L’allarme ucraino e le opzioni occidentali: dissuasione senza ‘escalation’

L’allarme gettato da Washington per i preparativi militari russi nelle regioni limitrofe all‘Ucraina può evocare il ricordo della crisi di Cuba, se non altro perché è scattato in base a foto aeree di nuove istallazioni militari. Come nell’ottobre 1962 la mossa di Mosca si presta a varie interpretazioni e il Presidente americano si trova di fronte ad un difficile dilemma, fra rischiare una escalation e darla vinta all’avversario.

Ma le analogie si fermano qui. Quella di Nikita Khrushov nei confronti di John F. Kennedy fu una sfida alla dottrina Monroe, una avventuristica incursione nel cortile degli Stati Uniti, uno scacco al re, e per di più con armi nucleari; Vladimir Putin si muove nell’ambito della dottrina dell'”estero vicino”, che sottintende la rivendicazione di una propria sfera di influenza entro i confini della ex-URSS: l’equivalente di una dottrina Monroe in versione russa.

Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky in visita a una trincea nella regione del Donetsk

 

Sugli scopi perseguiti da Putin si possono avanzare varie ipotesi (senza che una escluda le altre). Primo, dissuadere l‘Ucraina dall’usare le armi fornite dagli USA e dalla Turchia per una offensiva contro i secessionisti del Donbass. Secondo, dividere gli europei, timorosi di uno showdown con la Russia, dagli Stati Uniti; dimostrare che la NATO è una tigre di carta, e segnare un punto contro Biden. Terzo, e più importante, ottenere una rinuncia definitiva all’ingresso dell‘Ucraina nella NATO.

Meno plausibile, ma non da scartare del tutto, è l’ipotesi di un vero e proprio attacco in preparazione per gennaio-febbraio che secondo l’intelligence americana Putin starebbe prendendo in considerazione ma non avrebbe ancora deciso.

 

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Le preoccupazioni degli ucraini sono comprensibili, dal momento che il presidente russo non ha mai nascosto di considerare la dissoluzione dell‘Unione Sovietica la peggiore calamità del Ventesimo secolo. In un recente articolo ha ribadito che russi e ucraini sono un solo popolo, e ha definito l’attuale politica di Kiev, di rafforzamento della identità nazionale e di avvicinamento all‘Occidente, una minaccia alla sicurezza della Russia.

Ne possiamo desumere che, qualora si verificassero circostanze propizie per una riconquista dell‘Ucraina senza pagare un prezzo politico e di sangue eccessivo, non avrebbe troppe remore a tentarlo. Ma non basterebbero i 175 mila soldati che secondo i servizi americani Mosca sta schierando. Soprattutto, non sarebbero sufficienti ad occupare stabilmente un paese così esteso. E a differenza della chirurgica operazione crimeana, sarebbe una guerra impopolare. Meno irrealistico è lo scenario di un allargamento della zona secessionista a tutto il territorio delle province di Donetsk e Luhansk, e una ripresa dell’offensiva contro Mariupol per poi occupare una fascia lungo la costa fino alla Crimea, assediare Odessa e avanzare fino alla Transnistria; e infine ridurre quanto resta dell‘Ucraina a uno stato cuscinetto.

Le aree interessate dalla guerra in Ucraina

 

Ma anche questo scenario appare assai poco verosimile in mancanza di un valido pretesto. È pensabile solo in caso di una provocazione che porti ad una escalation. Così è stato con la Georgia: Mosca, pur sostenendo nei fatti la secessione di Abkhazia e Sud-Ossezia, non aveva mai negato la loro appartenenza de jure alla Georgia, fino a quando nell’agosto 2008 l’avventurismo dell’allora presidente Mikheil Saakashvili non le offrì il pretesto per un distacco definitivo di quelle regioni, oltre che per una spedizione punitiva in territorio georgiano vero e proprio. Così pure, nel 2014, l’annessione della Crimea e l’appoggio ai secessionisti del Donbass non furono effettuati a ciel sereno, ma approfittando della situazione rivoluzionaria a Kiev con il riemergere di  forze estremiste antirusse.

La Russia di Putin viene perciò spesso definita una potenza “opportunista”, nel senso che non persegue un disegno sistematicamente espansionista ma coglie le opportunità che si presentano, sempre che i benefici superino il costo politico, sul piano sia interno che internazionale.

Poiché tale costo diminuisce quando si reagisce ad azioni definibili come provocazioni, è interesse degli occidentali evitarle, e raccomandare agli amici ucraini di fare altrettanto. Soprattutto quando non si è in possesso di efficaci mezzi di dissuasione o di penalizzazione, o quando questi ultimi sono a doppio taglio.

Quali sono, e quanto efficaci, gli strumenti di dissuasione a nostra disposizione in questo caso? Biden e il suo Segretario di Stato Antony Blinken ribadiscono l’appoggio incrollabile (unwavering support) per la sovranità e integrità territoriale dell’Ucraina di fronte alla „aggressione „ russa; minacciano „serie conseguenze in caso di escalation“, ma si guardano dal prospettare esplicitamente una risposta militare; per non escluderla, non parlano di „sanzioni“ come fanno gli europei, ma la sostanza è quella. Sanzioni che mordono, ma mordono anche chi le mette in atto. Come sarebbe la messa in naftalina del nuovo gasdotto North Stream 2 nel Mar Baltico, che in tempi di insufficiente offerta di idrocarburi penalizzerebbe più i tedeschi e altri europei che i russi. E nuocerebbe ai buoni rapporti fra europei e americani, che certamente premerebbero per l’adozione di tale ritorsione.

Se il principale obiettivo di Putin è quello di allontanare la NATO dalle proprie frontiere, un‘invasione sarebbe assolutamente controproducente: Biden lo ha infatti avvertito, durante il colloquio del 7 dicembre, che reagirebbe con ulteriore assistenza militare a Kiev e spostando truppe e armamenti verso i paesi NATO dell‘Europa orientale.

 

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In conclusione, un attacco a fini di espansione territoriale è, in mancanza di una provocazione, piuttosto improbabile. In caso, le nuove sanzioni danneggerebbero seriamente entrambe le parti, e il clima dei loro rapporti, già molto appesantito. Se, come è molto probabile, l’obiettivo di Putin è in primo luogo quello di ottenere una garanzia che verrà definitivamente archiviato il progetto – solo sospeso nel 2008 – di fare entrare Ucraina e Georgia nella NATO, questo sarebbe un prezzo ragionevole da pagare per arrestare l‘aggravarsi della conflittualità Est-Ovest . Ricordando che l’espansione dell’Alleanza ai paesi del Patto di Varsavia e dei Balcani, e addirittura ai Baltici, aveva già tradito le promesse (verbali) fatte dai Ministri degli Esteri Baker e Genscher, e dal Segretario Generale della NATO Manfred Woerner nel 1990, durante i negoziati per la riunificazione tedesca.

L’affermazione che le armi fornite dagli USA all‘Ucraina, o la sua candidatura all’ammissione nella NATO, costituiscano minacce alla sicurezza della Federazione Russa è evidentemente ridicola, se presa alla lettera. Più che di sicurezza, si tratta di amor proprio, di status internazionale come grande potenza con una propria zona di interessi speciali, per non dire sfera di influenza, che la Russia vuole farsi riconoscere.

Se il colloquio telefonico del 7 dicembre con Putin sarà servito a comunicare a Biden questa non irragionevole esigenza, anche in mancanza di una formale abiura al mantra della „porta aperta“ dell’Alleanza per l‘Ucraina, contribuirà ad attenuare le tensioni della nuova guerra fredda e a scongiurare una nuova guerra calda nei pressi del Mar Nero.

 

 

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