La Spagna si è mobilitata per evitare un governo di destra. Questo è il primo dato importante delle elezioni che hanno visto la vittoria delle sinistre con una partecipazione molto alta (75,7%, +6% rispetto al 2016). Il secondo dato riguarda la frammentazione del nuovo Parlamento, in cui mai erano entrate cinque formazioni con più del 10% dei voti. Il sistema di partiti spagnolo è cambiato radicalmente rispetto al passato, quando la sfida era solo tra popolari e socialisti. E ciò influenza moltissimo anche la maniera di governare: ora sono indispensabili delle alleanze, a cui i partiti abituati a gestire il potere in solitudine non sono avvezzi.
Il vincitore di queste elezioni è comunque il partito socialista (PSOE) che sfiora il 30% dei voti (123 deputati su 350). Il redivivo leader Pedro Sánchez, uscito rafforzato dalla prova elettorale, potrà restare nel palazzo della Moncloa: la sua breve esperienza di governo degli ultimi nove mesi (dopo la caduta in parlamento dell’ultimo esecutivo popolare di Mariano Rajoy), si era conclusa in anticipo per la bocciatura della legge di bilancio da parte degli indipendentisti catalani, da cui il governo dipendeva.
Quello del PSOE è un risultato in controtendenza per un partito socialdemocratico a livello europeo, con l’eccezione del Portogallo di Antonio Costa. Alla sua sinistra, nonostante i timori di una vera e propria debacle, Unidas Podemos resiste (14,3%, 42 deputati), per quanto perda molti consensi a favore dei socialisti.
Il grande sconfitto del voto è senza dubbio il Partido Popular (PP) che ottiene il peggior risultato della sua storia (16,7%, passando da 137 a 66 deputati) e rischia il sorpasso da parte dei liberal-conservatori di Ciudadanos (15,9%, 57 deputati). L’estrema destra di Vox (10,3%, 24 deputati) entra in Parlamento, ma con meno forza di quello che prevedevano alcuni sondaggi: i suoi voti, provenienti in grandissima parte del PP, non saranno decisivi per la formazione di un governo, come invece era successo per la giunta regionale dell’Andalusia dopo le elezioni dello scorso dicembre. Non c’è dubbio, però, che la Spagna si “europeizza” con l’ingresso nelle Cortes di Madrid di una formazione di estrema destra per la prima volta dalla fine del franchismo.
Tra la Catalogna e l’estrema destra
Si è trattato di una campagna elettorale sui generis. In primo luogo, perché ha attraversato in pieno la settimana di Pasqua che, in Spagna, è festiva: la sfida quindi si è concentrata negli ultimi cinque giorni che sono stati di fuoco, tenendo conto dell’alta percentuale di indecisi che rilevavano i sondaggi (30%). In secondo luogo, perché è stata la campagna elettorale più acre della storia del paese, con fake news, accuse e insulti da parte di una destra radicalizzata dalla presenza di Vox. Non sono mancati nemmeno colpi clamorosi, come il cambio di casacca di Ángel Garrido, ex presidente della regione madrilena, passato a quattro giorni dal voto dal PP a Ciudadanos (non è stato l’unico amministratore locale, d’altronde, ad abbandonare il PP nell’ultimo periodo).
Il dibattito è stato dunque acceso, ma molto povero di contenuti. Nessuno ha parlato, ad esempio, di Europa, politica estera, cambiamento climatico o cultura. Nemmeno l’immigrazione e la sicurezza hanno avuto un ruolo cruciale, come ci si sarebbe potuto aspettare visto l’ingresso in scena di Vox. Ma il partito di estrema destra ha insistito piuttosto sulla difesa delle pretese tradizioni e identità spagnole (caccia, tori, ecc.), oltre che sul femminismo e sulle politiche di genere, attaccate duramente come un male frutto del multiculturalismo. L’economia ha occupato parte dei dibattiti, con i classici cavalli di battaglia delle tasse e delle pensioni, ma non è stata come tre anni fa il tema principe della campagna. Tutt’altro. Si è parlato essenzialmente di Catalogna e proprio di estrema destra.
Nel primo caso, sia il PP che Ciudadanos, oltre ovviamente a Vox, hanno cavalcato l’anticatalanismo, sentimento gonfiatosi in gran parte della Spagna come reazione al tentativo secessionista del governo di Barcellona. Lo scopo era mettere alle corde Sánchez, accusato di traditore e “fellone” per cercare dialogo e accordi politici con gli indipendentisti. Nel secondo caso, sono state le sinistre a cercare di mobilitare il proprio elettorato paventando il rischio reale di un governo delle tre destre. Vox è stata favorita dalla decisione della Giunta Elettorale che ha negato al partito di Santiago Abascal la partecipazione ai due seguitissimi faccia a faccia televisivi tra leader. L’estrema destra ha potuto così avere il doppio vantaggio di evitare il confronto e sfruttare il vittimismo, presentandosi come forza che dà fastidio al “sistema”. Vox è stata, in un senso o nell’altro, anche al centro delle discussioni nelle strade e sui social con una campagna in rete, soprattutto su Whatsapp e Instagram, molto aggressiva, nello stile di Jair Bolsonaro e Donald Trump. Non è superfluo ricordare i contatti esistenti tra l’estrema destra iberica, lo spin doctor della destra trumpiana Steve Bannon e l’integralismo cattolico antigender e profamiglia di CitizenGo, piattaforma di promozione ideologica finanziata da lobby russe e d’oltreoceano.
A questo clima di scontro si è unito un vero e proprio pressing riguardo alle alleanze post-elettorali, che ha evidenziato come la divisione tra destra e sinistra sia più attuale che mai. Il paese è infatti spaccato in due blocchi, per quanto l’offerta politica sia aumentata, con una destra divisa in tre tronconi per la prima volta in quarant’anni, e una sinistra rappresentata da due forze competitive. Così, nel rush finale della campagna il PP di Pablo Casado ha aperto a un governo con Ciudadanos e Vox, legittimando ancora di più l’estrema destra e non prendendo mai in considerazione la strategia del “cordone sanitario”, l’esclusione a prescindere applicata in altri paesi europei come la Francia. Dal canto suo Sánchez, per quanto più restio, ha dichiarato di preferire un governo con Unidas Podemos piuttosto che con il partito di Albert Rivera, considerato un possibile partner per le intese nel nuovo parlamento.
In realtà, però, la vera questione di fondo di queste elezioni è stata la Spagna e la sua identità nazionale. Il paese, infatti, non è ancora uscito da una crisi multilivello iniziata nel 2008: una crisi non solo economica e sociale, ma anche politica, istituzionale, culturale e territoriale. Tutti i partiti hanno parlato implicitamente o esplicitamente del modello di paese che sostengono: una Spagna centralizzata e omogenea per tutte le destre, una Spagna plurinazionale per Podemos, una Spagna decentrata e rispettosa delle diversità per il PSOE, che ha usato, non a caso, lo slogan “La Spagna che vuoi” (o che ami, visto che in spagnolo quieres può voler dire entrambe le cose). Il vincitore Sánchez dovrà ora dare un senso concreto al suo slogan.
I possibili scenari
I risultati non lasciano molte possibilità riguardo agli scenari post-elettorali. La prima opzione è quella preferita dai poteri economico-mediatici: un governo PSOE-Ciudadanos. Rivera, però, ha costruito la sua campagna elettorale proprio sull’opposizione ai socialisti, e attaccando ripetutamente la figura di Sánchez. In più, un patto di governo como socio minoritario sembra non convenirgli ora che alla sua portata c’è l’egemonia a destra e la possibile disintegrazione del PP. Così ha affermato anche la mattina successiva al voto la numero due di Ciudadanos, Inés Arrimadas. Si tenga conto poi che molti votanti socialisti hanno ribadito a Sánchez, durante i festeggiamenti post-elettorali davanti alla sede del partito, di non volere un patto di governo con Rivera. Le basi chiedono chiaramente un’alleanza a sinistra.
La seconda opzione, appunto un governo del PSOE con Unidas Podemos appoggiato da diverse formazioni regionaliste potrebbe essere dunque la più probabile.
Il problema è come raggiungere la maggioranza assoluta nelle Cortes di Madrid. A Sánchez non bastano i voti del partito di Pablo Iglesias, dei valenciani di Compromís, dei regionalisti cantabri e dei nazionalisti baschi del PNV. Serve anche l’astensione, se non l’appoggio, degli indipendentisti catalani di Esquerra Republicana de Catalunya (ERC), che sono stati i veri vincitori delle elezioni a Barcellona (15 deputati, nel 2016 ne ottennero 9). ERC ha sbaragliato l’altra grande formazione indipendentista, Junts per Catalunya, il partito dell’ex presidente Carles Puigdemont, ormai di base nelle Fiandre per evitare il processo conseguente alla dichiarazione d’indipendenza della Catalogna (27 ottobre 2017) che invece l’ex leader di ERC, Oriol Junqueras, sta subendo. Ciò dimostra una volta ancora la centralità della questione catalana, che, prima o poi, il governo di Madrid dovrà tentare di risolvere.
Per il governo, resta sul campo anche anche un’ultima opzione, che piacerebbe molto ai socialisti: governare in minoranza cercando appoggi contingenti, a volte nel centro-destra, altre volte a sinistra. È difficile, ma non impossibile.
Ci vorrà in ogni caso del tempo prima di avere una risposta: il 26 maggio in Spagna si vota di nuovo, non solo per le Europee, ma anche per le amministrative. Vanno al voto tutti i Comuni spagnoli e 12 regioni su 17. Sarà un test fondamentale,una specie di secondo round di questo 28 aprile. Fino ad allora nessuno prenderà una posizione chiara. Un primo segnale lo avremo il 21 maggio quando si formerà il nuovo Parlamento e si dovrà votare il presidente delle Cortes. In quel momento si vedrà che tipo di alleanze si possono, e si vogliono, costruire. A dare le carte, comunque, sarà Pedro Sánchez. Dovrà giocarle bene per non perdere la fiducia che hanno deciso di consegnargli molti elettori spagnoli.