Il G7 italiano e la via dello sviluppo in Africa: materie prime, filiere industriali e cultura

Per la presidenza del G7 del 2024 il governo italiano vuole mettere al centro le relazioni con l’Africa. Meno di 150 km separano la Sicilia dalla Tunisia, eppure per decenni la diplomazia italiana ha investito poco sulle relazioni con il continente a noi più vicino. Per tutto il lungo Dopoguerra lo sguardo dell’Italia è stato rivolto verso Washington e proiettato ad inserirsi nell’asse Parigi-Berlino. L’Africa non era una priorità, ed in particolare non lo era l’Africa Subsahariana dove i legami commerciali – e coloniali – erano meno forti rispetto a quelli di altri Paesi europei.

La miniera di ferro di Kumba

 

L’attenzione è cresciuta nell’ultimo decennio. Sono stati gli anni dell’aumento del flusso di migranti e rifugiati, delle tragedie in mare e dell’operazione Mare Nostrum (2013-14), seguita dal 2015 da una missione europea, EUNAVFOR MED Operazione Sophia. Dal 2013 innumerevoli sono state le visite bilaterali di Primi ministri e Presidenti italiani in paesi Subsahariani, sono state aperte cinque nuove ambasciate, è stata istituita l’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo, è partita una missione militare in Niger e la Farnesina ha convenuto tre Conferenze ministeriali con i leader africani. Lo sguardo italiano verso l’Africa resta però dettato da urgenze interne: sicurezza energetica e riduzione degli sbarchi di migranti attraverso iniziative di contrasto e aiuti economici. Questi sembrano anche i temi che l’Italia vuole portare al G7 l’anno prossimo e del cosiddetto “Piano Mattei” annunciato fin da ottobre 2022.

Migrazioni e sviluppo economico sono fenomeni collegati ma distinti. L’Europa è diventata, come scriveva Stefano Allevi, l’“America dell’Africa”. Una speranza di salvezza o di successo economico per un continente in esplosione demografica e dove l’età media è vent’anni. Le risorse italiane ed europee per la cooperazione allo sviluppo (prestiti o donazioni a governi e imprese) difficilmente possono incidere sui flussi migratori nell’immediato. Serve un approccio più sottile e paziente. I governi africani chiedono la ristrutturazione di debiti pubblici divenuti insostenibili. Ma soprattutto manca capacità produttiva locale.

 

Un recente rapporto della Conferenza ONU su Commercio e Sviluppo illustra le opportunità in questo senso. La transizione ecologica ha lanciato una corsa alle materie prime critiche per la produzione di batterie, microchip e nuove tecnologie. L’Africa è ricca di questi minerali che vengono estratti localmente, spesso da compagnie a partecipazione cinese, e spediti in Asia per raffinazione, manifattura ed export. Le risorse naturali sono africane ma il grosso dei profitti no, e i Paesi africani sono di fatto dipendenti da catene del valore straniere. Piuttosto che inseguire i cinesi per ottenere accesso a queste risorse, gli europei dovrebbero supportare i Paesi africani nel costruire una propria capacità estrattiva ed industriale, e così diversificare la propria dipendenza dalla Cina.

Per gli europei non è facile investire in materie prime perché le miniere e le raffinerie sono pericolose, inquinano e attirano corruzione. I governi locali non hanno poi dimenticato decenni di sfruttamento coloniale europeo. I Paesi del G7 ribattono che la qualità ingegneristica e tecnologica delle aziende occidentali è superiore alla “Nuova via della seta” cinese. Eppure, non è chiaro cosa significhi fare buone infrastrutture in Africa, e l’Italia ha perso gran parte del suo know how in ambito minerario e raffinazione da decenni.

Altre opportunità sono nella filiera automobilistica, in particolare nella componentistica semplice che è il primo passaggio nella catena del valore dei metalli. Oppure nella telefonia, che ha visto negli ultimi anni una diffusione senza paragoni in Africa, e nei pannelli solari. Gran parte dei minerali e dei metalli utilizzati per la produzione di smartphone e pannelli solari prodotti in Cina arrivano proprio dall’Africa.

Infine, noi europei abbiamo prestato ben poca attenzione alla promozione delle reciproche identità culturali e infatti conosciamo poco della storia e cultura africana. È un errore. Gli affari riempiono le prime pagine dei giornali ma sono presto dimenticati. Il reciproco riconoscimento dei valori dura nel tempo.

 

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Dopo una lunga attesa sul Piano Mattei e il rinvio a gennaio della conferenza ministeriale Italia-Africa, presto il governo italiano dovrà scoprire le carte. Se il Piano Mattei è la semplice riproposizione di accordi sul gas già in discussione, resterà inevitabilmente soggetto alle scosse della politica italiana, africana e mediorientale: sarà quindi destinato a durare poco.

Il contributo italiano diventa invece importante se riesce ad accelerare  un piano europeo insieme alla Banca Mondiale e alla Banca Africana di Sviluppo. Soprattutto servono realismo e concretezza. In passato, grandi numeri e annunci di iniziative mai realizzate hanno alimentato una crescente ostilità della società civile africana verso l’Europa e verso l’ordine internazionale a guida occidentale di cui facciamo parte. La tiepida solidarietà dei governanti africani verso l’Ucraina ne è soltanto una delle dimostrazioni.

Il G7 italiano è un’occasione da non sprecare pe fare un salto di qualità nelle relazioni occidentali ed europee con l’Africa.

 

 


[1] Economic Development in Africa Report

 

 

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