La sconfitta del ‘soft power’ russo?

L’invasione dell’Ucraina segna una decisa svolta nella complessa strategia russa di proiezione di potenza e di influenza all’esterno. Negli ultimi due decenni, infatti, Mosca si era mossa sulla base di una efficace ed equilibrata combinazione di soft power, sharp power e hard power. L’esercizio di quest’ultimo, sebbene soggetto ad un incremento progressivo – si pensi agli interventi militari in Abkhazia e Ossezia, in Siria, nel Donbass, in Libia mediante il Wagner Group, fino all’annessione della Crimea – non aveva sinora compromesso l’utilizzo delle altre due importanti leve di proiezione, il cui abile impiego ha oggettivamente conferito al Cremlino una significativa capacità di condizionamento delle democrazie occidentali.

 

Viceversa, la guerra di annessione contro Kiev ha, di fatto, mutato tale quadro.

L’interruzione tedesca del processo di certificazione del gasdotto Nord Stream 2, contestualmente alla decisione assunta in sede europea di eliminare entro il 2027 la dipendenza da gas e petrolio russi, hanno infatti colpito il principale strumento di sharp power detenuto da Mosca, ossia la possibilità di esercitare una forte pressione politica sugli Stati europei mediante la costante minaccia di “chiudere il rubinetto” della fornitura di materie prime essenziali.

Quanto ai provvedimenti di oscuramento dell’emittente Russia Today e del sito Sputnik, due tra i principali veicoli della disinformazione e dell’influenza russa, tali misure non precludono di per sé l’operatività di un apparato di comunicazione attraverso il quale il Cremlino ha costantemente tentato di scardinare i sistemi democratici “dall’interno”.

E questo non solo perché, negli ultimi anni, la guerra dell’informazione condotta dalla Russia ha visto schierata, oltre ai già citati siti oggetto di censura, un’autentica galassia agenzie di stampa, pagine social, blog, troll e bot in grado di diffondere su larga scala fake news volte a destabilizzare il quadro politico e sociale delle democrazie occidentali, ma per la natura stessa di tali operazioni. Tecnicamente, l’attività di influenza consiste nell’impiego mirato delle informazioni al fine di generare effetti psicologici e cognitivi, utili ad alterare le percezioni e a condizionare comportamenti e opinioni. Questa può ricorrere o meno allo strumento della disinformazione, ossia ad una attività che ha lo scopo di falsare il giudizio di un soggetto bersaglio, condizionandone orientamenti di pensiero e azioni. Di norma, tuttavia, l’avvio di campagne di disinformazione si inquadra in una più generale attività di influenza che ne definisce l’obbiettivo e il relativo livello di impatto.

Se ben orchestrate, tali campagne non cessano di produrre i loro effetti una volta scoperta la “fonte” e svelata la non veridicità del contenuto. Un esempio chiaro in questo senso è rappresentato dall’operazione Infektion, con la quale il KGB ha attribuito al Governo statunitense la responsabilità della diffusione del virus dell’HIV, allo scopo di colpire le minoranze di colore e i cittadini omosessuali del paese. Benché già alla fine degli anni ottanta l’Active Measures Working Group americano abbia dimostrato chiaramente quale fosse l’origine e la natura di quella campagna di disinformazione, la sua tesi di fondo ha continuato a circolare fino ad oggi, ed è attualmente ripresa nel quadro delle teorie cospirazioniste relative alla pandemia in atto.

E’ pertanto plausibile ritenere che quell’esercito di siti internet, agenzie di stampa, troll e bot che ha nel tempo veicolato campagne contro l’immigrazione, contro i vaccini, contro il greenpass e che adesso si sta riconvertendo in un’attività di “rilettura” della guerra in Ucraina e di “riabilitazione” della figura di Putin, possa continuare in modo efficace la propria azione in futuro. Dunque, sebbene destinato a ridimensionarsi fortemente in una delle sue direttrici portanti, ovvero quella del ricatto energetico, lo sharp power russo sembra poter sopravvivere alla scelta dell’opzione militare su larga scala. Tale valutazione induce inevitabilmente a pensare che le attività di disinformazione e di influenza russe evidenzieranno un massiccio incremento nel breve-medio termine.

Viceversa, ad essere maggiormente esposte alle conseguenze della scelta di avviare una guerra di invasione sono le posizioni di vantaggio acquisitite da Mosca attraverso l’esercizio del soft power, ossia lo strumento rivelatosi più insidioso per le democrazie occidentali. Questo, definito in termini generali, rappresenta la capacità di “attrazione” di un determinato paradigma, ossia l’idoneità a indurre un’adesione libera ad un sistema di istituzioni e di norme di cui si riconosce la legittimità e l’utilità.

In questo campo, Vladimir Putin ha elaborato e proposto in modo esplicito un modello di democrazia “sovrana”, declinato successivamente in una dimensione teoricamente più articolata, ossia quella di una democrazia “illiberale”.

In un’importante intervista al Financial Times del giugno 2019, il capo del Cremlino ha sostenuto come l’ideologia liberale “sia sopravvissuta al suo scopo”, esaurendo la propria funzione e divenedo insostenibile in alcuni suoi elementi. Tra questi, Putin individua il multiculturalismo, il cui effetto deleterio entrerebbe in un contrasto insanabile con i principi della maggioranza della popolazione, ovvero con la religione e con la cultura tradizionale. L’essenza del nuovo modello che il Presidente russo ha proposto come alternativa alle società occidentali verte sul rapporto diretto, scarsamente mediato da altre articolazioni istituzionali, tra il leader e il popolo.

Tale costruzione teorica, sebbene non precisata e articolata ad un punto tale da poter essere considerata strutturalmente definita, ha comunque esercitato una forte influenza sui movimenti politici espressione della cosiddetta ondata “populista”, nonché sulle leadership di alcuni paesi dell’est europa aderenti all’UE. Queste ultime hanno adottato, in modo alquanto spregiudicato, l’idea ossimorica della “democrazia illiberale”, rimettendo in discussione i principi dello stato di diritto e, dunque, i pilastri dell’ordinamento europeo.

L’indeterminatezza strutturale dell’alternativa sovrana – o sovranista – e illiberale alle democrazie occidentali è stata in qualche modo attenuata dall’aura di misticismo con cui Alexander Dugin, filosofo e “consigliere” di Putin, ha ammantato tale orientamento. La forza suggestiva esercitata sugli ambienti intellettuali della destra europea dai concetti ispirati alla “geografia sacra” e al mito dell’Eurasia ha contribuito a creare un clima favorevole all’offensiva “concettuale” russa contro l’ordine retto dalle liberal-democrazie.

Le magliette con il volto di Putin sfoggiate da politici occidentali di primo piano, gli apprezzamenti per un leader capace di ergersi a difesa “dei valori europei e dell’identità cristiana” ed i tentativi di superare il principio cardine della divisione dei poteri, hanno costituito una delle principali rappresentazioni del recente successo del soft power russo, ossia della capacità attrattiva del modello Putin all’interno dell’Occidente.

Appare innegabile, tuttavia, che l’azzardo militare e politico di queste settimane abbia mutato radicalmente tale quadro, determinando un cambiamento strutturale nella strategia di proiezione esterna della Russia.

I cingoli dei carri armati lanciati alla conquista dell’Ucraina hanno infatti travolto anche la vasta rete di consenso, influenza e condizionamento imperniata sul soft power, mostrando al mondo cosa realmente si celi dietro l’attuale “alternativa” russa al modello occidentale.

Si tratta di un indebolimento complessivo del modo in cui la Russia e il suo Presidente sono percepiti all’estero “percezione” che li priva, di fatto, del loro principale elemento di penetrazione delle democrazie occidentali.

 

 

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