La Thailandia che conferma i militari al potere e le Filippine che sostengono Duterte

da Chiang Mai (Thailandia)

Come era prevedibile, dopo mesi di attesa, il generale Prayuth Chan-ocha, l’artefice del colpo di stato del 2014 e capo del successivo governo militare, è stato eletto primo ministro della Thailandia. Le elezioni post-golpe, annunciate e rinviate più volte, si sono svolte dopo cinque anni, alla fine del marzo scorso. Al voto ha partecipato il 66% dei 52 milioni di elettori e, nonostante i timori annunciati, tutto si è svolto pacificamente.

Il Palang Pracharat, il partito di riferimento dei militari, ha preso praticamente gli stessi voti del Pheu Thai, la formazione collegata – anche se in maniera indiretta – all’ex primo ministro in esilio e principale forza dell’opposizione Thaksin Shinawatra. Questo significa che l’appoggio della popolazione per l’esercito è ancora sostanzioso.

Parata militare a Bangkok, di fronte al vecchio edificio del parlamento

 

Non sono certo mancate le polemiche su brogli elettorali, irregolarità e, soprattutto, per un quadro costituzionale creato ad hoc per favorire le forze armate, gli ambienti vicini alla casa reale e l’establishment tradizionale thailandese. Le critiche, arrivate in particolar modo dall’estero, però non sembrano aver tenuto conto di alcune dinamiche importanti nella società tailandese.

La popolazione thai, infatti, si è distaccata dalla politica, che ormai viene vista come corrotta e, nel frattempo, ha davvero coltivato – grazie anche alla propaganda – una fiducia passiva nei militari, visti come difensori della monarchia. Quella monarchia che qui in Thailandia è un’istituzione, quasi una religione di Stato. Inoltre, se è vero che in questi cinque anni l’opposizione è stata praticamente abolita dall’esercito, che ha vietato manifestazioni di piazza, arrestato attivisti, chiuso siti internet e giornali, è anche vero che i militari sono riusciti a riportare stabilità in un Paese dilaniato per un decennio da una crisi politica in cui si sono contati centinaia di morti, attentati e proteste senza fine.

Ma non solo. Con Prayuth Chan-ocha al potere, la Thailandia ha fatto passi avanti in molti settori. Il pil nell’ultimo quinquennio è tornato a crescere del 4% medio annuo. Il turismo è aumentato, arrivando al 20% del prodotto interno lordo. Inoltre l’esercito ha promosso piani per le industrie biochimica e bio-agricola. La Thailandia è in continuo sviluppo: autostrade e infrastrutture sono in costruzione in tutto il Paese. La disoccupazione, anche se con una diseguaglianza dovuta a forti disparità di reddito e di opportunità tra le province centrali e le aree rurali più povere del Nord-Est (in particolar modo la zona dell’Isaan), è praticamente pari allo zero.

Questi fattori, sottaciuti da molti media occidentali, spiegano il sostegno dei tailandesi per l’esercito. L’attenzione internazionale è dovuto soprattutto dal fatto che la posizione strategica e il peso economico della Thailandia sono oggetto di estremo interesse per le grandi potenze, che da sempre si contengono la regione. Bangkok, tradizionalmente alleata di Washington, ha operato una parziale svolta diplomatica in questi ultimi anni. Il governo militare di Prayuth, infatti, ha puntato al riequilibrio delle relazioni del Paese, concretizzato, tra l’altro, in una diversificazione delle forniture militari, in precedenza quasi monopolizzate dai produttori americani, oggi più spostate sul mercato cinese. E anche nell’adesione ai piani di sviluppo economico-infrastrutturali di Pechino.

I partiti dell’opposizione, vicini alla famiglia Shinawatra, restano l’opzione preferita degli Stati Uniti e dei loro alleati e, per questo, vengono in qualche modo appoggiati. Ma, per ora, senza ottenere i risultati sperati da Washington. La crescita del nazionalismo, della domanda di identità nazionale e la voglia di rompere i vecchi schemi, stanno facendo virare le opinioni pubbliche e i governi locali verso altre direzioni, anche se queste sono ben lontane dal concetto di democrazia all’occidentale.

 

Nel Sud-Est asiatico c’è un altro esempio rivelatore: le Filippine, dove il criticatissimo presidente Rodrigo Duterte ha vinto le elezioni di metà mandato. Il voto (tenutosi il 13 maggio) era stato prospettato dal governo come una specie di referendum sulle sue politiche.

Capo di Stato dal 2016, Duterte è stato attaccato a livello internazionale un po’ da tutti, dalle organizzazioni umanitarie all’Unione Europea, per la sua lotta al narcotraffico condotta con metodi brutali e autoritari, con l’uso di forze paramilitari ed esecuzioni sommarie. Nelle Filippine, settemila isole popolate da cento milioni di abitanti, ci sono più di tre milioni di tossicodipendenti e la droga, largamente usata dalle fasce più povere della popolazione è anche, in gran parte, la causa dell’alta percentuale di criminalità.

I numeri di questa guerra, che in tagalog viene chiamata Oplan Tokhang, sono discordanti. E, in realtà, quasi impossibili da calcolare, anche perché molte famiglie, per il terrore di ricevere ritorsioni, non vogliono collegare gli omicidi alla droga. Secondo i dati pubblicati da Human Right Watch nel dicembre del 2017, le esecuzioni sarebbero state circa 12mila. Altri gruppi per i diritti umani parlano di oltre 13mila vittime, tra cui è impossibile distinguere tra spacciatori, tossicodipendenti adulti o bambini, e uccisioni di altro tipo. Il senatore dell’opposizione Antonio Trillanes, nel febbraio 2018, ha denunciato che i casi di morte legate alla lotta al narcotraffico sarebbero addirittura più di 20mila. Ma il governo smentisce. Stando al documento ufficiale intitolato “Fighting Illegal Drugs: #RealNumbers”, sarebbero 6mila le persone rimaste uccise nelle oltre 100mila operazioni anti-narcotici condotte dalle autorità.

La polizia costringe ubriachi in strada a fare sessanta flessioni di fronte a passanti e telecamere, in una delle manifestazioni meno brutali delle politiche securitarie di Duterte.

 

Bisogna fare un passo indietro per capire come e perché, nonostante gli attacchi dei media e dei governi occidentali, il consenso di Duterte rimane così ampio.

Rodrigo Duterte è stato per più di vent’anni sindaco di Davao City, principale centro dell’isola di Mindanao, che prima del suo arrivo deteneva il record nazionale di omicidi e delinquenza. Con il suo pugno di ferro ha sradicato la criminalità in un territorio difficile da controllare (fu accompagnato già all’epoca dalle denunce delle associazioni per i diritti umani), trasformando Davao City in una delle città più sicure del Paese. Al momento di candidarsi alla presidenza, ha proposto di esportare il modello Davao a livello nazionale.

Il suo programma ha incluso poi  politiche economiche e sociali volte a sottolineare e premiare l’identità nazionale, facendo presa su tutti quei filippini stanchi dell’occidentalismo. D’altronde, il Paese è stato per secoli una colonia spagnola, poi americana, e anche quando ha ottenuto l’indipendenza nel 1945 è rimasto di fatto sotto il controllo degli Stati Uniti, che hanno installato nelle Filippine alcune delle loro più grandi basi militari.

La svolta di Duterte ha provocato anche un cambio di rotta a livello commerciale, con un’apertura verso Russia e Cina, Paesi naturalmente interessati a mitigare il predominio americano nel Sud-Est asiatico.

Quando trattiamo e valutiamo gli eventi che accadono in questa parte del mondo, dunque, sbagliamo ad adottare un’ottica occidentale. Dobbiamo invece tenere sempre in considerazione gli Asian values, ovvero il nucleo di istituzioni e ideologie politiche che riflettono la cultura e la storia della regione, dove il carisma personale, il nazionalismo, l’identità culturale, sono fondamentali all’interno della società.

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