Tra le ragioni del successo di Donald Trump e di tutti i populisti in giro per il mondo in questi anni c’è una narrazione chiara della Storia, quella con la S maiuscola. C’è un prima e c’è un dopo: c’era un tempo nel quale l’America era grande e un presente nel quale è decaduta; c’era una fase nella quale la nazione era compatta, fiera, omogenea, con dei valori, e un presente confuso, dominato dal politicamente corretto e bizzarrie come la preoccupazione per la crisi climatica e altre stranezze diffuse da scienziati che vogliono colpevolizzare le persone perbene per il loro passato e privarle della speranza sul futuro.
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Abbandonato il presentismo che riduce la politica alla costruzione del consenso per approvare le misure più efficienti, la competizione per il potere si rivela anche come una sfida tra visioni opposte del passato recente. O meglio, tra usi strumentali della storia. Con questa premessa non dichiarata ma palese, il giornalista della CNN Fareed Zakaria prova a entrare nell’arena brutale della lotta per imporre una visione dominante del passato che possa essere utile a conquistare il presente.
Zakaria ha l’ambizione di essere una specie di gladiatore liberal che sfronda di complessità ogni analisi storica, filosofica ed economica fino a trasformarla in una clava utile da agitare in un talk show o magari in un reel di Instagram. Questo è il suo ultimo libro “Age of Revolutions: progress and backlash from 1600 to the present“. L’arena della lotta per la supremazia intellettuale è, per fortuna di Zakaria, soltanto una immagine mentale, perché altrimenti lui ne uscirebbe sanguinante e malfermo. Ma Se Age of Revolutions è il meglio che la piattaforma liberal di maggiore portata negli Stati Uniti – la CNN – è in grado di produrre, il trumpismo aveva già vinto, prima delle elezioni. Perfino il New York Times, con una recensione di un autorevole e brillante giurista – Tim Wu – ha liquidato il libro di Zakaria come “uno speed date con l’ordine mondiale liberale”.
RIVOLUZIONE E RIVOLUZIONI. È fin troppo facile infierire sulla palese inconsistenza di tutta la parte centrale del libro, quella che dovrebbe sostenere le tesi contenute nell’introduzione e nella conclusione. Ma qualcosa di interessante nel saggio di Zakaria c’è comunque; diciamo che i vuoti sono più comunicativi dei pieni. Le mancanze e le ingenuità rivelano più di quanto vorrebbero.
La premessa del libro è di una banalità disturbante, come spesso accade alle intuizioni politiche fondate nell’etimologia. Avete mai notato che rivoluzione vuol dire due cose opposte, si chiede Zakaria? Cambiamento epocale, se usata nel contesto della storia delle idee, ma anche moto che si ripete sempre uguale in astronomia. Come è possibile? Una domanda tanto profonda quanto inutile sembra suggerita a Zakaria da uno sketch di Robin Williams e da una conversazione con Steve Bannon in Campo de’ Fiori a Roma, quando – par di capire – Bannon spiega a Zakaria chi sia Giordano Bruno.
Con queste premesse, non si possono avere troppe aspettative sull’elaborazione: Zakaria intuisce che rivoluzione è cambiamento e ripetizione perché dopo il cambiamento c’è spesso un contraccolpo di restaurazione o reazione. Dunque c’è la Rivoluzione francese, ma poi arriva Napoleone; c’è la rivoluzione industriale, ma anche i luddisti; c’è la globalizzazione e poi i nazionalisti. Chi cerca una regolarità statistica nel fatto che dopo la pioggia prima o poi arrivi il sereno ha buone speranze di successo. Una simile semplificazione porta Zakaria a sostenere tesi ardite, per esempio che la degenerazione trumpista del partito repubblicano è una risposta alla radicalizzazione del partito democratico, come dimostrano le proteste woke nei campus universitari.
Questo e altri nessi di causalità altrettanto grezzi sono facili da contestare. Nel caso specifico è anche fattualmente errato: il partito repubblicano si radicalizza con i Tea Party durante la presidenza Obama (vedi il libro, più serio, di Mattia Diletti per Treccani, “Divisi“), ben prima di Black Lives Matter, Alexandria Ocasio-Cortez o i movimenti pro-Palestina.
Anche sostenere che la Rivoluzione americana è stata quasi soltanto una lotta per l’indipendenza dalla Gran Bretagna priva di grandi innovazioni istituzionali indica una scarsa familiarità di Zakaria con gli argomenti che tratta (non cita neanche i Federalist Papers o la Democrazia in America di Tocqueville). Sopravvissuto a stento alle ripetute accuse di plagio – che gli sono costate anche una sospensione dalla CNN una volta – Zakaria è ben attento a citare almeno uno storico per capitolo, così da evitare altre contestazioni. Anche se il risultato è dare l’impressione di aver scritto basandosi su una bibliografia misera.
LA FORZA DELLA FRAGILITÀ. Dunque, cosa c’è di interessante in un libro così fragile Proprio la sua fragilità. Se consideriamo Fareed Zakaria emblematico di qualcosa, diciamo il senso comune liberal che mescola presunzione intellettuale e smarrimento di fronte all’avanzata dei barbari, allora il libro diventa imprescindibile. E ci dice le seguenti cose. Primo: mancano idee forti più recenti di quella elaborata da Francis Fukuyama (la citazione è inevitabile per Zakaria e dunque ci tocca anche qui). Cioè, in sintesi, la storia delle idee segue una traiettoria evolutiva che culmina nella democrazia liberale.
L’ultima idea con pretese di universalità – il comunismo – è stata sconfitta al punto tale che in un libro sulle “età delle rivoluzioni” Zakaria elimina quella del 1917 in Russia (perché non rispondeva al suo schema azione-reazione). Zakaria sembra incapace di concepire che populismo e democrazia liberale, xenofobia e pretese di universalismo, schiavitù e desiderio di emancipazione possano coesistere in una tensione costante invece che in una modalità sequenziale. Avrebbe potuto leggere il monumentale “Queste verità – Una storia degli Stati Uniti” di Jill Lepore, una storica che Zakaria, in passato, è stato accusato di plagiare.
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Gli sfugge anche che la rivoluzione non è l’unica cifra del cambiamento; anzi, non è neppure una categoria che spiega il cambiamento di questa fase, caratterizzato invece dall’ibridazione tra modelli diversi: il capitalismo illiberale della Cina, la democrazia autoritaria dell’Ungheria, la tecnocrazia politica della Commissione europea. Il giornalista Vincent Bevins ha indagato il decennio 2010-2020 nel libro “Se noi bruciamo” proprio perché è stato un periodo di forti proteste ma senza rivoluzioni – cioè, senza rotture strutturali di sistema.
Indiano di origine, diventato americano, Zakaria non sembra capace di concepire una storia politica a uso liberal che vada oltre l’Occidente bianco euroatlantico, ma così è impossibile sottrarsi alla narrazione trumpiana e populista che fa coincidere globalizzazione e progresso tecnologico con la perdita di certezze della classe media bianca. E così l’ascesa della Cina e dell’India oltre che l’emancipazione femminile, o perfino la crisi climatica, risultano poco più che note a fondo pagina. Zakaria è un profeta di una svolta intellettuale che non ha gli strumenti culturali per compiere. Indica che la battaglia culturale con la destra nativista e sovranista richiede un uso politico della storia. Ad altri più strutturati il compito di capire quale.
Questo articolo è pubblicato sul numero 4-2024 di Aspenia