La via cinese alla guerra contro il Covid

Due morti e due aborti. E’ il bilancio ufficiale dell’ultima quarantena di Xi’an, l’antica città imperiale travolta tra dicembre e gennaio da un’ondata di Covid-19. La più intensa registrata dalla Cina negli ultimi due anni. Un bilancio da attribuirsi non alla ferocia del virus, bensì alle misure preventive adottate dal governo cinese per arrestare la propagazione della malattia nel paese. Mentre secondo le fonti internazionali il computo ufficiale dei decessi per Covid è fermo a quota 5.000, la strategia contenitiva adottata da Pechino ha provocato gravi disagi in varie aree della Cina a causa dei metodi coercitivi dispiegati: lockdown chirurgici, test di massa, e il tracciamento dei positivi attraverso l’impiego di app obbligatorie. “Zero Covid”, la chiamano. Una strategia che ha funzionato piuttosto bene in alcune città, decisamente male in altre.

Un viale di Xi’an durante l’ultima quarantena

 

Nel mese di gennaio, a Xi’an, due donne incinte hanno perso il bambino dopo essersi viste negare l’accesso alle cure ospedaliere perché sprovviste di green pass. Un video circolato in rete mostra una delle giovani grondare sangue seduta su uno sgabello. E’ andata anche peggio a un uomo, morto d’infarto perché lasciato senza assistenza medica: proveniva da un’area della città contrassegnata come a “medio rischio”.

Sono incidenti tollerabili nelle fasi iniziali di un’epidemia misteriosa, ma che dopo due anni di convivenza con il virus suscitano malumori tra la popolazione e perplessità riguardo alle capacità gestionali della Cina. O meglio delle “Cine”. Il plurale rende meglio il senso delle diversità che caratterizzano una nazione tanto vasta e complessa, con distinzioni geografiche e sociali abissali.

Sembrava acqua passata. Sacrificata Wuhan, epicentro della pandemia nel 2020 (e fino a pochi giorni fa unica vera città cinese ad aver sperimentato una quarantena totale) il governo di Pechino era riuscito a contenere il contagio con la chiusura selettiva delle aree più colpite. Ma l’accoppiata Delta-Omicron è parsa mettere in discussione la strategia cinese, una delle più restrittive al mondo.

Complessivamente, a metà di gennaio almeno 20 milioni di persone in tre città cinesi sono state sottoposte a lockdown di varia intensità dopo che 30 dei principali centri urbani del paese hanno segnalato decine di casi trasmessi localmente. Secondo un’indagine del New York Times, nel capoluogo dello Shaanxi, circa 45.000 persone hanno sperimentato la cosiddetta “quarantena centralizzata”, una forma di reclusione forzata che prevede la rimozione temporanea delle persone a rischio dalle loro abitazioni e l’isolamento in apposite strutture governative; perlopiù hotel caduti in disuso. Non è chiaro esattamente quante persone siano state o siano tuttora in “quarantena centralizzata” a Xi’an. Ma video rimbalzati sui social network attestano l’utilizzo massiccio della pratica anche nella municipalità di Tianjin, dove lunghe file di pullman sono state avvistate dirigersi in direzione dei centri.

La Cina ha praticamente chiuso i suoi confini ai viaggiatori stranieri, dirottando il traffico aereo internazionale verso poche città (tra cui proprio Tianjin) e riducendolo ad appena 200 i voli settimanali, pari al 2% dei livelli pre-pandemia. Tanto che sono almeno 100mila nella sola Shanghai gli expat ancora in attesa di poter tornare. La Cina è l’unico paese al mondo ad aver attribuito alcuni focolai ai servizi postali e all’importazione di prodotti dall’estero. Non è bastato creare un sistema di sanificazione doganale. Negli ultimi tempi, chi ha ricevuto un pacco dall’estero si è visto cambiare il green pass da verde a giallo, con conseguenti limitazioni alla circolazione.

 

Il modello cinese

Mentre altri Paesi parlano di una transizione da “pandemia” a “endemia”, il gigante asiatico non sembra intenzionato ad accettare una convivenza con la malattia. L’obiettivo primario è quello di prevenire una propagazione del virus nelle zone rurali, dove i servizi sanitari sono ancora carenti. Liang Wannian, capo del gruppo di esperti assoldato dalla Commissione sanitaria nazionale, spiega la logica dietro alla strategia “Zero Covid” sottolineando come “la mobilità e la comodità di pochi vengono compromesse per assicurare la normalità di tutto il resto del paese”. Di fatto, l’unico modo per prevenire una strage. Stando a uno studio dell’Università di Pechino, la Cina potrebbe registrare oltre 630.000 infezioni al giorno se abbandonasse il suo approccio di tolleranza zero e aprisse le frontiere. Scenario che i ricercatori sostengono praticabile solo con una copertura vaccinale più efficiente, l’adozione di terapie farmaceutici, e più letti ospedalieri. Ma è proprio qui che la formula “Zero Covid” comincia a fare acqua.

Sono infatti ormai oltre 1,2 miliardi i cinesi ad aver completato il ciclo vaccinale (più della soglia dell’85% precedentemente ipotizzata dal governo per una riapertura dei confini). Ma la comprovata scarsa efficacia dei sieri prodotti localmente espone la popolazione a facili ricadute. La limitatissima diffusione del virus comporta che solo un’insignificante fetta della popolazione abbia sviluppato naturalmente gli anticorpi necessari a tenere lontana la malattia. Stando così le cose, c’è chi, come lo specialista in malattie infettive Zhang Wenhong, suggerisce di “tornare alla normalità e condividere il futuro con il resto del mondo”. Seppellito dalle critiche online dei netizen più nazionalisti, Zhang è stato indagato (e poi riabilitato) per frode accademica. Segno di come, sebbene tra la comunità scientifica cinese sia in corso un dibattito, a prevalere sia ancora la linea dura. D’altronde, il diktat arriva dai piani alti.

Pechino, in realtà, non ha molte possibilità di scelta. Negli ultimi due anni, l’apparente sconfitta del Covid è servita da una parte a cementare la legittimità della leadership comunista. Dall’altra a riaffermare la superiorità del modello cinese, almeno secondo il regime. Un presunto risultato che viene messo a confronto con il caos fronteggiato dagli Stati Uniti. La lotta contro il coronavirus è stata annoverata tra i principali successi nella risoluzione storica, approvata durante il sesto plenum dello scorso novembre. Ripercorrendo i cento anni dalla nascita del partito, Pechino ricorda come i nostri “sforzi hanno consentito alla Cina di guidare il mondo nel tenere sotto controllo l’epidemia, riavviare il lavoro e la produzione e riprendere lo sviluppo economico e sociale. Con questo grande successo strategico attraverso la nostra risposta, abbiamo forgiato un grande spirito nella lotta contro il Covid-19.”

 

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L’ultima consacrazione del modello cinese è arrivata con i Giochi invernali di Pechino. L’approccio “Zero Covid” è stato esteso all’evento sportivo con l’istituzione di una “bolla anti-Covid” che ha costretto atleti e staff olimpico a spostarsi tra hotel e strutture sportive rigorosamente con veicoli speciali. Chiunque ha lasciato l’ambiente sigillato è stato sottoposto a una quarantena di tre settimane senza possibilità di deroga. Su oltre un milione di tamponi appena 400 sono risultati positivi e nessuna trasmissione è stata rilevata dentro o fuori dalla bolla.

Non sarà facile per il governo scendere a compromessi, dopo aver attribuito la crisi globale all’incapacità gestionale dell’Occidente. Il quotidiano statale China Daily ha recentemente criticato quei paesi che per “mancanza di coraggio” hanno “ceduto all’idea della sopravvivenza del più forte[…]La Cina mantiene la convinzione che ogni vita umana conti e farà tutto il possibile per garantire che nessuno sia lasciato a se stesso. Che nessuno sia lasciato indietro nella lotta contro il virus”. Anche nel paese del partito unico, dove il potere deriva dalla capacità di assicurare benefici materiali e stabilità sociale, disattendere le aspettative dei cittadini rischia di indebolire l’autorità dell’establishment. Un’eventualità più che mai minacciosa a pochi mesi dall’atteso XX Congresso del partito, quando – salvo imprevisti – Xi Jinping diventerà il primo presidente a ottenere un terzo mandato in venti anni. Secondo fonti del Wall Street Journal, è stato proprio Xi la scorsa estate a respingere l’ipotesi di una transizione verso modalità gestionali più permissive.

 

Tra fermezza e pragmatismo

Non potendo fare un passo indietro, all’orizzonte si prospettano metodi sempre più radicali. Alla viglia del Capodanno lunare, quando normalmente centinaia di milioni di cinesi si spostano da una parte all’altra del paese, Harbin, nell’estremo Nord-est, è diventata la prima città cinese ad avviare test di massa preventivi, pur non avendo segnalato alcun caso.

Al netto di ciò, affiorano gli indizi di uno sforzo correttivo. Nei comunicati ufficiali, la strategia “Zero Covid” diventa “dinamica”. Recentemente, la Commissione nazionale per lo sviluppo e le riforme ha invitato le autorità provinciali a modulare la risposta in base alle condizioni locali, anziché seguire un unico modello nazionale. La regola generale prevede provvedimenti radicali nei quartieri dove vengono segnalati casi positivi, contrassegnati come a “medio” o “ad alto rischio”, mentre le aree della stessa città “Covid free” conservano lo status di “basso rischio”, permettendo ai residenti di mantenere un certo livello di normalità anche durante un focolaio”Prevenire e controllare l’epidemia è un grande compito, ma non possiamo adottare un approccio unico per tutti…(deve) essere fatto in modo scientifico e legale e ogni desiderio di tornare a casa deve essere trattato con compassione”, ha avvertito il quotidiano ufficiale del partito People’s Daily, alludendo alle restrizioni imposte ai lavoratori migranti prima del Capodanno lunare. In un barlume di dibattito interno, perfino l’agenzia di stampa ufficiale Xinhua ha definito “disumani” i divieti imposti dai governi locali per impedire il ricongiungimento familiare della manodopera mobile, tra i segmenti della popolazione più colpiti economicamente dall’epidemia. Come in altre circostanze, si è ricorso ad epurazioni riparatorie: decine di funzionari locali sono stati demansionati o rimossi dagli incarichi, sollevando il sancta sanctorum del partito da ogni responsabilità.

Sul lungo periodo, aumentano le considerazioni anche sui costi economici del controllo di massa: Yangzhou, città da 4,5 milioni di abitanti, lo scorso agosto ha sborsato circa 352 milioni di yuan in sole tre settimane per testare tutta la popolazione dopo aver riportato una trentina di casi. La chiusura dei valichi di frontiera tra la provincia del Guangxi e il Vietnam ha causato per giorni l’interruzione degli scambi commerciali transfrontalieri, con lunghe code di camion in attesa. Diverse multinazionali- incluse Samsung e Volkswagen- sono state costrette a sospendere o ridurre la produzione nelle fabbriche locali a causa delle limitazioni sulla circolazione.

Secondo la direttrice generale dell’IMF, Kristalina Georgieva, il rallentamento dell’economia cinese nell’ultimo trimestre (scesa dal 4,9 al 4%) è dovuto per buona parte alle misure sanitarie, che hanno inibito la spesa dei consumatori. Citando espressamente la strategia “Zero Covid”, Goldman Sachs ha recentemente declassato la sua proiezione per la crescita cinese nel 2022 dal 4,8 al 4,3 %. Ben al di sotto del 5,5% pronosticato dai policy maker cinesi.

 

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Finora la capacità di smuovere al bisogno risorse statali ha permesso a Pechino di sostenere il peso economico della guerra contro il virus. Ma la longevità del sistema è tutt’altro che scontata, considerato il grave indebitamento delle amministrazioni locali; un problema sommerso che riaffiora in superfice quando il rallentamento della crescita erode le entrate fiscali. E’ forse con questi numeri in mente che, commentando il successo delle Olimpiadi, negli ultimi giorni ha un alto funzionario della Commissione sanitaria nazionale ha vagheggiato – senza fornire dettagli – una revisione del modello attuale così da poter riprendere normalmente gli “scambi internazionali”.

Nelle valutazioni dei leader, tuttavia, il vero ago della bilancia resta l’opinione pubblica. La mobilitazione di massa e il senso di responsabilità collettiva di matrice confuciano-marxista hanno rivestito un ruolo determinante nella pronta risoluzione della crisi a Wuhan. Ora la pazienza dei cittadini comincia a vacillare. Lasciati senza provviste alimentari, beni di prima necessità e cure mediche urgenti, in molti hanno condannato la strategia della “tolleranza zero”. Nell’immediato Pechino ha risposto con il bavaglio. Il 4 gennaio un messaggio inviato dalle autorità di Xi’an ai residenti vietava di postare sui social media “ogni tipo di notizia negativa” sulla gestione del lockdown. Dopo la campagna di arresti sferrata contro il giornalismo partecipativo nel 2020, l’unica voce indipendente a raccontare approfonditamente la quarantena di Xi’an è stata l’ex reporter Zhang Wenmin, in seguito censurata e minacciata dalle forze dell’ordine. Secondo Radio Free Asia, decine di internauti sono finiti in manette per aver diffuso in rete commenti critici. La stessa sorte è toccata alle centinaia di persone che, rimaste senza assistenza e viveri, hanno provato ad aggirare le misure sanitarie.

Dato il clima repressivo, quantificare il malcontento in Cina non è mai cosa facile. Se rapportato alle dimensioni della popolazione, tuttavia, il grado di approvazione incassato da Pechino sembra ancora decisamente elevato. Le debolezze del sistema sanitario nazionale, affetto da un numero insufficiente di medici e strutture attrezzate, preoccupa più della riduzione delle libertà personali.

Ecco perché – al netto di qualche ritocco superficiale – la strategia “Zero Covid” è probabilmente destinata a restare. Almeno fintanto che le voci contrarie rimangono una minoranza. Almeno, fintanto che – da un punto di vista cinese – il resto del mondo si dimostra più “incapace”. D’altronde, la leadership comunista ha ancora i numeri ufficiali dalla propria parte: la municipalità di Tianjin, una delle più colpite dalla variante Omicron, ha ufficialmente debellato l’ultimo focolaio in soli 18 giorni.

 

 

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