La Turchia e la svolta possibile in politica estera

Il 14 maggio 2023 rimarrà comunque una data fondamentale per la storia della Turchia. Infatti, le elezioni presidenziali e parlamentari potrebbero decretare un cambio ai vertici dello Stato dopo vent’anni esatti di governo di Recep Tayyip Erdoğan (dapprima come Premier e poi come Capo di Stato). Un colpo di scena notevole che potrebbe essere agevolato dal combinato di situazioni critiche che vive il Paese: da un lato, la crescente crisi economico-finanziaria causata dal deprezzamento della lira turca (svalutata del 60% rispetto a euro e dollaro) e dall’impennata dell’inflazione (oltre l’80%); dall’altro, la contestata gestione del post-terremoto che ha devastato il sud-est del Paese nel febbraio 2023.

Entrambe le situazioni hanno provocato malcontento e intaccato l’autorevolezza dello stesso Erdoğan, aumentando di conseguenza le concrete possibilità di vittoria dell’“Alleanza per la Nazione”, la coalizione delle opposizioni composta da differenti anime[1] e accomunate da un unico obiettivo: la possibilità di attrarre parte di quell’elettorato scontento dalle politiche AKP (il partito del Presidente) e avviare una nuova fase nel Paese. Perciò, se una vittoria delle opposizioni avrà sicuramente degli impatti notevoli sul piano nazionale, tale tendenza potrebbe apparire ben più sfumata e contenuta in politica estera.

 

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Nell’ultimo decennio, siamo stati abituati a confrontarci con una politica estera turca ben radicata e presente in quasi tutti gli scenari operativi (non solo critici) tra Mediterraneo, Medio Oriente, Africa, Caucaso e Asia Centrale. Una proiezione multivettoriale e multidimensionale che si basava su un approccio assertivo mirato a influenzare e, talvolta, anticipare tendenze in grado di favorire un migliore posizionamento (geopolitico e strategico) turco sullo scenario internazionale. Dopo vent’anni, però, questa situazione potrebbe subire un certo grado di cambiamento, seppur più formale che sostanziale. È verosimile, infatti, che anche con un nuovo Presidente l’approccio adottato da Erdoğan, specie nell’ultimo biennio e che ha visto una maggiore ricerca di de-escalation relazionali e cooperazione competitiva con quasi tutti i player regionali e globali, rimarrà nella sostanza mutando però la forma e i modi. In altre parole, una postura più istituzionalizzata, meno unilaterale, basata su rapporti più costruttivi e cooperativi. Un approccio, quindi, meno impulsivo e più moderato rispetto alle tendenze personalistiche e nazionaliste (anche in senso religioso) imposte da Erdoğan e dai suoi governi.

Una mappa della Turchia nel 1927

 

Se il 14 maggio rappresenterà una svolta per il Paese, il governo che verrà – in quel caso presumibilmente a guida del Partito Popolare Repubblicano (CHP) – potrebbe mutare soltanto alcuni degli orientamenti della politica estera turca, soprattutto tra Medio Oriente e Mediterraneo. Questo vorrebbe dire mantenere inalterata – più per opportunità e necessità politica che per piena volontà turca – la fase di distensione e ricostruzione dei rapporti con gli attori regionali del Golfo (specie con Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti). Infatti, gli imperativi economici turchi e la necessità di uscire dall’isolamento diplomatico sono stati un motore fondamentale per la ripresa delle relazioni con quegli attori del Golfo che fino a poco tempo fa erano suoi antagonisti, in particolare in quei teatri di crisi regionali (Libia, Egitto e Siria) dove la Turchia e il partner qatarino fornivano supporto all’Islam politico in contrapposizione ai quei poteri conservatori e militari a livello locale.

Contestualmente si porterebbe avanti l’agenda di “normalizzazione” dei rapporti con Egitto e Siria (seppur contrassegnata da diversi handicap rispondenti come sempre a necessità e input di politica nazionale turca) e quella decisamente più avanzata con Israele, con il quale si vive una fase di conciliazione su più fronti. Anche nel Mediterraneo le tensioni con Grecia e Cipro potrebbero diminuire. Così come in tema di migrazioni (sia per quello che riguarda il tema dei rifugiati siriani, sia nei confronti del blocco dei flussi verso l’UE), la distanza tra l’esecutivo uscente e quello potenzialmente nuovo non sarebbe troppo ampia. Ciò significherebbe che i punti nevralgici di un’azione di politica estera rimarrebbero fedeli alla garanzia degli interessi di sicurezza nazionale, alla protezione degli interessi economici e strategici e, soprattutto, alla conservazione dello status internazionale acquisito e modellato nel corso del ventennio Erdoğan, attraverso una dispendiosa e faticosa operazione di sovra-estensione commerciale, diplomatica e militare in tutti i teatri di crisi rilevanti tra Mediterraneo, Caucaso e Medio Oriente. Un’azione multiforme figlia anche dei vuoti operativi lasciati da USA, UE e, in parte, Russia negli scenari succitati.

 

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Oltretutto, per ragioni più economiche che ideologiche, un nuovo governo turco potrebbe ricercare un rapporto differente con l’Occidente, almeno rispetto a quanto promosso dall’ultimo Erdoğan, in particolare dal fallito golpe del luglio 2016 che ha alimentato una forte retorica anti-occidentale. Questo indizio tuttavia non deve far immaginare una sorta di “luna di miele” quanto un rapporto improntato al dialogo e al confronto, piuttosto che al recente unilateralismo spinto. In questa prospettiva, i maggiori cambiamenti potrebbero segnalarsi nei rapporti con Stati Uniti, NATO e Unione Europea, i quali, a loro volta e per necessità differenti, potrebbero dimostrare più interesse a costruire relazioni distese con Ankara. Ad esempio, Kılıçdaroğlu potrebbe ricercare una maggiore sintonia e collaborazione con Bruxelles su diversi dossier (soprattutto su diritti umani e democratizzazione) anche nel tentativo di riuscire ad ottenere un riavvicinamento allo spazio politico-economico europeo, con possibili aperture su dossier vitali per Ankara come il discorso dei visti Schengen e dell’unione doganale con l’UE.

Più complesso invece si mostrerebbe il confronto sul tema delle migrazioni, dove il CHP e buona parte della coalizione di opposizione potrebbe chiedere alla Commissione Europea una più equa condivisione degli oneri sulla questione, se non addirittura adire ad una rinegoziazione dell’accordo sull’immigrazione. Ovviamente una finestra di opportunità tra UE e Turchia non deve essere confusa con una mancanza di ambizioni di quest’ultima, specie nel Mediterraneo Orientale. Ciò significa che le tensioni con Atene e Nicosia sulle rivendicazioni marittime, lo sfruttamento dei giacimenti energetici e la questione Cipro potrebbero essere ricondotte nell’alveo di una retorica meno accesa, ma non vedrebbero comunque un abbandono di posizioni storicamente massimaliste da parte di Ankara.

Un discorso simile potrebbe essere allargato anche ad altre due dinamiche diverse ma egualmente importanti come Siria e Libia. Se il riavvicinamento a Damasco lanciato da Erdoğan si inseriva in una intricata partita che comprendeva anche i curdi (turchi e siriani) ed era mirato a garantire un ritorno (almeno parziale) nelle aree del Rojava dei quasi 4 milioni di rifugiati siriani residenti in Turchia e sempre più oggetto di strumentalizzazione politica, anche con il nuovo governo non si registrerà un netto cambio di rotta viste le Questo non vorrà dire, inoltre, un abbandono (almeno nell’immediato) della Siria e delle operazioni militari in loco. Analogamente, tale dinamica potrebbe essere trasposta in Libia, dove gli interessi strategici turchi nel Paese nordafricano non dovrebbero far registrare un cambio totale nella postura finora adottata. Allo stesso tempo, la distensione tra Ankara e il Cairo passa per la partita libica e per la possibilità che le parti convergano verso una gestione congiunta della crisi, che tuttavia non prevede un ritiro turco dal Paese nordafricano.

Anche in materia di NATO e Stati Uniti, è possibile supporre che il nuovo governo manterrà un atteggiamento ambiguo fedele alla logica di una politica estera impostata su una ricerca rafforzata dell’autonomia strategica che confermi lo status di potenza regionale di Ankara. Ciò si tradurrebbe con una possibile e inalterata strategia da “free rider” nei confronti dei partner NATO, ma anche con gesti di apertura e continuità, come ad esempio aprire ad una ratifica all’ingresso della Svezia e confermare la posizione sulla Finlandia nell’organizzazione del Trattato del Nord Atlantico. Al di là delle tensioni e delle visioni divergenti con i singoli partner (Atene, Nicosia, Helsinki e Berlino, solo per citarne alcuni), a rendere complesso il ruolo turco nella NATO è per lo più la tensione costante nella relazione con Washington, che rimane il vero nodo gordiano. Il nuovo governo dovrà provare a risolvere i numerosi gap diplomatici sorti nell’ultimo decennio relativi alla questione curda e alle ambizioni turche nel Mediterraneo e in Medio Oriente. Allo stesso tempo, dovrà trovare un terreno comune per ricucire gli strappi bilaterali emersi dopo il tentato golpe del 2016 e l’acquisto turco nel 2017 del sistema missilistico terra-aria russo S-400 (consegnato però nel 2019). Per tutta risposta, gli USA hanno imposto sanzioni all’industria della difesa turca, rimuovendo la Turchia dal programma dei caccia F-35. Situazioni e scontri che hanno ampliato le distanze tra Ankara e Washington (e quindi anche con UE e NATO), favorendo l’intervento di attori terzi come Russia e Cina, divenuti importanti partner per gli interessi della Turchia.

Un discorso che può valere soprattutto nel caso della Russia. Qui i fattori commerciali ed energetici hanno contribuito a rendere imprescindibile il supporto di Mosca nei confronti di Ankara, specie dopo l’aggravamento della crisi economica che vive il Paese dal 2015. La Russia è il terzo partner commerciale della Turchia (dopo Germania e Cina), con un interscambio pari a 58,8 miliardi di dollari nel 2022, di cui l’import di combustibili fossili si attesta a 41,8 miliardi di dollari, mentre le esportazioni turche sono 9,3 miliardi di dollari. Un rapporto bilaterale forte e rafforzato da implicazioni geopolitiche dirette, nelle quali Ankara è fortemente esposta (e non sempre allineata) con Mosca: oltre ai già citati casi di Libia e Siria, non sono trascurabili le dinamiche in cui i due attori si muovono nel Mar Nero, Caucaso, Asia Centrale e Mar Rosso (Sudan in primis).

Il tutto senza dimenticare il conflitto ucraino, nel quale il Paese anatolico si è mostrato un broker diplomatico abile con la sua opera di mediazione sin dall’inizio del conflitto (certificata anche dalla mediazione vincente insieme alle Nazioni Unite sul cosiddetto “accordo del grano”). Grazie a ciò, Ankara è tornata al centro della scena, guadagnando plausi a livello internazionale, salvaguardando i propri interessi strategici e di sicurezza nazionale, essendo proprio l’Ucraina una sorta di cerniera per la Turchia per garantire sé stessa e le sue prerogative di politica estera tra Mar Nero, Caucaso e Asia Centrale, per evitare un eccessivo strapotere russo. Anche in questo caso, con Kılıçdaroğlu non si dovrebbe assistere a particolari deviazioni rispetto all’approccio finora mostrato, soprattutto in termini di interdipendenza economica, seppur asimmetrica, con Mosca. Quel che però potrebbe cambiare è il rapporto personale che Erdoğan e Vladimir Putin avevano costruito negli anni e che il nuovo Presidente non sembrerebbe essere interessato a mantenere.

Ancora una volta, quindi, emerge quanto mai chiaramente come gli interessi interni della Turchia influenzeranno in maniera determinante molte delle direttrici (non solo quelle recenti) diplomatiche del Paese. Pertanto, al di là della vittoria di Erdoğan o Kılıçdaroğlu, ciò che indubbiamente non cambierà è l’ambizione turca a mantenere il suo status di attore regionale autonomo. In definitiva, la posta in gioco rimarranno sempre l’identità e le ambizioni della politica estera turca nello scenario globale.

 

 


Nota:

[1] Oltre al Partito Popolare Repubblicano (CHP), la coalizione comprende i nazionalisti di Iyi, i curdi dell’HDP che si presentano nel Partito della Sinistra Verde, il partito conservatore Felicità di Temel Karamollaoğlu, il Partito Democratico di Gültekin Uysal, il Partito per la Democrazia e il Progresso (DEVA) guidato da Ali Babacan, il Partito del Futuro presieduto da Ahmet Davutoğlu.

 

 

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