E’ abbastanza stupefacente l’intesa mostrata nel recente incontro (25 aprile) tra Donald Trump ed Emmanuel Macron. I due presidenti infatti rappresentano, non solo per le loro biografie o addirittura per l’apparenza, due opposti. Uno, il miliardario americano outsider della politica che si rivolge direttamente al popolo; eletto con il voto decisivo delle fasce operaie bianche, delle regioni deindustrializzate, in nome della ri-nazionalizzazione degli interessi americani: tagliare le unghie alla globalizzazione, sforbiciare impegni e operazioni strategiche nel mondo. L’altro, non solo “portato” ma anche prodotto dall’establishment francese: il quadro ministeriale con amicizie importanti in tutti i settori che contano, covato dal sistema accademico superiore (Sciences Po e ENA), votato dall’élite cosmopolita e nelle aree dinamiche e innovative, alfiere liberale e fautore della riduzione della sovranità nazionale in favore delle istituzioni europee.
Il faccia a faccia di Washington tra Trump e Macron prometteva scintille: parte della stampa americana, schierata contro il suo Presidente, si augurava una lezione liberal di savoir vivre politico da parte del Capo di Stato francese. L’incontro si è trasformato invece in qualcosa di già visto: nel canovaccio classico della superpotenza mondiale che mostra le sue carte alla media potenza europea. La media potenza, da parte sua, le accetta cercando di ricavarne qualche piccolo vantaggio particolare, mentre i temi di contrasto (in questo caso il clima, o la politica commerciale) spariscono dal tavolo.
Sui temi del colloquio (Iran, Siria), infatti, il punto di vista americano ha prevalso senza che Macron protestasse – salvo poi far passare il messaggio che il suo obiettivo era quello di “moderare” gli eccessi della controparte, e che in qualche modo l’obiettivo sarebbe stato raggiunto. Questa è la misura che esprime l’”intesa”: al di là delle biografie, Trump e Macron sono tornati a rappresentare i loro Paesi secondo precise coordinate geopolitiche che non sono cambiate nonostante la narrativa e l’immagine (il populista grossolano, il liberale raffinato) in cui i due uomini sono immersi. Sull’Iran, Macron ha detto che non si “strappa” un accordo già concluso, ma ha accettato l’idea di imporre a Teheran per altri 7 anni di bloccare il suo programma nucleare e missilistico (con un nuovo accordo, peraltro tutto da negoziare). Sulla Siria, di fronte alla conferma di Trump di un progressivo ritiro delle forze americane dalla regione, Macron ha ribadito il suo interventismo, e che la Francia è disponibile ad aumentare il suo contributo alla “coalizione”, per la “lotta al terrorismo” – il presidente americano ha invece sottolineato, più sinceramente, come l’obiettivo nella guerra in Siria è contenere l’influenza iraniana, il che lega i due scenari a doppio filo. L’impostazione americana, chiaramente, prevale.
Una tale vittoria diplomatica di Washington ci aiuta anche a comprendere meglio alcune dinamiche in corso tra Europa e Stati Uniti. La prima è che Emmanuel Macron non è andato negli Stati Uniti a sostenere il punto di vista dell’Unione Europea. Il presidente francese se ne è ben guardato: il suo scopo è stato quello di ottenere un ruolo importante per la Francia nella nuova strategia americana in Medio Oriente.
Il compito di avvocato dell’UE, semmai, in quanto esponente del Paese che ne detta la linea economica, se lo è sobbarcato Angela Merkel nell’incontro di poche ore successivo, il 27 aprile, quando infatti i sorrisi e le grandi cordialità sono stati sostituiti dal gelo. La Cancelliera tedesca ha chiesto che il Presidente USA rinunciasse ai dazi su acciaio e alluminio dall’Europa, e a rompere l’accordo nucleare con l’Iran. Invano. Donald Trump, per tutta risposta, ha voluto ricordare come con la sua politica commerciale (basata sul surplus di esportazioni ai danni delle produzioni USA) e di difesa (basata sulle spese militari NATO, cioè anzitutto americane) l’Europa tenga un atteggiamento poco meno che parassitario nei confronti degli Stati Uniti.
Perché questa distanza? Perché nella nuova fase che si è aperta con la vittoria di Donald Trump e con la Brexit nel 2016 si verifica uno spostamento del mondo anglosassone dal campo del liberalismo globale a quello del nazionalismo e della rivalorizzazione delle frontiere (proprio in questi giorni il Regno Unito ha annunciato il reclutamento di un migliaio di nuovi agenti doganieri, in previsione dell’uscita dall’UE). E’ una tendenza presente anche nel Vecchio Continente, ma ancora minoritaria a Berlino e a Bruxelles, dove invece si continuano a macinare accordi di libero scambio – Giappone, Canada, Vietnam – e a presentarli come i grandi successi diplomatici dell’Unione.
L’Europa insomma, ben lontana dalla sua compiutezza politico-istituzionale, oltre ad essere priva di una vera struttura diplomatica, si sta ritrovando più sola che mai sullo scenario internazionale – se non, appunto, per gli sforzi continui sul piano commerciale. La mancanza, grave, esisteva già prima; ma è la solitudine strategica europea nella nuova epoca che sembra rendere meno sostenibile per il suo futuro, nel medio periodo, la presa degli Stati e delle relative élite politiche sulla costruzione comunitaria. La UE per crescere, per “compiersi” – scrollandosi di dosso il ruolo importante ma limitante di “produttrice di norme” e basta – deve allargare le sue radici, aggiungere al suo edificio il pilastro della cittadinanza.
Ma stati ed élite politiche nazionali, che hanno fondato la UE, non vogliono rinunciare a guidarla. Lo dimostra il clamoroso diniego del Parlamento europeo all’idea di costruire liste transnazionali per le prossime elezioni, nel maggio 2019. Le liste resteranno rigorosamente nazionali, usate (pur con eccezioni) dai partiti nazionali per contarsi o riprodursi a livello europeo, e per riflettere (e controllare) le classi politiche nazionali nella loro articolazione continentale.
Siamo molto lontani, insomma, dall’idea di “Stati Uniti d’Europa” che il presidente francese ama ripetere durante i suoi discorsi. A maggior ragione senza la convergenza politico-economica con il mondo anglosassone, i singoli stati europei hanno di fronte a loro un destino da free rider, da battitori liberi (in condizione di debolezza) sulla scena internazionale: proprio ciò che è successo nella dinamica tra l’europeista Macron, finito a difendere gli interessi di bottega, e Trump.
Eppure non sarebbero poche le sfide su cui l’élite potrebbe decidersi a coinvolgere più direttamente la cittadinanza europea. Dal punto di vista economico-tecnologico, persa la rivoluzione digitale, investire sull’intelligenza artificiale. Sviluppare un sistema di difesa che tenga conto dell’evoluzione della cibernetica, e una politica culturale che non si limiti solo all’Erasmus. Stroncare il dumping fiscale e sociale crescente tra le diverse aree dell’UE. Risolvere il nodo di una burocrazia amministrativa onnipotente che spesso, nella capitale, è più forte della politica (perché più competente sulla complessa materia europea, e slegata da vincoli di obbedienza e di carriera con i partiti e gli stati nazionali). Affrontare il tema scomodo dell’immigrazione e della demografia.
Chissà se le “convenzioni”, idea accettata dai governi dell’Unione (esclusa l’Ungheria) lanciate proprio da Macron in un discorso tenuto in settembre ad Atene, siano la soluzione giusta. Queste convenzioni non saranno assemblee costituenti, ma semplici dibattiti che dovranno produrre idee da affidare ai rappresentanti europei e ai governi nazionali in Europa. Eppure, nessuna istituzione politica, nessuno stato (tantomeno un “super-stato”) è mai nato senza un momento di partecipazione collettiva che ne legittimasse l’esistenza e il futuro. Tra gli elementi costitutivi delle nuove entità politiche c’è anche, molto spesso, quella dell’identificazione di un opposto, di un nemico interno o esterno da combattere. Per l’attuale Unione, che in questo percorso, grazie alla sua storia peculiare, si trova a metà strada, scelte difficili si stanno avvicinando.