La Serbia di Vucic, tra Russia ed Europa

Il presidente della Serbia, l’uscente Aleksandar Vucic, ha conquistato il 59% dei voti al primo turno delle presidenziali, ottenendo la rielezione immediata, mentre il suo Partito progressista serbo (SNS) ha ottenuto una solida maggioranza, 43%, nel rinnovo del parlamento: questo l’eloquente risultato del voto serbo del 3 aprile. Il rivale di Vucic, Zdravko Ponos, ex generale sostenuto dalle principali sigle dell’opposizione, si è fermato al 18%, mentre la coalizione che lo supportava, “Uniti per la vittoria della Serbia”, conquista 38 seggi parlamentari su 250. L’assemblea nazionale serba torna così ad avere seggi occupati dall’opposizione dopo il boicottaggio del 2020, quando l’esecutivo poggiava sulla fiducia di ben 244 deputati. L’SNS è primo partito anche a Belgrado, dove però le opposizioni sono andate meglio e l’elezione del sindaco dipenderà dalle possibili alleanze.

Oltre che un’ulteriore regressione per la democrazia serba, il voto del 3 aprile rappresenta un campanello d’allarme anche per gli equilibri geopolitici europei, nonché per la stabilità nei Balcani.

Passanti davanti a un manifesto elettorale di Vucic a Belgrado

 

Il partito-stato del presidente

“Sono riuscito a fare ciò che in Serbia nessuno era mai riuscito a fare”, ha detto il presidente Vucic a poche ore dalla chiusura dei seggi. Il riferimento è alla vittoria presidenziale al primo turno per la seconda volta consecutiva, dopo il successo del 2017, quando vinse col 55% dei voti. L’autocompiacimento postelettorale di Vucic – condito da una retorica vittimistica e una gestualità fatta di lunghe pause, sospiri e toni cupi con cui si presenta come un martire che si sacrifica per il bene della nazione – fa passare in secondo piano una fattispecie dell’erosione dello stato di diritto di cui è artefice. Alla chiusura dei seggi, la Commissione elettorale ha smesso di riportare i dati sull’affluenza, non ha tenuto conferenze stampa e ha fatto sapere che avrebbe pubblicato i primi risultati appena lunedì sera. E allora è stato proprio Vucic a comunicare i risultati ufficiali al Paese, dalla sede del partito di cui è presidente, carica che gli permetterà di comporre il futuro esecutivo. Una fotografia che ben rappresenta la trasformazione del partito in stato, operata in questi anni da Vucic, e la sua minaccia all’autonomia delle istituzioni democratiche. Lo state capture in Serbia è infatti perpetrato con la supremazia del ruolo del partito di governo su quello degli organi statali, ormai privati delle proprie funzioni.

Con il successo di domenica, Vucic e il suo SNS ipotecano un record politico: governare per più di dodici anni. Un limite di tempo che negli ultimi trent’anni non era stato oltrepassato né da Slobodan Milosevic, né dai democratici che lo spodestarono nel 2000. E se la situazione attuale ripropone analogie con l’epoca di Milosevic, all’autocrazia di Vucic va riconosciuto il merito di un upgrade rispetto al predecessore – che l’attuale presidente servì come ministro dell’Informazione.

Innanzitutto, nella limitazione della libertà di stampa. Vucic oggi controlla molti più media di Milosevic, e lo fa con strumenti apparentemente legali: da un lato ricorre a pressioni fiscali sulle testate critiche, dall’altro premia le emittenti e i tabloid filogovernativi, anche se indebitati col fisco, con sovvenzioni statali che gli consentono di estendere la propaganda a livello nazionale.

 

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Ma la più importante miglioria della Serbia di Vucic rispetto a quella di Milosevic è l’esser riuscito a ottenere il supporto dell’Occidente. Dopo aver svestito i panni del radicale che negli anni Novanta progettava la “grande Serbia”, Vucic ha costruito la sua ascesa politica presentandosi come leader pragmatico, uomo delle riforme, ma soprattutto europeista convinto. Una maschera che ha facilmente ingannato un’Unione Europea poco disposta a sporcarsi le mani con la politica serba.

 

L’eco del risultato in Europa

La carriera politica di Vucic non avrebbe avuto lo stesso successo se non avesse avuto il supporto dell’Unione Europea. Il rapporto tra istituzioni occidentali e autocrati balcanici è stato definito “stabilitocrazia”. All’offerta di una apparente stabilità da parte dei governi locali, corrisponde il sostegno e la legittimazione politica dell’Occidente, spesso a totale discapito degli standard democratici.

Questo rapporto è problematico per almeno tre motivi. In primis perché baratta il rispetto dello stato di diritto con una stabilità che, come dimostrano anche queste elezioni, si traduce esclusivamente nel rafforzamento di un solo partito di governo, dunque con un peggioramento degli standard democratici nel lungo periodo. In secondo luogo, svela un’incoerenza sistemica da parte dell’Unione Europea. Mentre Bruxelles esige il rispetto dello stato di diritto fino a renderlo condizione indispensabile per i fondi di bilancio, la stessa richiesta non è stata così vincolante per la Serbia, paese candidato all’adesione da dieci anni, cioè da quando l’SNS è al governo.

In questo periodo, la Commissione Europea non solo ha chiuso un occhio sulla deriva autoritaria di Vucic, ma ne ha anche legittimato il percorso europeo eleggendo il paese a “capofila” del processo d’integrazione nei Balcani. Un titolo che la Serbia condivide insieme al Montenegro, a cui la Commissione un po’ ambiziosamente pronosticò la definitiva integrazione per il 2025; un gradino più in basso, invece, seguono Albania e Macedonia del Nord – paese che più di tutti ha investito nelle riforme, a partire dal nuovo nome –, la cui apertura dei negoziati d’adesione è stata più volte ritardata. L’Unione potrebbe quindi presto accogliere al suo interno un’autocrazia che ha contribuito a creare, con il rischio che ciò degeneri in una versione politica della “sindrome da Frankenstein”: ovvero un paese membro che non segue più i principi del suo creatore.

Infine, la stabilitocrazia è problematica perché il sostegno europeo ha avuto uno scopo geopolitico: sottrarre la Serbia dall’influenza di altre superpotenze. Un calcolo strategico che, invece, non ha fatto che alimentare l’oscillazione di Belgrado tra est e ovest, senza portare al suo “ancoraggio”.

 

Un voto per Putin?

Alla vigilia del voto, uno degli elementi che poteva forse scalfire il supporto a Vucic, che in dieci anni è cresciuto un’elezione dopo l’altra, fino a toccare circa metà dell’elettorato, era il rapporto con la Russia, sotto i riflettori da quando è iniziata l’invasione dell’Ucraina. La reazione di Belgrado all’aggressione russa è stata coerente con la sua decennale politica del piede in due staffe: difesa dell’integrità territoriale ucraina, in linea con l’Occidente, ma nessuna sanzione a Mosca; la Russia, tra l’altro, è anche un alleato strategico della Serbia nell’ostacolare il processo d’indipendenza del Kosovo.

Tuttavia, Vucic sa che la guerra in Ucraina potrebbe presto obbligarlo a prendere una posizione meno equidistante, pena la perdita del sostegno europeo. Per preservare questa caratteristica ubiquità diplomatica, il governo di Vucic potrebbe quindi ricorrere ad uno stratagemma di politica interna: pilotare alcuni partiti nazionalisti minori per capitalizzare, attraverso questi, anche l’opinione filo-russa. Sarà il caso, forse, di Zavetnici, formazione di estrema destra che domenica ha superato la soglia di sbarramento ed esordirà in parlamento.

Questa manovra consentirebbe a Vucic di continuare a presentarsi agli occhi dell’Occidente come un leader europeista, delegando il legame con “la fratellanza russa” agli alleati del Partito socialista nonché a partiti satellite che fino a domenica scorsa partecipavano alla cosiddetta “opposizione sistemica”.

Per Belgrado, infatti, il rapporto con Mosca è indispensabile: il veto russo al Consiglio di Sicurezza ONU è un’assicurazione contro l’autodeterminazione internazionale di Pristina. Ma “la fratellanza russa” è anche un utile strumento della retorica nazionalista: ricompatta l’elettorato con la strumentalizzazione di elementi culturali e religiosi comuni con il grande Paese slavo e accresce una contrapposizione ideologica e geopolitica col mondo occidentale, che i circoli nazionalisti ancora colpevolizzano sia per i bombardamenti NATO del 1999 che per le presunte interferenze nel processo di dissoluzione jugoslava.

 

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Il nazionalismo resterà quindi una carta essenziale per il futuro esecutivo, utile a preservare lo status quo sul Kosovo, così come a coltivare quel “mondo serbo” che lega i nazionalisti di Bosnia e Montenegro alla madrepatria. Per la regione balcanica ciò si tradurrebbe in una maggiore precarietà geopolitica a vantaggio di Mosca, che con la vittoria di Vucic sa di poter conservare la propria influenza sui Balcani.

In conclusione, la sfida maggiore resterà in capo a Bruxelles: accelerare quel processo d’integrazione che nei Balcani è stagnante da anni, abbandonando la stabilitocrazia e insistendo maggiormente sul rispetto dello stato di diritto, e mettere in pratica concretamente quella missione geopolitica con cui nacque l’attuale Commissione.

 

 

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