Come dappertutto, anche nella Repubblica Popolare la politica si muove su due binari paralleli. Ci sono le questioni che bisogna affrontare, e tentare di risolvere con scelte strategiche. E poi c’è la presentazione di queste strategie. Azione e comunicazione vanno di pari passo.
Con scelte forti ma comunicazione debole, i governi finiscono per far sottovalutare il proprio lavoro e non ottengono il riconoscimento dovuto. Una comunicazione forte accompagnata da strategie inefficaci può rivelarsi ancora più disastrosa, e provocare la letale critica che quella amministrazione sia, in realtà, tutto fumo e niente arrosto.
Sia le scelte politiche che la loro presentazione devono riguardare i problemi vitali che un Paese si trova a affrontare. In Cina, per quanto grandi possano sembrare le differenze di stile tra Xi Jinping, che è al potere dal 2012, e il suo predecessore Hu Jintao, la realtà di fatto è che entrambi si sono trovati a fronteggiare le stesse sfide. Queste ultime non sono cambiate. Ma anche se il modo di comunicare dei due è visibilmente diverso, lo è anche il loro orientamento di fondo nelle decisioni politiche?
Il compito prioritario di Hu e Xi era ed è tuttora quello di far proseguire lo sviluppo economico della Cina. L’obiettivo, per entrambi, è lo stesso: riuscire nella cosiddetta “missione storica” della Cina di diventare entro il 2021 un Paese a medio reddito “ricco e forte”.
Xi ha anche parlato di “meta del centenario” – visto che il 2021 segnerà il centesimo anniversario della fondazione del Partito Comunista – ma il pensiero sotteso a questa affermazione non è differente da quello del suo predecessore. Per Xi, come per Hu prima di lui, il Partito Comunista rimane l’entità organizzativa centrale, l’unico nucleo strategico che entrambi considerano davvero capace di dare alla Cina la possibilità di raggiungere questa meta senza precedenti.
Non sono stati Xi, né il suo primo ministro Li Keqiang, a dimostrare per primi di aver riconosciuto quale sia la minaccia principale al raggiungimento di questo obiettivo, ma l’ex primo ministro Wen Jiabao, che oltre dieci anni fa dichiarò che la traiettoria economica della nazione era “instabile e insostenibile”, e che riteneva preoccupante la sua dipendenza da crescita e produzione orientate all’export. Sotto la guida di Wen, sono iniziati tentativi di mettere in moto la grande transizione verso un nuovo modello, più orientato a servizi e consumi e con una diminuzione degli investimenti fissi. Li ha solo proseguito su questa strada, con maggiore intensità.
Anche la politica interna, in Cina, è caratterizzata da continuità, piuttosto che da cambiamenti radicali. Sotto la leadership di Xi c’è stato un giro di vite inflessibilmente aspro nei confronti di giuristi e attivisti civili. Altrettanto fermo è stato il rifiuto di tollerare modelli politici di stampo occidentale. Ma tali orientamenti hanno avuto origine a metà del primo decennio del Duemila, acuite dai timori di contagio da parte delle sollevazioni in Ucraina e Georgia, e poi delle rivolte della primavera araba.
Anche le campagne contro la corruzione non costituiscono una novità. L’unica differenza è che Xi le ha rese più ampie, più ambiziose e più persistenti. Quando, per la prima volta, i leader del partito hanno dichiarato che la corruzione rappresentava una minaccia per l’esistenza del partito stesso, e doveva essere affrontata? Anche in questo caso, cinque anni prima che Xi diventasse segretario generale, cioè intorno al 2008, quando Wen Jiabao affermò che il partito rischiava di perdere il potere se non avesse fatto qualcosa in proposito.
Queste continuità di fondo costituiscono un contesto utile per esaminare, anche se solo da un punto di vista occidentale, la tanto celebrata estensione dei poteri di Xi Jinping. Xi è un leader assai più comunicativo di Hu, e più abile nel destreggiarsi coi media, sia in patria che all’estero. Ma va considerato seriamente il sospetto che la strada verso questo approccio sia stata aperta prima della sua salita al vertice e con un preciso scopo istituzionale, ovvero il saldo mantenimento del potere da parte del Partito Comunista, più che da parte dello stesso leader. Concentrarsi troppo su Xi come persona sarebbe fuorviante. Il centro della questione non è lui.
Lo stile di comunicazione di Xi potrebbe essere considerato rivoluzionario. C’è davvero un elemento di grande novità nell’uso, da parte di un leader cinese, della propria storia personale e nell’alto profilo esibito da una first lady come Peng Liyuan, e in generale nel focalizzare al massimo l’attenzione su un solo individuo. In effetti l’unica figura, nella storia recente della Cina, a dominare in tal misura i mass media è stata quella di Mao Zedong. Ciò ha contribuito a suscitare affermazioni che in realtà Xi sarebbe un nuovo Mao.
Questa opinione, tuttavia, non appare convincente. Per Mao, il partito era uno schiavo totalmente alla mercé del suo volere. Con la Rivoluzione Culturale, a partire dal 1966, egli arrivò quasi a distruggerlo, decimando i suoi esponenti più anziani e cancellando ogni fonte di dissenso istituzionale. Oggi la Cina è un luogo diverso, più aperto, e il modo di pensare dei suoi cittadini è profondamente cambiato rispetto alle vecchie pastoie collettiviste dell’epoca di Mao. Il problema non è tanto che la Cina sia governata da un regime autoritario. Ma piuttosto il fatto che un miliardo e trecentomila persone vivono le loro vite con scarsissimo interesse per la politica. Si occupano della loro piccola cerchia personale, continuano a fare il loro lavoro, e hanno a malapena una vaga idea di cosa sia, nella sua accezione più ampia, la loro società. Quest’ultima è troppo vasta e complessa per essere compresa e per suscitare sentimenti di appartenenza.
Xi è il leader politico che deve, in qualche modo, riuscire a parlare a questo uditorio polverizzato. L’unico suggerimento che sembra aver tratto dal libro-guida di Mao è quello di usare una leadership di tipo carismatico, e tentare di offrire una narrazione del grande ruolo emergente di una Cina che sia abbastanza attraente e generica da poter essere recepita da un pubblico distratto dallo scambio quotidiano di cento miliardi di messaggini su WeChat. Al mondo esterno può sembrare forse che Xi stia parlando forte e chiaro. In Cina, anche i suoi annunci più clamorosi provocano a stento qualche mormorio sommesso.
In qualche modo, comunque, deve riuscire a farsi ascoltare. Per un semplice motivo: il suo compito principale consiste nel realizzare una forma di continuità con tutto ciò che è accaduto prima. I suoi discorsi mettono bene in chiaro che egli considera il partito come il detentore della vera conoscenza, forgiatasi dal 1949 in poi a prezzo di errori amari e dolorosi. Per Xi, non sembra esistere una separazione davvero netta tra il periodo precedente al 1978 e quello successivo, caratterizzato dall’inizio delle riforme. Entrambi fanno parte della stessa vicenda storica. Quella di ristabilire saldamente la Cina nel ruolo della grande potenza che era un tempo. E il partito è l’unico strumento per realizzare tutto ciò. Xi fa parte di una élite che crede fermamente a questa visione e che, per trasformarla in realtà, accetta la strategia di usare il suo stile di leadership.
Al pari di lui, anche gli altri membri di quel gruppo sono coscienti che il problema più grave in questo momento – uno che i loro predecessori non hanno dovuto fronteggiare – è il rallentamento della crescita economica. D’ora in avanti, sarà più difficile continuare ad aumentare la prosperità della Cina. Durante l’amministrazione Hu, aumenti del PIL a doppia cifra sono stati registrati in ogni singolo anno, a partire dal 2002. Con Xi al potere, il tasso è sceso al di sotto del sette per cento, e diminuirà ancora. Wen aveva visto giusto, nel 2008. la Cina stava facendo qualcosa di insostenibile. Adesso si sta risvegliando, dopo gli anni degli eccessi, e i suoi politici sono impegnati a costruire una nuova e più complessa narrazione della realtà.
Per loro, il principale bacino elettorale è costituito dalla classe media, la borghesia cinese che vive nelle aree urbane e lavora nel terziario, che produce crescita con i suoi consumi e possiede proprietà, tutti individui che hanno un interesse personale alla stabilità del sistema, anche se non credono o tantomeno pensano al marxismo-leninismo o al modello cinese di socialismo.
Questa categoria di persone è leale al partito solo se, per suo tramite, intravedono un futuro migliore. La loro lealtà, quando il tasso di crescita raggiunge il dieci per cento, è molto più sentita di quando cala al sei o al sette. Quanto a Xi e ai suoi colleghi, sono perseguitati dal timore di cosa accadrà quando quel valore scenderà ancora più in basso.
Mao imperava su una popolazione cinese afflitta da povertà, paura e oppressione. Xi deve governare per mezzo di speranze e aspettative, e su un popolo che non ha alcuna remora a chiedere sempre di più. E questo è in definitiva il motivo per cui Xi non è Mao Zedong, né lo sarà mai.
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(C) 2016, Chatham House; The World Today, April/May 2016. The World Today is published by Chatham House in London: www.theworldtoday.org. Distributed by Tribune Content Agency, LLC
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