Mobilization Units/Forces (PMU/PMF). Le PMF raggruppano una cinquantina di milizie, quasi tutte sciite, in parte sostenute e addestrate dagli Al-Quds, braccio internazionale dei Guardiani della Rivoluzione dell’Iran comandato dal Generale Qassem Suleimani.

Nel novembre 2016, il parlamento iracheno ha legalmente riconosciuto le PMF come “parte delle Forze Armate dell’Iraq”: fanno capo al primo ministro del Paese, nonché Comandante in Capo, sebbene esse continuino a rappresentare per legge una “formazione militare indipendente”. Questo passaggio ha dunque istituzionalizzato la natura ibrida delle forze armate irachene.

Two Iraqi Shia militians

 

La coesistenza tra esercito, “Divisione Oro” e PMF si è trasformata in coordinamento e cooperazione in alcune fasi critiche della lotta contro il sedicente Stato Islamico. D’altronde, le milizie sciite irachene sono nate nel giugno 2014, in seguito alla caduta di Mosul nelle mani di Daesh: la loro creazione è stata incoraggiata dal parere giuridico del Grande Ayatollah Ali Al-Sistani – leader sciita di origine iraniana, e personaggio chiave nel quadro iracheno – che ha emesso una fatwa per difendere Baghdad e le città sante sciite del paese (le atabat) dall’ascesa territoriale degli uomini del “Califfo”. Per esempio, nella battaglia per Mosul il coordinamento ha funzionato: le PMF sono rimaste nelle retrovie della città, prevalentemente sunnita, mentre esercito e “Divisione Oro” sono entrati nel centro urbano.

Ora, da un punto di vista politico, i delicati equilibri fra esercito, Primo ministro e PMF si intrecciano alle trattative per la formazione del nuovo governo, nonché alle proteste sociali nella città meridionale di Bassora. E le contraddizioni di questo sistema ibrido stanno uscendo allo scoperto. Alla fine di agosto, il premier Haider Al-Abadi ha licenziato Falih Alfayyadh, capo delle PMF e, al contempo, suo consigliere per la sicurezza nazionale. In precedenza, lo scontro politico si era acceso quando il vice capo della PMF, Abu Mahdi Al-Muhandis, aveva ordinato alle milizie sciite di ritirarsi dalle zone liberate da Daesh, soprattutto sunnite, su richiesta dei politici locali: secondo la Costituzione, il capo delle forze armate è però appunto il Primo ministro: spetterebbe dunque a lui una decisione del genere. Com’è evidente, tale grado di ibridazione – se mal gestito –  confonde la catena di comando, riduce l’area dell’accountability e amplia quella della potenziale impunità, aprendo la strada a pericolosi conflitti di competenze.

Le milizie sciite, nel frattempo, sono diventate attori influenti politici non solo a livello di potere locale, ma anche in politica nazionale, grazie a “Fatah Alliance”, la lista guidata da Hadi Al-Ameri (capo della milizia legata al Supremo Consiglio Islamico dell’Iraq) arrivata seconda alle elezioni dell’8 maggio scorso. Le proteste sociali a Bassora, nel sud a prevalenza sciita, scoppiate alla fine di agosto, hanno inciso sulle trattative per la formazione del nuovo esecutivo: Muqtada Al-Sadr, leader della coalizione “Sairun”, uscito vincitore dalle urne, ha rotto la nascente alleanza con il partito di Al-Abadi chiedendo le dimissioni del premier, per tentare una coalizione di governo con Al-Fatah e con la lista “State of Law” dell’ex primo ministro Nuri Al-Maliki.

Una situazione del genere suggerisce due riflessioni: la politica irachena post-Califfato è, sul modello di quella iraniana, sempre più legata alla convergenza tattica tra fazioni, ora declinata, ancora prima che sull’asse sciiti/sunniti, lungo il discrimine pro-Iran/anti-Iran. Inoltre, per gli Stati Uniti e la Nato, un governo Sadr-Ameri-Maliki sarebbe il peggiore degli esecutivi possibili, dato che valorizzerebbe il ruolo delle milizie sciite, soprattutto filo-iraniane (in questo caso l’eccezione è Sadr), di cui sarebbe espressione.

Da una prospettiva geopolitica, l’Iraq fornisce all’Iran profondità strategica nel Levante ed è quindi centrale nella competizione con i sauditi per l’egemonia in Medio Oriente. Sarebbe tuttavia un errore pensare alle milizie sciite irachene come a un unicum, oppure come un’arma al servizio esclusivo di Teheran, data la loro grande eterogeneità.

Le PMF hanno tre ´anime` principali. La prima si ispira all’ayatollah Ali Khamenei, attuale “Guida Suprema” dell’Iran, ed è quella che più resiste a una reale integrazione nelle forze di sicurezza irachene. La seconda guarda ad Al-Sistani, il più grande ayatollah dell’Iraq e figura in qualche modo di mediazione, e ha un respiro più nazionale; la terza, legata a Moqtada Al-Sadr, privilegia anch’essa una visione nazionale, a cui però aggiunge una critica all’influenza di Teheran in Iraq. Il nuovo esecutivo di Baghdad (le trattative sono al momento in corso), contribuirà alla ridefinizione dei rapporti di forza anche all’interno delle PMF. E le milizie sciite dovranno scegliere, nel breve-medio periodo, se optare per un approccio collaborativo o invece per l’aperta rivalità con l’esercito regolare, specie se le proteste dovessero propagarsi nel resto del paese.

È in questo contesto che la Nato dispiegherà la sua nuova missione irachena (circa 500 addestratori), sotto il comando del Joint Force Command di Napoli. L’iniziativa di capacity-building, che ben rientra negli obiettivi strategici dell’Alleanza Atlantica già delineati nel Vertice di Varsavia del 2016, sarà inizialmente guidata dal Canada. Prosecuzione della Nato Training Mission del 2004-2011, nonché della missione di formazione degli ufficiali dell’esercito di Baghdad ospitata dalla Giordania sin dal 2016, l’impegno della Nato si affianca a quello dell’Unione Europea per il sostegno alla riforma del settore militare e alla strategia nazionale di contrasto al terrorismo (EUAM, European Union’s Advisory Mission to Iraq, missione iniziata nell’autunno 2017). Il primo obiettivo della presenza degli addestratori Nato in Iraq sarà formare i militari iracheni sul contrasto a Daesh, che sta già dando segni di rinnovata attività terroristica a nord di Baghdad (Tarmiya) e lungo il confine siro-iracheno: la professionalizzazione delle forze armate è decisiva per prevenire che gruppi jihadisti tornino a controllare sacche di territorio.

Il vero nodo è proprio qui: la Nato addestrerà anche le PMF filo-iraniane, ormai diventate parte essenziale delle forze di sicurezza dell’Iraq? Il premier Al-Abadi intanto ha dichiarato che le attività di training Nato includeranno anche i peshmerga, l’esercito curdo del Kurdish Regional Government (KRG), anch’esso già in prima linea contro gli uomini del “Califfo”. Di certo c’è cheil rapido deterioramento delle relazioni fra Stati Uniti e Iran rende ancora più scomodo il ruolo della Nato in Iraq, e delle truppe americane che prenderanno parte alla missione dell’Alleanza Atlantica. Inoltre, l’asse fra Teheran e Mosca in Medio Oriente aggiunge un altro tassello problematico: nonostante i russi abbiano un coinvolgimento assai minore in Iraq rispetto alla Siria, la grande interdipendenza fra i due paesi renderebbe difficile isolare eventuali incidenti.

Quando la Nato iniziò il suo impegno in Iraq, nel 2004, l’esercito nazionale era stato appena sciolto dalla coalizione anglo-americana che depose Saddam Hussein, nell’ambito delle politiche di de-baathificazione, e Al-Qaeda in Iraq (AQI), guidata dal giordano Abu Musab Al-Zarqawi, cresceva tra il malcontento sunnita. Dalle macerie di quel dopoguerra, è emerso un settore della sicurezza ibrido, in cui forze regolari e milizie, anche istituzionalizzate come le PMF, coesistono alternando, sul campo, rivalità e coordinamento. Nel frattempo, la galassia jihadista si è riorganizzata e “irachizzata”, divenendo una presenza endemica nel tessuto comunitario degli arabi sunniti avulsi dal governo centrale e dalle sue istituzioni.

Il ruolo dell’Iran in Iraq, grazie alle milizie sciite, è centrale e il prossimo governo potrebbe dare loro ulteriore spazio: sarebbe davvero paradossale se la Nato, negli anni dell’amministrazione Trump, addestrasse i proxy di Teheran sul suolo iracheno. Ma in fondo, la lotta al sedicente Califfato ha già unito, indirettamente, americani e iraniani dopo il 2014, così come, in Iraq, ha fornito un obiettivo operativo comune a esercito, peshmerga e PMF.

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