In vista del voto di novembre per rinnovare la Camera dei rappresentanti e un terzo del Senato, si stanno tenendo in questi mesi le primarie dei due partiti principali, da cui sono già usciti numerosi risultati interessanti. In campo repubblicano ha destato scalpore la sconfitta di Eric Cantor, leader di maggioranza alla Camera, a opera del misconosciuto Dave Brat, appoggiato dal Tea Party. Quello che è capitato nel settimo distretto della Virginia è senza precedenti: dal 1899, cioè da quando è stata istituita la figura dell’House Majority Leader, mai chi ricopriva questa carica ha perso nelle primarie. L’affermazione di Brat è stata così sorprendente che non pochi commentatori hanno ipotizzato un ennesimo spostamento a destra del Partito Repubblicano. In realtà, analizzando i risultati nel loro complesso, si ottiene un quadro più sfumato, dove a fronte di affermazioni dei conservatori ci sono state anche numerose sconfitte per il Tea Party. In Kentucky, per esempio, il leader della minoranza repubblicana al Senato Mitch McConnell, simbolo dell’establishment del Grand Old Party (GOP), ha superato 60 a 40 l’uomo d’affari conservatore Matt Bevin. Esiti analoghi si sono avuti in roccaforti repubblicane come Georgia e Idaho.
Complessivamente, il GOP conta di confermare la maggioranza alla Camera e di conquistare il controllo del Senato. Dalla sua ha la bassa popolarità odierna del presidente Barack Obama – ferma ad appena il 41% – e la comune percezione di errori del governo nella gestione delle questioni legate all’immigrazione (secondo gli ultimi dati Gallup, appena il 31% degli americani condivide le scelte di Obama in materia), alla sanità e alla politica estera. Solo Ronald Reagan nel 1982 e George W. Bush nel 2006 affrontarono elezioni di medio termine con una popolarità più bassa di quella attuale di Obama. Nel 2010, in una tornata elettorale che vide i Repubblicani strappare ai Democratici ben 60 seggi alla Camera, l’attuale presidente era apprezzato dal 44% degli elettori – cioè in condizioni migliori di quelle di oggi.
Un altro vantaggio per i Repubblicani è di essersi ormai specializzati nelle elezioni di midterm. Rispetto alle presidenziali, infatti, sono molte di meno le persone che votano, e i Repubblicani hanno un elettorato (prevalentemente bianco, maschile, anziano) che tradizionalmente partecipa con grande regolarità a ogni appuntamento con i seggi. Donne, giovani e minoranze etniche, che propendono per il Partito Democratico, si attivano invece solo in presenza di grandi operazioni di mobilitazione, come quelle messe in atto dalle campagne elettorali di Obama nel 2008 e nel 2012. Il paradosso è quindi quello di un paese che, per ragioni demografiche, tenderebbe a spostarsi verso i Democratici ma che, per abitudini di voto, li penalizza nelle poco elettrizzanti elezioni di midterm.
Sono presenti però ostacoli anche sulla strada dei Repubblicani: il tasso di approvazione del Congresso è al 16%, il minimo dal 1974, cioè da quando esiste questo tipo di rilevazione. Inoltre, le profonde divisioni ideologiche al Congresso, che ne hanno causato una lunga paralisi (sfociata poi nella chiusura del governo federale per due settimane lo scorso anno) hanno disgustato molti elettori, che ne danno la colpa soprattutto ai Repubblicani.
Le maggiori attenzioni mediatiche sono naturalmente rivolte al Senato, dove ai Repubblicani servirebbe strappare sei seggi ai Democratici per prendersi la maggioranza. Sarebbe un esito disastroso per la presidenza: a Obama rimarrebbero due anni di amministrazione con Senato e Camera in mano all’opposizione. Dei 36 seggi in palio a novembre (il tradizionale rinnovo di un terzo più tre elezioni speciali), vi sono tre stati che sembrano ormai persi dai Democratici: Montana, South Dakota e West Virginia. In Montana, il senatore uscente John Walsh dovrà vedersela con il popolare deputato repubblicano Steve Daines, cercando di rimontare un gap di quasi dieci punti nei sondaggi; in South Dakota e West Virginia, i senatori in carica Tim Johnson e Jay Rockfeller hanno scelto di ritirarsi, e ciò probabilmente faciliterà i Repubblicani nella conquista di due seggi collocati in territori a loro storicamente favorevoli. Vi sono poi altri sei seggi detenuti da senatori Democratici uscenti che appaiono come possibili conquiste repubblicane: North Carolina, Louisiana, Colorado, Alaska, New Hampshire e Arkansas. Infine due territori in cui sono i Democratici ad avere qualche speranza di strappare la vittoria ai Repubblicani: Georgia e Kentucky.
La Georgia è uno dei casi più interessanti: si tratta di uno stato saldamente repubblicano, dove il GOP riceve mediamente circa l’80% del voto dei bianchi, mentre i Democratici il 90% del voto nero. Afro-americani, ispanici e americani di origine asiatica sono però in netta crescita numerica, grazie all’immigrazione e a superiori tassi di natalità, mentre la maggioranza bianca va lentamente restringendosi. È evidente quindi che nel medio periodo – specie a livello di elezioni presidenziali – la Georgia diventerà uno stato pienamente “contendibile”. Per il momento, bisogna capire se la candidata democratica Michelle Nunn, figlia dell’ex senatore Sam Nunn, riuscirà a mobilitare le minoranze e spingerle al voto. I sondaggi le danno buone possibilità di farcela, anche in virtù delle divisioni interne ai Repubblicani. Il senatore uscente, il conservatore Saxby Chabliss, ha scelto di non ripresentarsi e solo il 22 luglio si terranno le primarie tra il deputato Jack Kingston e l’imprenditore David Perdue.
In Kentucky, invece, il già citato Repubblicano uscente Mitch McDonnell se la vedrà con l’attuale segretario di Stato Alison Lundergan Grimes, che da mesi gli sta lentamente erodendo consensi. A rendere incerta la riconquista democratica è però intervenuta l’ufficializzazione della candidatura come indipendente di Ed Marksberry, già candidato democratico al Congresso nel 2010 che potrebbe soffiare voti alla Grimes. Altra sfida interessante è in Arkansas, dove Mark Pryor, eletto dal 2002 e figlio del senatore David Hampton Pryor, in carica dal 1979 al 1997, se la vedrà con il quarantenne veterano di guerra Tom Cotton, considerato da molti come uno dei più promettenti Repubblicani emergenti.
Alla Camera il risultato appare più scontato: dei 435 seggi in palio, appena 60 sono considerati veramente competitivi; sebbene ai Democratici ne bastino 17 per riacquistare il controllo della camera bassa, sono pochi gli analisti che sarebbero disposti a scommettere su questo scenario.
Il Partito Democratico è perciò concentrato sulle sfide senatoriali. Lo sforzo è tutto nel limitare l’astensione: più alta sarà l’affluenza più si ritiene che i candidati democratici possano andare bene. Gli strateghi del partito dell’asinello si stanno quindi impegnando a fondo nella mobilitazione dei propri sostenitori, con sforzi maggiori rispetto al passato. Sono iniziative costose che richiedono il reclutamento sul territorio di un grande numero di volontari. Il partito ha già stanziato 60 milioni di dollari, avendo messo a capo delle operazioni è Guy Cecil, che nel 2010 in Colorado garantì al partito la conferma del cruciale seggio di Michael Bennet.
E la risposta repubblicana? Una nuova organizzazione finalizzata a raccogliere fondi per sostenere od ostacolare candidati (un cosiddetto superPAC) fondata dai fratelli Koch, ricchissimi magnati dell’industria petrolchimica da sempre finanziatori del partito. Il Freedom Partners Action Fund – questo il nome ufficiale della nuova superPAC – investirà 15 milioni di dollari nelle elezioni di medio termine (e ha in progetto di arrivare a spendere fino a 290 milioni per le presidenziali del 2016). Questa nuova organizzazione intende sostenere tutti quei candidati che vogliono battersi per il libero mercato e contro l’ingerenza del governo centrale.
In vista delle elezioni di medio termine di novembre, dunque, i portafogli si sono aperti negli Stati Uniti ben prima dei seggi.