L’ammissione dell’Ucraina all’UE e il ruolo della NATO: le ragioni della prudenza

L’ammissione dell’Ucraina all’Unione Europea, addirittura con un percorso accelerato, viene spesso caldeggiata come premio per la valorosa resistenza all’invasione o come indennizzo per l’ingiustizia subita. La questione va invece esaminata oggettivamente sotto il profilo degli interessi dell’UE e degli equilibri geopolitici (non solo nei confronti della Russia), oltre che degli interessi reali dell’Ucraina stessa.

Una manifestazione in favore dell’ingresso dell’Ucraina nell’Unione Europea

 

Più controversa è l’ammissione alla NATO: alcuni, ad esempio Francis Fukuyama su American Purpose, la considerano una pre-condizione per un armistizio, poiché in caso contrario Mosca utilizzerebbe la tregua per prepararsi a sferrare un nuovo attacco. Altri propongono invece di offrire alla Russia la neutralità dell’Ucraina in cambio del rispetto della sua integrità territoriale – una contropartita che poteva forse interessare Putin nel 2008, del tutto insufficiente oggi, visto che il leader russo pretenderebbe buona parte delle quattro regioni annesse e forse anche altro (limitazione delle forniture di armi, archiviazione dei crimini di guerra). In altre parole, oltre un anno di guerra ha indurito ulteriormente le posizioni di Mosca.

Una ingenua formula “di compromesso” spesso gettata nel dibattito alla vigilia dell’invasione, e anche in seguito, proponeva: “l’Ucraina fuori dalla NATO ma nell’UE”. È vero che la dirigenza russa ha sempre visto i piani di ingresso del paese nell’Alleanza come una sfida più grave che la comunque lenta marcia verso l’integrazione politica ed economica nell’Europa centro-occidentale. Ma non va dimenticato che se è il primo scenario ad aver suscitato a Mosca vive preoccupazioni e una reazione politica e poi militare nel 2007-8, fu il secondo a provocare la crisi del 2013-14: Maidan, Crimea, Donbass. Entrambi contrastavano la visione geopolitica di Putin.

Che l’Ucraina andasse nel 2013 a gravitare nell’orbita di Bruxelles e Berlino minava infatti alla base il progetto di Unione Euro-asiatica che doveva fare perno su Mosca ma avere un pilastro indispensabile nel suo vicino meridionale.

Tutto ciò riguarda ormai gli storici. Negli ultimi dieci anni le pretese russe si sono evolute: dalla sfera di influenza al dominio. E l’andamento della guerra ha spostato ulteriormente l’obiettivo dalla sottomissione all’annessione di vasti territori. Putin non può non essere consapevole che ricorrendo alla violenza ha spinto l’Ucraina fra le braccia dell’Occidente, affossando il suo progetto di attirarla nella sua orbita, o quanto meno “finlandizzarla” (termine che d’ora in poi non potremo più usare, visto che la Finlandia ha abbandonato la sua proverbiale collocazione).

Mosca sa che quando taceranno le armi resterà un profondo fossato di risentimento e di sfiducia, e gli ucraini dipenderanno per la loro sicurezza e per la ricostruzione dagli aiuti occidentali. Ma per ragioni simboliche insisterà su una rinuncia di Kiev all’ingresso nell’Alleanza guidata dagli Stati Uniti.

 

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Quanto a ciò che può fare l’UE, l’interesse primario dell’Ucraina (e anche nostro) è che l’Europa fornisca in tempi brevi generosi aiuti alla ricostruzione, e che quelle risorse siano spese bene, al riparo dalla corruzione; non che Bruxelles offra scorciatoie per l’ammissione.

Qualora lo facesse, dovrebbe fare altrettanto per tutti i paesi balcanici, cui è stata promessa l’ammissione venti anni fa, e per la Turchia, che è candidata dal 1999. Sarebbe una rinuncia a mantenere alti gli standard per l’ingresso nell’Unione, e una vittoria per coloro che vogliono non maggiore integrazione ma una diluizione dell’integrazione attraverso un allargamento ecumenico. E andremmo incontro a una paralisi delle politiche che richiedono l’unanimità, in particolare la politica estera e di sicurezza comune.

È comunque ozioso disegnare le future architetture di sicurezza europee ignorando quale sarà l’esito della guerra. Se finirà con una spartizione dell’Ucraina, lungo le  linee attuali, o lungo linee spostate a Ovest dopo una nuova e più fortunata offensiva russa, e senza un accordo sul suo status, è inevitabile che la parte del paese rimasta libera venga accolta nell’UE; e forse  anche nella NATO, venendo così a costituire un contrafforte sul limes della nuova guerra fredda.

Se invece la controffensiva ucraina dovesse avere successo, possiamo ipotizzare che i russi si rassegnino a ritirarsi da buona parte dei territori occupati, ma per “salvare la faccia” pretendano che l’Ucraina si impegni a rimanere neutrale. Sarebbe  un sacrificio più formale che sostanziale. Per l’ Ucraina è importante, in concreto, che ci sia una garanzia di sicurezza, essenzialmente americana, non lo status di membro della NATO che sarebbe uno schiaffo a Mosca ma che inoltre è problematico perché molti membri sono riluttanti a impegnarsi ad applicare l’articolo 5 a un Paese in guerra (in atto o potenziale). Un’incognita sarebbe fra l’altro la ratifica da parte della Turchia.

Non altrettanto vitale è ormai per la Russia la non adesione dell’Ucraina all’Unione Europea. Trovandosi, per ipotesi, in posizione di debolezza, non potrebbe mettere un veto.

Ma lo scenario più plausibile è tuttora quello di un “conflitto congelato”, con il Donbass, e forse  altri territori, sotto controllo russo e il loro status sub judice. Come è stato negli ultimi 30 anni per Georgia e Moldova, sarebbe una pietra di inciampo quasi insormontabile per il cammino verso l’adesione all’Unione, e così pure alla NATO.

Si può obiettare che Cipro è stata ammessa all’UE nel 2004 nonostante l’incertezza sui suoi confini (de jure l’intera isola, de facto solo i due terzi meridionali). In proposito va però ricordato che lo scenario delineato dalla comunità internazionale prevedeva una riunificazione prima dell’entrata in vigore del trattato di ammissione, e infatti questo aveva costituito un forte incentivo per il raggiungimento dell’accordo sul Piano Annan. Il piano fu respinto in extremis da un referendum nel Sud dell’isola, cambiando a sorpresa le carte in tavola, ma a questo punto non si poteva bloccare l’entrata in vigore del trattato per il paese che era sempre stato in testa al convoglio nell’adozione dell’acquis comunitario. Oltretutto sarebbe stata una inammissibile punizione inflitta all’elettorato per un libero voto di autodeterminazione. Quello di Cipro non vale pertanto come precedente.

Promettere, o addirittura pianificare, l’ammissione di un paese in guerra, sia per la NATO che per l’UE, è dunque prematuro – ma non lo è ragionare fin da ora su come gestire gli interessi ritenuti “vitali” da entrambe le parti in conflitto.

 

 

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