Il gioco di parole nel titolo di questo contributo rinvia a una riflessione più profonda sulla condotta russa in Ucraina e sui suoi effetti. Bruciata, infatti, è la terra che gli eserciti di Mosca stanno lasciando dietro di sé. Bruciati, d’altro canto, potrebbero essere anche gli obiettivi strategici che il Cremlino stesso si era posto all’inizio del conflitto. La domanda è delle più elusive. Partendo dall’osservazione di quanto sta accadendo sul campo e senza la presunzione di essere in grado di rispondere in via definitiva, si può affrontare tale interrogativo anche alla luce di certe considerazioni che da più parti stanno giungendo in merito al diverso livello di preparazione delle forze ucraine rispetto all’inizio delle ostilità.
In tempi in cui è di gran moda citare o farsi immortalare con Henry Kissinger – forse più per ragioni taumaturgiche che altro – torna alla mente un concetto ricorrente nei suoi scritti precedenti l’ingresso in politica e dedicati al conflitto in Vietnam che può offrire una chiave interpretativa utile alla questione. In particolare, con riferimento alla condotta dei nordvietnamiti durante la guerra del Vietnam, Kissinger soleva affermare che la guerriglia vince allorché non perda, ovvero che in una strategia il cui obiettivo finale non sia solo la conquista, la sola capacità di resistere alla potenza esterna può bastare a conseguire, nel tempo, un successo decisivo sul piano politico.
Partendo dal presupposto che anche nel caso vietnamita non si trattasse esattamente di guerriglia, perché il Nord Vietnam utilizzava tecniche miste, l’aspetto saliente – e utile – della formula kissingeriana risiede nella sua natura eminentemente geopolitica. Nello specifico, la potenza geograficamente autoctona – in quel caso Hanoi, oggi Mosca – non ha bisogno di ottenere una vittoria militare definitiva. Mantenere le posizioni sul campo e, in corrispondenza di eventuali momenti di debolezza interna negli USA o in Ucraina, sferrare delle offensive di elevata portata politico-ideologica o psicologica, infatti, potrebbe bastare, in futuro, a dare vita a un disimpegno occidentale.
Come quando i vietcong sferrarono l’offensiva del Tet, anche Mosca potrebbe soprattutto attendere: attendere che si determini una situazione in cui il supporto militare americano a favore di Kiev sia massimo e il favore dell’opinione pubblica occidentale nei confronti del conflitto vacilli per lanciare un attacco il cui scopo non sarà tanto il successo militare, quanto quello di abbattere psicologicamente il nemico, mostrando come le forze di Kiev non saranno comunque sufficienti a respingere entro i propri confini nazionali gli eserciti del Cremlino, anche se riorganizzate, equipaggiate e addestrate secondo parametri NATO. Se questo, dunque, fosse il piano strategico di Mosca, va da sé che una condotta basata sulla strategia della cosiddetta ‘terra bruciata’ potrà assumere un significato differente rispetto alla lettura più intuitiva.
Benché i detrattori della strategia ucraina sottolineino come la controffensiva lanciata in estate abbia dato esiti subottimali, oggi le forze armate di Kiev sono per struttura e capacità incomparabili con quelle delle prime fasi della guerra: un altro esercito, a tutti gli effetti. Tale mutata condizione, tuttavia, non è priva di controindicazioni, soprattutto se guardassimo all’attuale condotta russa come interludio nel quadro di una strategia in cui il tempo rappresenta una risorsa alla stregua di un armamento – un armamento la cui distribuzione tra le parti è fortemente asimmetrica.
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Per Mosca è sufficiente in questa fase riuscire semplicemente a mantenere i propri soldati in territorio ucraino e la stabilità della sua leadership all’interno della Federazione Russa. Per semplice inerzia, un carico paradossalmente leggero verrà percepito, per via dello scorrere del tempo, come pesantissimo, dimostrando sul fronte della guerra psicologica come un cambiamento strutturale delle forze armate di Kiev non sia comunque risolutivo nella dimensione dei rapporti con Mosca. Per Kiev, infatti, la vittoria passa necessariamente dalla capacità delle sue forze armate di ricacciare l’invasore fuori dal proprio territorio e dei suoi leader di implementare una forma di governo che, pur con delle fragilità, possiede stabilmente i requisiti sostantivi – non solo formali – di una democrazia.
La tesi del Cremlino, in estrema sintesi, potrebbe essere riassunta nella formula: noi ci siamo sempre stati, ci siamo e ci saremo. Di contro quella di Kiev indirizzata a Mosca si può tradurre in qualcosa del tipo: l’Ucraina non è più il Paese che avete governato, l’esercito non è più quello che avete formato con le vostre dottrine e i vostri sistemi, e il governo è ormai estraneo a formule autocratiche o oligarchiche. Per i dirigenti russi esistere e resistere sul campo di per sé avvalora la posizione internazionale del Paese, un giorno alla volta. Mentre sugli ucraini ricade il cosiddetto onere della prova – in questo caso, prove multiple. Maggiore sarà il tempo che trascorre prima che ciò accada e maggiori sono le risorse spese affinché i fatti confutino la posizione di Mosca, minore sarà l’effetto psicologico di una eventuale vittoria. Il rischio, insomma, è quello che Kiev vinca ma non convinca, per dirla con una formula calcistica. In quel caso, una regressione verso il passato è un’ipotesi da non escludere, soprattutto dopo aver visto quanto è accaduto in Afghanistan nell’estate 2022.
Sul suolo ucraino non sono presenti effettivi americani, diversamente da Vietnam, Afghanistan e Iraq. Non va tuttavia dimenticato – questa è la prospettiva che attraverso una differente lettura della strategia russa della terra bruciata può offrire – che la variabile tempo continua a giocare a favore di Mosca. Solo in virtù della sua massa, infatti, essa costringe Kiev a una prolungata e reiterata azione proattiva, il cui esito di lungo periodo è plausibile che sia di generare appesantimento e un senso di frustrazione in seno all’opinione pubblica dei Paesi amici tali da offuscare l’entità dei progressi ottenuti sul campo.
La strategia di integrazione militare e culturale praticata dagli USA in Ucraina possiede il pregio e la bellezza di una politica capace di abbracciare il futuro, traguardando oltre la guerra. Tuttavia, essa impone al proprio alleato di ottenere un successo non solo risolutivo, ma eclatante. In questa prospettiva, ogni giorno che trascorre non solo rischia di apparire come un’opportunità mancata, ma di trasformarsi un tassello della paziente strategia russa.
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Come affermava Kissinger in riferimento al caso vietnamita, proprio in un diverso rapporto con il tempo – frutto a sua volta di un diverso processo di selezione dei capi – risiedeva la più profonda differenza tra Stati Uniti e Nord Vietnam. Nel caso delle attuali relazioni con Mosca, mutatis mutandis, credo valga altrettanto. Proprio in ragione di un diverso rapporto con il tempo, perciò, quella che può essere letta come mancanza di creatività, un segno di debolezza o addirittura disperazione nella condotta di Mosca potrebbe di contro essere il segnale di una profonda, ancorché arrogante, consapevolezza.
Sotto la terra bruciata, insomma, potrebbe esserci dell’altro. Per questo motivo, non sottovaluterei la portata e gli esiti potenziali associati a tale condotta. Le presidenziali americane sono alle porte e la storia degli Stati Uniti ci insegna che, in tema di guerre, per il Paese quel passaggio rappresenta da sempre un momento di riflessione e autocritica.