La Russia si oppone a tutti questi passi formali, sebbene con varie gradazioni; ma va ricordato anche che nel 1997 viene creato il Permanent Joint Council NATO-Russia, concepito specificamente per favorire un dialogo regolare con Mosca, poi sostituito nel 2002 dal NATO-Russia Council con la formula di incontri “tra eguali” proprio per non dare l’immagine di una sorta di isolamento della Russia. Almeno fin qui, da questi dati di fatto, non sembra che sia stata intenzione dell’Alleanza schiacciare o umiliare l’ex-avversario. E va sempre ricordato che sono i Paesi aspiranti a richiedere l’adesione: forse banale, ma importante.
La sequenza delle date è rivelatrice, nel senso che le nuove adesioni arrivano tutte dopo le crisi jugoslavo-balcaniche, mentre il principio della “porta aperta” (per cui la NATO si riserva la possibilità di ulteriori adesioni) e la prassi delle “partnership” non hanno spinto l’Alleanza sempre più verso Est ma semmai verso Sud. Sono gli interventi in Bosnia e poi in Kosovo-Serbia ad aver portato la vecchia NATO nel XXI secolo: passata quella soglia, la Russia ha avuto davanti una nuova controparte, più agile e dinamica (sebbene non sempre più efficace), con frontiere mobili e missioni flessibili. Ancora deve farsene una ragione, come se non avesse superato lo shock.
Una controversia ricorrente, spesso rilanciata dalla parte russa, è relativa alle “promesse” fatte da alcuni leader occidentali a Mosca, nei primi anni ’90, di non schierare comunque armamenti ad Est rispetto alla linea della Guerra fredda. Va detto che le fonti del periodo sono, a tutt’oggi, solo parzialmente accessibili; ma il punto centrale è che la NATO non ha mai assunto un impegno formale in proposito, e con il mutare delle condizioni geopolitiche sono cambiate le valutazioni occidentali. Del resto, la Russia di Vladimir Putin non è la Russia di Boris Eltsin – come lo stesso attuale Presidente è orgoglioso di ricordarci ad ogni piè sospinto.
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Su un aspetto, comunque, i critici dell’allargamento colgono nel segno: la scelta di espandere la NATO verso Est si è inserita in una cornice concettuale più ampia, che davvero configura in un certo senso un “accerchiamento” della Russia. Non si tratta però di una manovra a tenaglia di tipo militare, ma piuttosto di una progressiva espansione del modello democratico-liberale. Questa visione fu articolata in modo esplicito dal Consigliere per la Sicurezza Nazionale di Bill Clinton, Anthony Lake, già nel 1993: si parlò addirittura di una “dottrina Lake”, denominata “democratic enlargement”. In retrospettiva, l’idea di fondo era probabilmente semplicistica, e ha infatti avuto alterne fortune, finendo per essere danneggiata tragicamente da due lunghissime guerre ben lontane dal “core business” originario della NATO: quella irachena e afgana – ma questo è un tema ben più largo che tocca solo tangenzialmente la questione russa.
Per avere un quadro complessivo delle possibili critiche che oggi vengono mosse alla NATO, si devono allora combinare le considerazioni pragmatiche degli allargamenti più controversi (la gestione di nuovi assetti europei con la Germania riunificata e le richieste provenienti da vari ex membri del blocco sovietico), l’evoluzione successiva della sicurezza continentale (soprattutto con la violenta dissoluzione della Jugoslavia), e alcuni fattori ideali (il “democratic enlargement”, con i suoi parziali successi e i suoi molti limiti). Su queste basi, almeno tre elementi sembrano sfuggire troppo spesso nelle analisi correnti:
- Primo, come l’Unione Sovietica, anche la NATO ha una storia, cioè un passato e una pesante eredità, che ha inevitabilmente influenzato le scelte dei suoi Paesi membri nei primi anni ’90 e nel periodo successivo;
- Secondo, l’evoluzione della sicurezza euroasiatica e globale dopo il crollo dell’URSS non era affatto chiara, ed era anzi ricchissima di incertezze: la maggiore alleanza a guida americana era vista, alla fine della Guerra fredda, come il possibile nucleo euro-atlantico di un sistema globale, ed esattamente in questa funzione decise (con molti dubbi e molti caveat) di intervenire “out of area” nella ex-Jugoslavia proprio a fronte di una minaccia radicalmente diversa rispetto a quella sovietica durante la Guerra fredda;
- Terzo, il processo decisionale che portò ai vari allargamenti era il frutto di una visione dinamica e di fatto espansiva del ruolo americano, ma fu anche fortemente influenzato dalle richieste e dalle aspettative di Paesi che quasi tutto l’Occidente considerava “liberati” da una presenza oppressiva come quella sovietica.
Guardando alla situazione attuale, per così dire con il senno di poi, molte considerazioni che hanno contribuito alle scelte collettive compiute dalla NATO restano valide. In particolare, si dimentica troppo spesso la natura fortemente imperiale e militarizzata della presenza sovietica (percepita peraltro come anche “russa”, cioè come proiezione di un imperialismo di tipo tradizionale) in Europa centro-orientale, che ha lasciato un segno profondo. Di questo non si può certo incolpare la NATO. L’Europa spaccata a metà, divisa da muri e filo spinato, non è un’astrazione lontana, e perfino le generazioni post-1989 possono averne un assaggio se soltanto visitano Berlino seguendo un sottile tracciato che è tuttora impresso sull’asfalto e sulle pietre della città.
In estrema sintesi, la storia c’è per tutti, non solo per i russi.
Negli scorsi tre decenni, l’Alleanza ha dovuto gradualmente adattarsi a sfide e minacce impreviste, finendo perfino per combattere sulle montagne afgane, e non certo per volontà di accerchiare la Russia. Come nel 1949, ancor oggi la NATO si fonda anche su un consenso di fondo su valori politici condivisi: interessi e valori ad ampio spettro (in un equilibrio intrinsecamente instabile e difficile) che non sono focalizzati sulla Russia in modo quasi ossessivo come sembra ritenere il Cremlino.
Mario Del Pero ha recentemente ricordato alcune autorevoli valutazioni molto critiche riguardo all’allargamento negli stessi Stati Uniti, come quelle dell’allora anziano George Kennan (tra gli architetti del “containment”) e dello storico John Lewis Gaddis, che oggi appaiono profetiche. Vero, ma sono diventate profetiche con un “lag” di diversi anni e forse per le ragioni sbagliate: il punto non è tanto che l’allargamento della NATO ha reso istantaneamente più nazionalista e insicura la società russa; è piuttosto che il regime instaurato da Putin ha scelto di insistere progressivamente sull’espansione a Est dell’Alleanza vincitrice (e in effetti sul crollo stesso dell’URSS) come momento fondativo dell’attuale identità russa. E’ un mix di antico e di nuovo, che ha basi concrete ma anche elementi artificiosi: è assai probabile, ad esempio, che la stragrande maggioranza dei cittadini della Federazione Russa tollererebbe una NATO allargata senza battere ciglio qualora le prospettive economiche del Paese fossero dinamiche e le élite imprenditoriali non spostassero sistematicamente all’estero le proprie risorse finanziarie. In altre parole, se il governo puntasse su un forte rilancio economico come priorità programmatica, forse troverebbe modi migliori di investire il denaro pubblico rispetto a una concentrazione di truppe lungo la frontiera ucraina o a uno strisciante “conflitto ibrido” contro i tre piccoli Paesi baltici.
Come ci ricordano moltissimi studi antropologici, sociologici e politologici, le identità collettive sono costruite, nutrite e spesso mobilitate dalle leadership e dai flussi di comunicazione. Quella a cui si riferisce oggi il gruppo dirigente attorno a Putin è, purtroppo, un’identità essenzialmente paranoica, visto che Mosca ha ritenuto di essere minacciata, a intermittenza, dai Paesi baltici, dalla Georgia, dall’Ucraina, e perfino dalla Bielorussia. Certo, anche i paranoici possono realmente avere nemici, ma ciò non toglie che le loro percezioni siano più spesso errate che corrette. Nel caso specifico della Russia, la minaccia non è davvero quella di una pressione militare della NATO ai propri confini, ma anzitutto quella del cambiamento politico (realizzato o potenziale) in Paesi che essa considera geopoliticamente rilevanti – le cosiddette “rivoluzioni colorate”. Semmai, i confini che Mosca vede davvero minacciati da forze ostili sono quelli che condivide con gli “Stan” cioè i Paesi centroasiatici in cui le identità prevalenti sono turco-persiane e/o islamiche, e gli oltre 4.000km di frontiera con la Cina in Asia orientale.
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In sostanza, a ben guardare emerge come la narrazione storica utilizzata da Mosca è molto selettiva e alquanto fuorviante.
Detto ciò, è utile riportare un minimo di ordine anche nella discussione sui principi generali, che è diventata piuttosto confusa tra rivendicazioni storiche e analisi psico-politiche: esistono certamente interessi legittimi che la politica estera russa cerca di perseguire, a volte in forma competitiva rispetto alla UE, ad alcuni suoi Paesi membri, o agli Stati Uniti e alla NATO; ma in tal senso sono altrettanto legittimi anche gli interessi occidentali, a cominciare proprio dall’espansione dei valori democratico-liberali di cui parlava l’amministrazione Clinton quasi trent’anni fa. Non si vede perché la coalizione euro-americana dovrebbe vergognarsi o pentirsi di aver promosso la propria visione politica, sociale ed economica. Nessuno ha imposto agli ex Paesi del Patto di Varsavia una forma di governo post-comunista, e tantomeno lo si è fatto con la Russia – prova ne sia che la maggioranza parlamentare di Putin ha modificato la Costituzione a suo vantaggio meno di un anno fa.
E’ peraltro comprensibile che un Paese come la Russia faccia leva sul suo asset principale, cioè l’export di gas naturale, per tutelare o accrescere il suo peso internazionale. Lo strumento del ricatto energetico è sgradito a chi lo subisce, ma può ancora far parte di una “cassetta degli attrezzi” di cui fare uso. Radicalmente diverso è però lo scenario di un’operazione militare di conquista come quello che si è realizzato nel 2014 in Crimea. Se insomma si accetta una qualche “regola del gioco” condivisa in Eurasia, Mosca deve rassegnarsi a competere sul piano delle capacità economiche e dei modelli di governance, senza ricorrere allo schieramento di 100.000 unità e dei relativi mezzi quando vuole attirare l’attenzione e sedersi a un tavolo negoziale. E’ un po’ curioso sentir dire – anche da parte di vari commentatori europei – che le reazioni occidentali sono “isteriche”, a fronte di manovre militari di quella portata lungo un confine contestato e già fortemente militarizzato; benissimo ascoltare la “valutazione della minaccia” fatta dallo stesso governo di Kiev (per lo più prudente), ma resta il fatto che chi mobilita i propri strumenti militari in misura massiccia dovrà sempre attendersi una possibile reazione anche di tipo militare, magari indiretta e a sostegno di una delle parti in causa.
Se insomma si vuole ridiscutere di un sistema di sicurezza paneuropeo, si potrà farlo soltanto a condizione di fissare e rispettare regole generali, e non partire da una sorta di lista di eccezioni legate a un passato imperiale. Quelle regole ci sono già, in effetti, se si vogliono rileggere i numerosi comunicati congiunti dell’OSCE, del Consiglio d’Europa, del sopra citato NATO-Russia Council – tutti consessi di cui la Russia fa parte a pieno titolo. Ribadirle solennemente non farebbe certo male; ma, una volta che si sia auspicabilmente superata questa fase acuta di tensioni sull’Ucraina, sarà meglio evitare di ripercorrere la storia in modo selettivo e di scommettere sulle prove di forza.