Le parole pronunciate dal sindaco di Milano Beppe Sala – “Basta con lo smart working, torniamo a lavorare” – hanno scatenato la risposta dell’opinione pubblica, che in diversi casi vi ha letto l’idea che lo smart working non sia una vera e propria forma di lavoro.
Ma l’affermazione di Sala può essere più condivisibile in un altro senso: i bar, i ristoranti, i negozi, le attività culturali e ricreative sono fattori che contribuiscono in buona misura all’attrattività delle grandi città, sempre più motori della crescita globale. Questa tipologia di servizi non costituisce un tratto fisso, scolpito nel paesaggio delle grandi città, a differenza, per esempio, della rete di trasporti pubblici locali: soggetti al libero mercato, questi servizi vanno e vengono, a seconda della domanda. Nel momento in cui si materializza in una certa città la domanda per questo tipo di servizi (le cui caratteristiche principali sono tipicamente under 40 e con un livello di istruzione elevato), si sviluppa gradualmente anche l’offerta.
Una volta che l’offerta è presente, aumenta l’attrattività della città e nuove persone vi si vogliono trasferire. Aumenta allo stesso tempo l’offerta di lavoro qualificato: aziende esistenti decidono allora di spostarvi le sedi e aumenta il numero di start-up, attratte dall’offerta di lavoro qualificata, dalla vicinanza a grandi operatori di mercato, e, non ultimo, dall’economia dei servizi – tra cui bar, spazi di co-working, luoghi d’incontro, etc. – che si sta sviluppando, alimentata dal rincorrersi di domanda e offerta di lavoro.
L’esistenza e la varietà di suddetti servizi dipende quindi da un equilibrio instabile che può, per via delle dinamiche sopra descritte, rapidamente tanto decollare quanto degenerare. È giusto dunque porsi la domanda di come questi esercizi commerciali possano convivere con la rivoluzione degli assetti organizzativi aziendali scatenata dal lavoro da casa imposto dalla pandemia. L’obiettivo di favorire un maggiore uso misto dei quartieri, in cui quindi far sì che convivano l’edilizia residenziale e quella a scopo produttivo e commerciale, anche grazie al maggiore ricorso a spazi di lavoro condiviso o co-working, può rappresentare la risposta nel lungo temine su come conciliare il dinamismo delle città come centri di consumo – di beni materiali come di attività culturali – con l’addio al lavoro d’ufficio.
Per capire come la risposta non debba necessariamente essere quella suggerita da Sala del “torniamo a lavorare”, basta guardare la reazione diametralmente opposta della sindaca di Parigi – città anche questa fortemente sviluppata intorno a una simile tipologia di servizi, come dimostrato dall’infinito numero di terrasse che popolano le strade della capitale francese. Anne Hidalgo ha addirittura invitato le aziende che sono nella condizione di potere continuare a fare ricorso al télétravail di continuare a farlo.
Ma perché la sindaca di Parigi si è mostrata meno in apprensione per la sorte dei piccoli commercianti parigini – i quali pure hanno sofferto un bel colpo a causa dell’evaporazione da un giorno all’altro dell’immenso bacino di consumatori rappresentato in buona parte da turisti? Innanzitutto per ragioni di coerenza con la battaglia politica e culturale di cui la sindaca è promotrice da diversi anni, avente come obiettivo quello di rendere Parigi una città più sostenibile. È, infatti, innegabile che lo “smart working” abbia come grande vantaggio quello di minimizzare una delle principali fonti d’inquinamento nelle grandi città, ossia il pendolarismo giornaliero per andare a lavoro.
Le emissioni di CO2 dovute al trasporto passeggeri su strada – di cui il trasporto urbano rappresenta oltre il 53% – sono cresciute tra il 2000 e il 2017 a un tasso del 2,4%, mezzo punto percentuale in più rispetto al tasso di crescita delle emissioni nel settore trasporti globalmente considerato (International Energy Agency, 2019). L’irruzione del telelavoro nelle nostre vite rappresenta un’opportunità unica per ripensare in maniera radicale il modo in cui ci si sposta all’interno delle grandi città, sempre più affollate.
Occorre dunque scardinare il falso mito che il lavoro in presenza sia fondamentale alla sopravvivenza di questi esercizi commerciali. Non lo è per almeno due motivi.
Il primo ha a che vedere con gli orari di lavoro. È inevitabile che se il lavoro a distanza si associa a un’ulteriore dilatazione degli orari di lavoro, in Italia, dove già il numero di ore lavorate per lavoratore in base a elaborazioni OCSE è tra i più alti in Europa, rimane ben poco tempo da dedicare ad attività di consumo durante la giornata lavorativa. Non rimane che il weekend per le attività di consumo e gli acquisti, la qual cosa è peraltro da diversi anni periodicamente rimessa in discussione dal partito di turno reclamante la necessità di proteggere i diritti dei piccoli commercianti introducendo l’obbligo della chiusura domenicale.
Quando un politico cita le chiusure domenicali in Germania, occorrerebbe ricordargli che in Germania la giornata lavorativa finisce ben prima delle sei di pomeriggio e che quindi le persone hanno il tempo di fare gli acquisti durante la settimana così come i commercianti di realizzare il loro fatturato. In un paese come l’Italia in cui in media si lavora circa il 25% delle ore giornaliere in più rispetto alla Germania, l’introduzione dell’obbligo della chiusura domenicale senza regole che consentano di accorciare la giornata lavorativa di tutti i lavoratori e non solo di quelli che lavorano nei grandi centri commerciali o nella grande distribuzione, tutelerebbe, sì, gli interessi di questi ultimi, ma lederebbe quelli di tutti gli altri lavoratori nonché delle aziende.
Il secondo motivo ha a che vedere con la struttura dei quartieri. Esiste un solo tipo di quartiere veramente vulnerabile a una diffusione su larga scala dello “smart working”: si tratta di quelli “mono-uso” destinati esclusivamente a uffici. L’assenza di edilizia a scopo residenziale in questi quartieri fa sì che non vi sia una domanda stabile a livello locale, e che nessuno delle attività ivi presenti sia in realtà un negozio di “prossimità” ma che tutti dipendano piuttosto dagli spostamenti giornalieri di chi va a lavorare. È interessante notare come una delle più grandi studiose di urbanistica di sempre, Jane Jacobs, già nel 1961 nel celebre The Death and Life of Great American Cities preconizzava il declino di queste zone della città, le cosiddette downtown, estremamente vulnerabili in quanto totalmente dipendenti dalle scelte delle imprese sul dove produrre.
Il lavoro a distanza rilancia dunque l’esigenza di rendere i quartieri delle nostre città più “mixed-use”, di favorire ossia nella medesima area la compresenza di edilizia a scopo residenziale e a scopo commerciale. Questo cambiamento di rotta non beneficerebbe soltanto i quartieri ad alta densità di uffici, rendendoli meno vulnerabili alle scelte delle aziende che ospitano, ma quelli prevalentemente residenziali lontano dal centro, la cui vivibilità e attrattività si è andata deteriorando negli anni, non avendo spesso l’espansione della rete di trasporti pubblici locali tenuto il passo con l’espansione delle città.
Lo “smart working” rappresenta un’opportunità senza eguali per rilanciare questi quartieri. Esistono varie declinazioni di “smart working”. Uno di questi è il co-working, la cui caratteristica è quella della condivisione di un ambiente di lavoro tra persone che non per forza appartengono alla stessa organizzazione. Le città potrebbero impegnarsi, anche in concertazione con il privato, per favorire la creazione di spazi comuni di lavoro anche in quartieri più residenziali.
La valorizzazione del co-working consentirebbe poi di minimizzare un altro rischio associato al lavoro da casa, ossia quello della potenziale perdita temporanea di produttività nelle città. La produttività nelle città dipende, infatti, tanto da quella dei singoli lavoratori individualmente considerati quanto da un premio di produttività aggiuntivo che si realizza in capo al singolo lavoratore o impresa reso possibile dalla diffusione d’idee e di conoscenza per mezzo delle interazioni fisiche più frequenti che la densità nelle grandi città favorisce. Questo bonus di produttività in gergo passa sotto il nome di economie di “agglomerazione”, per la prima volta teorizzate da Alfred Marshall nel 1890 in Principles of Economics.
Sono già numerose le discussioni sul calo o meno della produttività dei singoli lavoratori a seguito dell’obbligo di lavoro a distanza. Diverse ricerche dimostrano come l’adozione di pratiche di ”smart working” a livello di singola azienda risulti associata a miglioramenti nella performance dei dipendenti (si veda per esempio l’esperimento condotto da Nick Bloom, professore di economia a Stanford, sui dipendenti di Ctrip, agenzia di viaggi cinese con oltre 20.000 dipendenti, o quello più recente realizzato da Marta Angelici e Paola Profeta, professoressa di economia presso la Bocconi). Per quanto convincenti, i risultati di queste ricerche sono molto circoscritti e non considerano le ricadute che ci potrebbero essere su altre aziende, a cominciare da quelle situate nella stessa città.
Per capire come il lavoro a distanza beneficerebbe certe aziende ma danneggerebbe altre, e potrebbe provocare una perdita temporanea di produttività per l’ecosistema città considerato nel suo complesso, è necessario capire il ruolo che le città hanno nella diffusione della conoscenza come i luoghi di lavoro la influenzino. Consideriamo un esempio. Le grandi città sono tipicamente contraddistinte da un’elevata presenza di knowledge-intensive services, servizi ad alta intensità di conoscenza e competenze, tra cui, ad esempio, le società di consulenza. Le società di consulenza favoriscono la diffusione di conoscenza, di fatto veicolando il know-how tra le imprese che hanno nel loro portafoglio clienti. Il know-how acquisito dai consulenti lavorando gomito a gomito con i loro clienti potrebbe, però. rivelarsi non sostituibile con quello acquisito durante una consulenza a distanza, bloccando o indebolendo dunque il processo di trasmissione di competenze e conoscenza.
Per quanto in teoria avallato da decenni di letteratura sulle economie di agglomerazione, il calo temporaneo della produttività nelle città causato dal Covid e dal conseguente aumento del lavoro a distanza rimane un’ipotesi da sottoporre al test empirico. È probabile che gli studiosi della materia non tarderanno a farlo, capitalizzando l’opportunità senza eguali fornita dal Covid di testare se le teorie concepite oltre un secolo fa siano ancora valide o se invece nell’era di Internet la prossimità fisica conti ai fini della diffusione della conoscenza definitivamente meno che in passato.
È chiaro che un maggiore uso misto dei quartieri e la creazione di strutture che consentano di lavorare in ambienti condivisi piuttosto che nella “grotta” di casa propria richiedono un’elevata dose di progettualità a livello locale come anche nazionale e un orizzonte di programmazione di medio-lungo termine. Per ribaltare il tasso di attrattività di determinati quartieri agli occhi di imprese e famiglie è necessario un microcosmo di interventi e investimenti che richiedono tempo per essere realizzati.
Ma si tratta di un obiettivo che è arrivato il momento di porsi, affinché gli ambienti urbani possano diventare più sostenibili e resilienti. Lo scatto in avanti, insomma, non sarebbe soltanto in termini di produttività ma anche di benessere e qualità della vita.