Xi jinping: riscrivere il passato per controllare il futuro

 

 E’ nota a tutti (più o meno a tutti) una frase di “1984”, di George Orwell: “Chi controlla il passato controlla il futuro; chi controlla il presente controlla il passato”. Il presidente cinese Xi Jinping ha deciso di controllare passato, presente e futuro. Il plenum del Partito comunista, la riunione annuale dei 300 e più membri dell’elite politica cinese, ha approvato un documento sulla storia della Repubblica popolare che serve in effetti a proiettare in avanti la leadership di Xi. E’ il viatico al 20° Congresso del PCC, l’anno prossimo, quando l’Imperatore rosso dovrà essere confermato nella sua carica – o meglio nelle sue cariche (il vertice del Partito, dello Stato e dell’esercito).

 

Non è la prima volta che un leader cinese decide di usare la storia a fini politici. Lo aveva fatto Mao Zedong ancora prima della nascita della Repubblica popolare. Nel 1981 Deng Xiaoping, padre delle riforme economiche e dell’apertura della Cina al mondo, utilizzò una seconda Risoluzione storica per chiudere gli errori devastanti compiuti da Mao con la Rivoluzione culturale e varare la nuova epoca.

Xi Jinping adotta oggi lo stesso metodo per cristallizzare il proprio ruolo dominante e controllare una successione che appare conclusa ancora prima di cominciare. Se il traguardo nazionale è di fare della Cina una superpotenza del XXI secolo, Xi Jinping è l’unico leader, dopo Mao e dopo Deng, in grado di garantire un esito del genere: questo il messaggio del Comunicato finale del plenum. E quindi dovrà restare al potere per un terzo mandato di cinque anni – o chissà fino a quando.

 

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Se questa è la filosofia (della storia), la Cina sta in realtà vivendo, con Xi Jinping, uno dei periodi più difficili degli ultimi decenni. Mentre il mondo occidentale si sta faticosamente riaprendo, la Cina resta sostanzialmente chiusa, per effetto di una strategia draconiana di zero tolleranza al Covid fatta di quarantene, stretti controlli delle frontiere e distanziamento. E’ una separazione di fatto dal mondo esterno, che d’altra parte non impedisce accordi parziali come quelli raggiunti ieri con Washington in materia di clima. Come in altre epoche storiche, l’Impero di Mezzo vive oggi una sorta di auto-isolamento. E non sappiamo che paese sarà diventato quando si riaprirà. Perché – notano lo storico Rana Mitter (Università di Oxford) e Gideon Rachman (Financial Times) – chiusura delle frontiere e chiusura delle menti sono sempre andate di pari passo nell’evoluzione moderna della Cina.

Gli effetti sono interni e globali. L’economia della Cina – che era uscita più in fretta degli Stati Uniti e dell’Europa, nel 2020, dalla prima fase del Covid – sta oggi frenando: la crescita del PIL è più lenta di quanto sia mai stata dalla fine del secolo scorso e lo scoppio della bolla immobiliare (caso Evergrande) non aiuta. In parte, è un aggiustamento inevitabile dopo una lunga e rapidissima fase di decollo economico. La leadership cinese è alle prese con i dilemmi tipici della trappola del “reddito medio”: deve riuscire ad aumentare i consumi interni per trainare la crescita ma non è facile farlo agli attuali livelli di reddito, specie in assenza di un sistema di welfare. Il risultato è che l’export, come leva di crescita, resta fondamentale; ma in un contesto globale molto meno favorevole che in passato, per ragioni geopolitiche prima che economiche.

Se l’illusione degli anni ’90 era che la Cina si sarebbe progressivamente integrata in un sistema internazionale disegnato dalle regole occidentali, è ormai chiaro che l’Impero di Mezzo resterà su una propria traiettoria: un capitalismo di Stato controllato dal Partito, secondo una logica rafforzata da Xi negli ultimi anni con una serie di passi (dalla battaglia contro i tycoon cinesi a riforme che limitano il mercato).

La prospettiva non è la convergenza fra le maggiori economie mondiali: è una sistematica divergenza, in un contesto che gli strateghi definirebbero ibrido. Le relazioni economiche, commerciali e finanziarie continueranno: nessuna delle parti – sappiamo quanto vale il mercato cinese per il settore automobilistico tedesco o quanto pesano le riserve in dollari della Banca centrale di Pechino – può affrontare i costi di un “decoupling”, di un disaccoppiamento fra Cina e Occidente.

Ma prevalgono diffidenza e prudenza: Pechino crede ormai che gli Stati Uniti, dalla crisi finanziaria del 2008 in poi, siano avviati a un inesorabile declino; America ed Europa hanno scoperto la vulnerabilità delle catene globali del valore e puntano sul controllo delle tecnologie sensibili. Il confronto fra tecno-democrazie e tecno-autoritarismo dominerà la competizione del secolo. Insieme allo scontro già in atto sugli equilibri in Asia orientale, con il nodo critico di Taiwan.

 

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L’interrogativo vero è fino a che punto, e a che prezzo, Pechino giocherà la carta nazionalista per compensare questa delicata transizione economica e legittimare il controllo politico del Partito. Deng Xiaoping sosteneva che l’ascesa della Cina sarebbe stata più facile mantenendo un basso profilo internazionale. E’ una regola che Xi Jinping ha già deciso di ignorare.

 

 


Una versione di questo articolo è stata pubblicata su Repubblica del 12/11/2021

 

 

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