Lo sviluppo economico resta la priorità, ma le minacce interne ed esterne costringeranno la Cina a concentrare sempre di più la propria attenzione sulla sicurezza nazionale. Lo ha lasciato intuire Xi Jinping durante il discorso di apertura al XX Congresso del PCC, in corso a Pechino. La parola anquan (sicurezza) è comparsa oltre 90 volte, rispetto alle 50 del 2017, mentre è stato registrato un calo nell’utilizzo dei termini jingji gaige (riforme economiche) e shichang (mercato).
Pechino, agosto 2011: l’allora vicepresidente cinese, Xi Jinping, confida privatamente all’omologo americano, Joe Biden, il suo più grande timore: che la corruzione e il lassismo ideologico della classe politica cinese diventino l’innesco per una “rivoluzione colorata” in Cina. Era il periodo delle Primavere arabe. La seconda economia mondiale si avviava verso un delicato ricambio politico che solo un anno più tardi avrebbe portato proprio Xi alla guida del paese.
Le proteste nel Nord Africa e del Medio Oriente ebbero solo pallidi riverberi nelle province cinesi. Ma il leader in pectore aveva già chiaro come gli sviluppi oltre confine avrebbero richiesto una riconfigurazione delle priorità nazionali. In un mondo globalizzato anche la pubblica sicurezza e la stabilità interna di un sistema politico non possono che essere condizionati anche da variabili transnazionali.
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Tormentato da quei lontani timori, Xi ha attribuito ai suoi primi due mandati presidenziali forti connotazioni securitarie: ha introdotto almeno otto normative ad hoc, dalla Legge sulla sicurezza nazionale alla Legge antiterrorismo, fino alla più recente Legge sulla sicurezza dei dati. Soprattutto Xi ha cementato la presa del partito sulla polizia e sull’esercito, avviando la prima riforma delle forze armate dai tempi di Mao Zedong.
Nel 2020, secondo il Nikkei, ben 210 miliardi di dollari di spesa dello stato sono stati destinati alla pubblica sicurezza, il 7% in più rispetto alla Difesa. Negli ultimi dieci anni la videosorveglianza è diventata onnipresente nelle megalopoli cinesi, con stime che indicano oltre 200 milioni di telecamere installate. Quattro volte più che negli Stati Uniti. Secondo Comparitech, 8 delle 10 città più monitorate al mondo (Chongqing, Shenzhen e Shanghai) si trovano proprio in Cina. Il controllo sociale ha raggiunto livelli ossessivi nello Xinjiang, la regione cinese al confine con Pakistan e Afghanistan, dove la densa concentrazione di comunità musulmane, i passati attacchi terroristici e le storiche istanze secessioniste hanno spinto il governo cinese a istituire uno dei sistemi di controllo sociale offline e online più invasivi al mondo.
Come nell’antichità, anche oggi le periferie geografiche rappresentano il “ventre molle” del grande Stato cinese. Così il concetto di “sicurezza nazionale” con il suo pesante bagaglio di norme, regole e controlli è stato esteso anche a Hong Kong, dove in risposta alle crescenti proteste pro-democrazia degli ultimi anni il governo cinese ha introdotto (forzando il regime di autonomia successivo alla partenza degli inglesi) una legge che gli dà il diritto di interferire nei procedimenti giudiziari locali quando c’è in gioco la “sicurezza nazionale”. Il virgolettato è d’obbligo perché il termine ha ormai assunto un’elasticità semantica ben superiore all’accezione comunemente riconosciuta.
In effetti, cosa voglia dire oggi sicurezza nazionale nessuno lo sa. Ma sfogliando le pile di comunicati divulgati nell’ultimo decennio è possibile seguire la metamorfosi di questo concetto. Partiamo da una data: il 15 aprile 2014, quando, pubblicando la “Visione generale sulla sicurezza nazionale” (总体国家安全观 ONSO), Pechino esterna un problema. Secondo gli esperti del partito, occorre “cogliere con precisione le nuove caratteristiche e tendenze della mutevole situazione della sicurezza nazionale”. Occorre capire che la fase di “pace e sviluppo” di Deng Xiaoping e il “periodo di opportunità strategiche” di Jiang Zemin sono il passato. Oggi –- secondo l’ONSO –- viviamo in “un mondo né pacifico né tranquillo”. Rispetto ai predecessori, Xi sembra quindi attribuire maggiore enfasi al tema marxista-leninista della “minaccia” e della “lotta per la sopravvivenza” che ha scandito l’ascesainformato gli orientamenti del partito comunista cinese fin dalla sua nascita nel 1921.
Davanti ai venti contrari, secondo L’ONSO la Cina è chiamata a compiere una scelta: può “andare avanti e affrontare maggiori rischi, o ritirarsi indietro e quindi perdere potere e prestigio internazionali”.
C’entrano l’accerchiamento soffocante degli Stati Uniti, la trade war iniziata da Donald Trump ma ormai sposata da tutta la politica americana, e l’escalation militare nel Pacifico con epicentro a Taiwan, ma non solo.
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Problemi interni logorano la classe politica cinese. Alcuni di questi sono più o meno gli stessi che hanno provocato il crollo dell’Unione Sovietica, a partire dalla corruzione dilagante. Da quando Xi è capo del partito, oltre 400 membri del Comitato centrale sono stati indagati dalla Commissione disciplinare, il principale organo anticorruzione affiancato nel 2013 dalla potente Commissione centrale per la sicurezza nazionale, creata per vigilare anche sui funzionari statali.
Il mondo cambia, la Cina cambia, così anche il partito unico –- ormai ultracentenario –- sperimenta inedite tecniche di sopravvivenza, intrecciando le tecniche per perpetuare il proprio potere con quelle per garantire l’esistenza di uno Stato visto come indissolubile dal partito. Nuove priorità e nuove criticità hanno reso necessaria una riformulazione del concetto di sicurezza. Come si evince dalla strategia di sicurezza nazionale 2021-2025, il tratto distintivo della “Xicurezza” è l’onnicomprensività (总体国家安全): con Xi, cadono le distinzioni tra sicurezza interna e sicurezza esterna, tra sicurezza tradizionale e sicurezza non tradizionale: cambiamento climatico, emergenze sanitarie, stabilità alimentare ed energetica, corruzione, e gestione dei flussi migratori sono –- al pari dell’integrità territoriale –- fattori in grado di incidere sulla stabilità interna.
Di conseguenza, la sicurezza nazionale non riguarda più solo il personale in divisa: la difesa della stabilità è una “guerra del popolo”, che coinvolge anche l’uomo della strada. Nella Giornata dell’educazione alla sicurezza nazionale, i bambini prendono lezioni su come affrontare i pericoli, come intossicazioni alimentari o terrorismo, incendi o spie. Nelle megalopoli cinesi, i comitati di quartiere hanno istituito unità speciali per scovare dissidenti e stranieri “sospetti”. Prevenire è meglio che curare. E, con il supporto della sorveglianza digitale, disinnescare i disordini sociali prima che si verifichino oggi è ancora più facile. Così se fino all’altro ieri tutto ruotava attorno al mantra della “stabilità sociale”, ormai è il binomio “prevenzione e controllo” il viatico per la longevità del regime.
E’ una prova di forza o un segno di debolezza? Difficile a dirsi. Da una parte la maggiore sofisticatezza delle politiche securitarie è direttamente proporzionale al crescente sviluppo del sistema amministrativo ed esecutivo cinese. Dall’altra, l’enfasi attribuita alla stabilità interna rivela l’inadeguatezza del vecchio “contratto sociale” stipulato dopo il massacro di Tiananmen del 1989: l’offerta di sviluppo economico in cambio di obbedienza non funziona più. Dopo venti anni di crescita rampante, il rallentamento del Pil impone lo sfoggio di nuove doti persuasive. Se le turbolenze internazionali rendono sempre più difficile dispensare benessere economico, proteggere l’incolumità dei cittadini diventa la nuova specialità del Partito/Stato. “Per ottenere il grande ringiovanimento del sogno della nazione cinese, per garantire che le persone vivano e lavorino in pace e felicità, la sicurezza nazionale è la massima priorità”, aveva sentenziato Xi nel 2016 ponendo l’ “arricchimento glorioso” di Deng Xiaoping un gradino più giù.
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Secondo un sondaggio citato dal ministero della Sicurezza pubblica, “negli ultimi anni il senso di sicurezza tra la popolazione è rimasto forte, passando dall’87,55% del 2012 al 98,62% del 2021”. Stando ai media statali, solo nella provincia dello Hebei 27.600 criminali sono stati arrestati tra il 25 giugno e il 1° settembre, in risposta a un caso locale di aggressione che ha ottenuto ampia risonanza tra l’opinione pubblica cinese. Su scala nazionale, “la campagna dei 100 giorni” contro il crimine ha totalizzato circa 1,4 milioni di detenzioni.
Che esista un nesso tra sicurezza, legittimità e stabilità politica lo dimostra il tempismo degli annunci. L’ultima volta che Xi aveva dichiarato guerra ai “gangli mafiosi” risaliva al 2018, l’anno della controversa rimozione del limite dei due mandati presidenziali. Stavolta a ridosso del XX Congresso del partito (che salvo imprevisti riconfermerà a Xi gli incarichi di Presidente, Segretario del partito, e capo dell’esercito) la lotta contro il crimine ha puntato a rassicurare la popolazione e salvaguardare “l’armonia sociale”. Quindi a cementare la legittimità del Timoniere. Ma anche a sradicare le ultime sacche di resistenza tra le fila del partito.
Il legame tossico tra criminalità e opposizione politica era emerso con l’arresto del figlio di Zhou Yongkang, l’ex ras della sicurezza incarcerato nel per corruzione e sospettato di aver intentato un colpo di stato poco prima della nomina di Xi: Zhou Bin, ancora dietro le sbarre, è stato accusato di avere rapporti con un imprenditore giustiziato nel 2015 per aver diretto una cosca mafiosa.
Anche tra le forze dell’ordine sono rotolate molte teste, compresa quella di Fu Zhenghua, ex ministro della giustizia e capo della polizia di Pechino. Con la recente nomina di Wang Xiaohong –- un protégé di Xi –- alla guida del ministero della Sicurezza pubblica la resa dei conti ha raggiunto un punto di svolta. Se è vero che in Cina il “fucile” (l’esercito), la “penna” (la propaganda) e il “coltello” (la sicurezza interna) sono i tre pilastri del potere, il Presidente è determinato a impugnarli saldamente tutti e tre.
Attenzione, però, perché non si tratta solo di ambizione personale. “La sicurezza politica è il cuore”, spiegava tempo il Dipartimento dell’organizzazione centrale, “e per mantenere la sicurezza politica è fondamentale salvaguardare la leadership, il suo nucleo [Xi], la posizione di governo del Partito comunista cinese e del sistema socialista con caratteristiche cinesi”. Ergo, secondo la vulgata ufficiale, dalla sicurezza di Xi e del partito dipende la sicurezza della nazione e di tutti i cittadini. Un rapporto simbiotico teso a giustificare in un solo colpo le purghe contro gli avversari politici nonché il controllo pervasivo sulla popolazione.
La triangolazione tra sicurezza, stabilità politica e legittimità del potere ha applicazioni anche sul piano internazionale. Pur tenendo fede al principio cardine della non interferenza negli affari altrui, negli ultimi tempi la Cina ha mostrato –- almeno a parole –- una crescente disponibilità a mediare nelle grandi crisi mondiali. Gioca un ruolo fondamentale la necessità di proteggere i propri interessi economici in giro per il mondo. Ma anche la volontà di partecipare in prima linea alla definizione dei futuri equilibri globali e togliersi di dosso l’etichetta di “free rider”. La Cina non più osservatrice passiva, aspira a diventare un attore responsabile della comunità internazionale, laddove gli Stati Uniti paiono esserlo sempre meno – o almeno questa è la narrativa che cerca di diffondere Pechino.
Risponde a questo duplice scopo la Global Security Initiative (GSI), lanciata da Xi lo scorso aprile in occasione del Boao Forum. Un’iniziativa diretta ai Paesi emergenti che, anziché favorire un intervento armato nei teatri di guerra, ufficialmente punta a prevenire i conflitti attraverso “il rispetto reciproco”, il “dialogo senza confronto”, i “partenariati senza le alleanze”, le sinergie “win-win” invece dei “giochi a somma zero”. Ma che nella sua nebulosità è sembrata avere intenzioni molto meno nobili: non è infatti escluso che con la nuova sigla Pechino aspiri piuttosto a barattare accordi di sicurezza e sviluppo economico in cambio di un’adesione politica a una visione del mondo “con caratteristiche cinesi”.