Detto ciò, perfino i più puri esponenti della Realpolitik sanno benissimo che la natura dei regimi politici influenza la definizione degli interessi nazionali e il modo in cui questi vengono perseguiti. Dunque, non si sfugge comunque a valutazioni difficili su cosa convenga fare del “parametro democratico” come uno dei fattori (tra molti altri) dei rapporti globali nel XXI secolo. Certo, una critica più sofisticata che si può muovere all’amministrazione Biden è di essersi impigliata in un’operazione maldestra in cui vengono concesse delle “patenti democratiche” in modo piuttosto arbitrario. E’ legittimo chiedersi perché, ad esempio, la lista degli invitati abbia incluso decine di Paesi che Freedom House definisce “partly free” (compresi Pakistan, Repubblica Democratica del Congo, Iraq); o perché siano rimasti fuori la Tunisia (certo, dopo un colpo di Stato), Singapore e la Tailandia; perché sia entrato il Brasile e non la Turchia; soprattutto, perché la Polonia e non l’Ungheria. Come si vede, in vari casi il criterio più scivoloso non è quello della “democrazia formale”, ma quello del carattere liberale o illiberale dei sistemi politici. Gli oltre cento inviti estesi dalla Casa Bianca compongono in effetti una lista assai variegata (che per la cronaca comprende, oltre all’Italia, anche la UE in quanto tale).
Rimane l’osservazione, difficile da confutare del tutto, che una forma di governo almeno parzialmente democratica tende a produrre una specifica prospettiva sulla competizione politica, sul rapporto tra autorità e cittadini, su quello tra Stati e mercati. Dunque, sembra esserci davvero un qualche tasso di convergenza tra Paesi democratici, che poi andrà valutato di volta in volta anche rispetto a fattori contingenti e cambiamenti degli assetti interni.
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Se però si riconosce che il parametro democratico è comunque importante, si deve allora accettare la complicata realtà di un mondo abitato da varie gradazioni di “democraticità”. E infatti lo accettiamo quasi sempre, come dimostrano le molte classifiche stilate regolarmente – spesso da enti non governativi come appunto Freedom House – sul grado di rispetto dei diritti umani, delle libertà economiche etc. Queste classifiche gettano luce anche sulle carenze degli stessi Paesi che si ritengono altamente rispettosi delle libertà democratiche, confermando in pratica che nessuno è perfetto, o in altre parole che far funzionare una democrazia è un processo incessante e ondeggiante più che una sorta di interruttore (acceso/spento).
Su tale sfondo, la scelta di Biden nel convocare il Summit virtuale di questo dicembre 2021 ha una ragione di fondo, che non consiste nel dare alcuna “patente” per catalogare il mondo in buoni e cattivi: si tratta di creare un consesso, un foro multilaterale con parametri flessibili (da qui alcune incoerenze) che abbia al centro gli Stati Uniti. Forse abbiamo dimenticato troppo in fretta uno degli impegni annunciati dal Presidente appena fu eletto, “America is back”. Nella sua logica, il ritorno dell’America si realizza anche attraverso una rete di democrazie, quasi-democrazie, aspiranti democrazie. Mentre Washington lavora da mesi a un rafforzamento della rete di alleanze asiatiche o indo-pacifiche in chiave di contenimento della Cina, è in corso un tentativo più ampio: il rilancio dei negoziati commerciali con la UE; l’utilizzo del G20 come foro delle maggiori economie; la riattivazione dell’Accordo di Parigi con la COP26; e ora, appunto, l’avvio un nuovo canale di possibile consultazione multilaterale sotto l’etichetta “democratica”. Porre il termine tra virgolette non significa qui sminuirlo, ma invece sottolineare il carattere fluido della vita democratica, e il fatto che le società aperte coltivano il dubbio perfino su se stesse.
Fatta questa premessa generale, la strategia “reticolare” del Presidente americano si può analizzare da due punti di vista: quello internazionale e quello interno.
Sul piano internazionale, il vero nodo irrisolto (e forse irrisolvibile) è semmai quello della sovranità, perché nessun Paese sovrano accetterà mai di far giudicare il proprio sistema politico dal governo di un altro. Non a caso, una delle decisioni più controverse prese da Washington in occasione del Summit è stata relativa a Taiwan – che per la Repubblica Popolare Cinese è una “provincia rinnegata”. Il governo di Taipei è stato rappresentato da una figura “tecnica” come il “Ministro Digitale” Audrey Tang, nel tentativo deliberato di non alzare troppo politicamente il profilo di questa delegazione. In ogni caso, includere Taiwan ha significato separare il concetto di Stato sovrano internazionalmente riconosciuto (Taiwan non lo è pienamente neppure per gli Stati Uniti) e realtà fattuale della governance democratica (che Taipei certamente esercita sull’isola). È una scelta ovviamente provocatoria per Pechino, ma anche problematica in senso concettuale, perché su questa china il passo logico successivo può essere breve per giungere a un generale diritto-dovere di intervento qualora i diritti civili di chi vive in quel territorio fossero violati. E’ un dibattito che portò, negli anni ’90, fino alla codificazione in ambito ONU della “responsabilità di proteggere” (“R2P”), eventualmente perfino con interventi armati legittimati dal Consiglio di Sicurezza.
In altri termini, passando per un’accezione ampia del diritto all’autodeterminazione, si apre il vaso di Pandora della sovranità. E’ un punto sul quale si dovrà ragionare con molta attenzione se una sorta di vasta coalizione democratica avrà un futuro.
E’ chiaro in ogni caso, come si è visto, che le considerazioni di Realpoltik non sono affatto escluse dai piani di Biden, e ne sono invece parte fondamentale. Alcune anomalie e incoerenze sono un prezzo che si potrebbe voler pagare per perseguire l’obiettivo principale di Washington: costruire una rete di alleanze basata (anche) su valori condivisi che non coincidono sempre e perfettamente con il tasso di democraticità dei governi. Insomma, torniamo all’osservazione di fondo, che quello democratico adottato per il Summit sia un criterio vago e impreciso: non è vago in termini di valori, ma è certamente impreciso, proprio perché deve servire uno scopo strategico con flessibilità.
Se guardiamo poi alla dimensione interna, la sfida principale che le democrazie devono affrontare è con se stesse. In sostanza, devono salvaguardare un legame assai difficile da coltivare: quello tra meccanismo decisionale basato sulle libere elezioni, liberalismo (in quanto insieme di valori e pratiche condivise), mercati (in quanto strumento formidabile di creatività oltre che di crescita materiale). Il Presidente Biden ha così sintetizzato lo stato dell’arte nel suo Paese: “American democracy is an ongoing struggle to live up to our highest ideals and to heal our divisions” – descrizione quanto mai accurata, visti i lavori in corso di una Commissione parlamentare sui fatti del Campidoglio del 6 gennaio 2021 che quasi certamente finiranno per coinvolgere la Corte Suprema.
Al di là delle situazioni specifiche, emerge qui un problema spinoso, ad oggi irrisolto per le democrazie liberali, che è stato evidenziato recentemente dai più lucidi osservatori: lo spostamento dei luoghi dove si crea e si esercita il potere in parte al di fuori delle istituzioni di governo. Come ha notato ad esempio Pier Paolo Portinaro (Il lessico del potere. L’arte di governo dall’antichità alla globalizzazione, Carocci, 2021), si è registrata negli ultimi anni la “progressiva erosione del concetto di sovranità, la differenziazione del concetto di potere in una pluralità di poteri” (p.140), ma anche il timore crescente di una ingovernabilità delle democrazie da cui è derivato il tentativo di “individuare nella governance una risposta possibile – un compromesso pragmatico, si potrebbe dire, tra Stato massimo e Stato minimo (quasi la quadratura del cerchio” (p.150).
Ivan Krastev (in un saggio che pubblichiamo sul numero 95 di Aspenia) ha identificato un pericolo per la democrazia americana nel fattore demografico: “La democrazia è un gioco di numeri; quando i numeri cambiano, il potere passa di mano. Il discorso democratico insiste sul fatto che il potere passa da un soggetto a un altro perché gli elettori cambiano idea, ma in realtà la causa può essere anche un cambiamento dell’elettorato. […] Ogni discorso sul futuro delle democrazie deve rispondere a una semplice domanda: in che condizioni una parte consistente dell’elettorato finisce per convincersi che per essa la democrazia non può più funzionare?” (“La paura dei numeri”, p.43). E’ un quesito che è venuto drammaticamente alla luce nella reazione al voto del novembre 2020 da parte dell’elettorato più fedele a Donald Trump.
Vi sono dunque fattori in grado di minare realmente le fondamenta dei sistemi democratici contemporanei, per i quali serviranno forse soluzioni innovative.
Un modo di affrontare problema è il tentativo – articolato ad esempio in un bel libro del 2016 di John Milbank e Adrian Pabst (The Politics of Virtue. Post-Liberalism and the Human Future, Rowman & Littlefield) – di sostituire alla coppia “Stato-mercato” la coppia “società civile-scambi interpersonali”, per aggirare in sostanza le inefficienze e le iniquità delle istituzioni democratiche e del capitalismo. Si potrebbe notare che le istituzioni rappresentative devono restare comunque al centro dell’assetto di governo, ma anche questa è probabilmente una questione di gradi e non una dicotomia secca.
Il dibattito sull’evoluzione del sistema democratico-liberale è dunque aperto e vivace, e questo è in effetti un ottimo segnale.
Tutte queste sfide restano, e non sarà certo un Summit virtuale a fugare dubbi di tale profondità; anzi, la capacità delle democrazie liberali di sottoporsi a una costante e dura autocritica è parte integrante della loro forza comparata. Intanto, però, l’America di Biden cerca di attivare anche i possibili legami tra sistemi politici in gran parte simili (quantomeno nelle loro aspirazioni) per plasmare gli assetti globali, invece di subire passivamente la redistribuzione del potere internazionale.
Simultaneamente, non va infatti dimenticato che la Cina è alle prese con la crisi economica peggiore dagli anni di Deng Xiaoping e il suo sistema politico ha subito un’involuzione ancora più autoritaria. Sorge insomma qualche dubbio sul fatto che la Repubblica Popolare possa offrire un modello che chiunque altro vorrebbe emulare.
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Parliamo di un Paese che, dopo aver realizzato la più grande operazione di riduzione della povertà nella storia umana (almeno per rapidità e numeri assoluti), sta minacciando in vari modi proprio il sistema internazionale che le ha consentito quel risultato straordinario. E intanto, all’interno, pensa di monitorare digitalmente i suoi cittadini con il sistema dei “crediti sociali”, ha investito in modo sconsiderato in città-fantasma creando un’enorme bolla edilizia, ha sbagliato drammaticamente le politiche demografiche, e deve ancora dotarsi di un vero sistema sanitario e di previdenza che sia al passo con le tecnologie e le conoscenze scientifiche disponibili. Dunque, pur senza negare i suoi punti di forza, questo non pare davvero, per il momento, un modello vincente.
Forse è davvero opportuno esplorare tutte le opzioni a disposizioni del resto del mondo. Perfino quella di un Summit delle democrazie.