La presenza massiccia dell’economia cinese in Africa

Nemmeno il Covid-19 è riuscito a fermare l’avanzata cinese in Africa. Nonostante i lockdown, le difficoltà logistiche e l’aumento dei costi di spedizione, il 2020 si è rivelato un anno fruttuoso per le relazioni commerciali tra la Cina e il continente, e le prospettive sono ancora migliori. Secondo i dati rilasciati a luglio dalle autorità doganali cinesi, dopo il lieve calo del 2020, nei passati sei mesi l’interscambio con la regione si è attestato a 187 miliardi di dollari, rispetto ai 118,93 totalizzati complessivamente nell’anno precedente. Le esportazioni cinesi verso l’Africa hanno raggiunto un valore di 68,7 miliardi, ovvero il 27% in più su base annua, mentre l’import è cresciuto del 36%, raggiungendo i 50,23 miliardi.

 

Un risultato che conferma la granitica posizione cinese in Africa. Soprattutto se si considera che la flessione maggiore (-31%) registrata nel 2020 dalle importazioni di materie prime, come rame, cobalto e petrolio, è parzialmente imputabile al crollo dei prezzi che ha interessato il settore estrattivo a livello globale. Certamente hanno giovato i dissapori con Canberra: la richiesta australiana in sede ONU di un’indagine internazionale sull’origine del coronavirus ha spinto Pechino, come ritorsione, a rimpiazzare con surrogati africani alcuni prodotti australiani, come vino e carbone. Ma non solo. L’eccezionalità delle circostanze attuali mette in luce la resilienza della strategia cinese.

Scavalcati gli Stati Uniti già nel 2009, la Cina si è mantenuta da allora il primo partner commerciale del continente. L’interesse di Pechino per l’Africa ha coinciso con l’emergere di esigenze interne: alla necessità di sostenere la crescita nazionale attingendo a nuove risorse energetiche, si è progressivamente aggiunto l’aumento del costo del lavoro in patria, spingendo le aziende cinesi verso mercati più economici per la produzione manifatturiera. La regione, con i suoi giacimenti minerari, le riserve di idrocarburi, e una popolazione giovane e in continua espansione è presto entrata nei radar dei dirigenti cinesi.

L’interscambio con l’Africa (esclusa la fascia mediterranea) nel 2020 rappresentava il 3,18% di quanto commerciato dalla Cina a livello globale: può sembrare un numero piccolo, ma è più che raddoppiato rispetto all’1,48% del 2001. In confronto, le transazioni dell’Unione Europea con il continente sono scese dall’1,3% del totale UE di venti anni fa all’1,2% dello scorso anno. Quando si prendono in esame gli Stati uniti, l’involuzione nello stesso arco temporale è anche maggiore: dall’1,5% del 2001 allo 0,85% del 2020.

 

Con il Covid decolla l’e-commerce

Il segreto del successo cinese sta nella capacità di adattamento all’evolvere delle circostanze. Nel primo anno della pandemia, una diversificazione dei prodotti e dei canali di vendita ha permesso di tenere a regime l’interscambio sino-africano. Guangzhou Port Group, la compagnia che gestisce il porto di Guangzhou, nella provincia culla del manifatturiero cinese, lo scorso anno ha aperto due nuove rotte verso l’Africa attraverso l’Oceano Indiano, portando il totale a oltre venti. Il Guangzhou Baiyun International Airport, che opera regolarmente sull’Africa con tratte verso Egitto, Etiopia, Kenya e Ruanda, nel 2020 ha effettuato circa 580 voli cargo, movimentando 100.000 tonnellate di merci per un valore complessivo di 20 miliardi di dollari, un 10% in più su base annua: dispositivi elettronici hanno preso il largo verso l’Africa, mentre in senso opposto hanno viaggiato prodotti ittici e agricoli. Questi ultimi sono ormai tra le merci più richieste ora che la crescita cinese – stimata “solo” intorno al 6% – richiede un minor consumo energetico e fonti più pulite, rispetto al petrolio e al carbone africano, che dunque sono acquistati da Pechino in misura minore. Durante gli ultimi tre anni, le esportazioni agricole dall’Africa verso la Cina sono aumentate mediamente del 14% l’anno.

Alla diversificazione dei prodotti ha coinciso la sperimentazione di nuove forme di scambio e credito. Come nel resto del mondo, il blocco dei trasporti a causa della pandemia ha accelerato la crescita esponenziale dell’e-commerce. Settore che in Cina sta vivendo un nuovo boom grazie al livestreaming e alle app di micro-video.

 

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Stando a quanto affermato ai microfoni della Xinhua da Apoorva Kumar, vicepresidente di Jumia, la piattaforma B2C (business to consumer) più importante del continente e nata in Nigeria, lo scorso anno le aziende cinesi hanno organizzato corsi di formazione sulla digital economy per aiutare i partner africani a migliorare la strategia di vendita. Secondo Cainiao, il braccio logistico di Alibaba, nel 2024 il mercato dell’e-commerce africano arriverà a valere 34,6 miliardi di dollari. Una crescita facilitata anche dalla diffusione di internet nella regione grazie ai massicci investimenti dei colossi tecnologici cinesi Huawei e ZTE nelle infrastrutture digitali locali. La saturazione dei mercati europeo e statunitense rende l’Africa una meta ambita. Anche e soprattutto considerata la costante espansione della popolazione autoctona. Non per nulla la Nigeria, il paese più giovane del mondo, la cui popolazione è cresciuta di cinquanta milioni di abitanti solo negli ultimi dieci anni, è anche il primo acquirente africano del “made in China“, dall’elettronica all’abbigliamento.

L’apporto umano non riveste un ruolo cruciale solo nella fase di acquisto. Con le rigide misure cinesi sugli ingressi internazionali ancora in vigore, ad esempio l’interscambio Cina-Nigeria è rimasto sostenuto grazie alla comunità africana di Guangzhou, il capoluogo della provincia del Guangdong che, come buona parte del delta del fiume delle Perle, negli ultimi vent’anni è stato interessato da una notevole immigrazione dal Sud del mondo, in particolare da Medio Oriente e Nord Africa. Nel luglio dello scorso anno il 70% degli oltre 10.000 residenti africani, perlopiù commercianti, una realtà apparentemente piccola ma senza paragoni in Cina, avevano lasciato la città per sfuggire al virus e alle misure discriminatorie adottate dal governo cinese contro gli immigrati dopo che alcuni cittadini nigeriani erano risultati positivi al Covid. Ma chi è rimasto ha svolto un ruolo di mediazione fondamentale tra le fabbriche cinesi e i clienti africani, ricorrendo a piattaforme digitali come Facebook Shops e sfruttando i propri contatti personali, tanto in Cina quanto in patria.

Una strada della Little Africa di Guangzhou

 

Accordi commerciali e zone di libero scambio

Ci sono tutti i presupposti per un futuro “win-win”, come direbbero gli alti funzionari di Pechino. Il 1° gennaio 2021 è entrato in vigore l’African Continental Free Trade Agreement (AfCFTA), l’accordo commerciale più grande al mondo per numero di paesi coinvolti (ben 54), che punta a incrementare la spesa interna – tra consumatori e imprese – a quota 6,7mila miliardi di dollari entro il 2030. La Cina sarà tra gli outsider a trarne maggiori benefici. Non solo, secondo Waleed Gab-Allah, economista dell’Università del Cairo, le esportazioni cinesi verso i paesi AfCFTA aumenteranno del 50% quando l’accordo entrerà in vigore.

Il trattato incoraggia l’arrivo di nuovi investimenti attraverso il progetto Belt and Road (BRI), la strategia di politica estera con cui Pechino sostiene la penetrazione internazionale delle aziende statali cinesi attraverso la costruzione di grandi vie di comunicazione marittime e terrestri. Tratteggiando il futuro delle relazioni tra Cina e Africa, mesi fa il viceministro del Commercio cinese, Wei Jianguo, auspicava sulle colonne del Global Times una maggiore integrazione tra la BRI e l’AfCFTA per facilitare la circolazione di merci e servizi, migliorando la connettività interna. Una vera priorità considerato che, a causa del deficit infrastrutturale, alcuni paesi africani al momento commerciano più con l’Unione Europea che tra loro. Se, come da programma, l’accordo promuoverà la transizione della forza lavoro africana dall’agricoltura – che oggi impiega il 50% della popolazione locale – verso il comparto industriale, nei prossimi anni il continente potrebbe rimpiazzare il Sudest asiatico come fonte di manodopera a basso costo per la Cina.

 

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L’avvio del AfCFTA ha inoltre coinciso con la firma dell’accordo di libero scambio tra la Cina e la Repubblica di Mauritius, il primo in assoluto tra Pechino e uno stato africano. Seguendo l’approccio dello “small state first– già sperimentato tra le economie più avanzate con la Nuova Zelanda – Pechino ambisce a utilizzare l’arcipelago dell’Oceano Indiano per consolidare le transazioni con il resto della regione. Soprattutto considerando che al momento tredici stati africani (Algeria, Tunisia, Egitto, Sudan, Etiopia, Uganda, Nigeria, Zambia, Zimbabwe, Botswana, Sud Africa, Seychelles e Mauritius) hanno già siglato trattati bilaterali di investimento trasformabili agevolmente in accordi commerciali più sostanziosi.

Questa tattica che in Cina definiremmo “gradualista” (ovvero la tendenza a procedere attraverso la sperimentazione su base locale) la ritroviamo nell’istituzione di una zona di libero scambio internazionale nel porto di Gibuti. Un progetto da 3,5 miliardi di dollari, inaugurato nel 2018, che a gennaio è entrato in una fase espansiva. Il paese nel Corno d’Africa, che ospita la prima base militare cinese all’estero, viene considerato un importante snodo sullo stretto di Bab el-Mandeb – porta di comunicazione tra il Mar Rosso e l’Oceano Indiano, dove passano le rotte commerciali tra Europa e Asia – e una meta “sicura” grazie alla sua stabilità politica rispetto agli standard africani. Gestito dalla China Merchants Group, il progetto ambisce a trasformare il porto in una “Singapore africana”, con analoghe agevolazioni fiscali e simili implicazioni geostrategiche. Tra il 2012 e il 2020, la Cina ha investito 14 miliardi di dollari a Gibuti, una somma che Pechino spera di recuperare sfruttando la prossimità del porto a paesi più economicamente appetibili ma senza sbocco sul mare come l’Etiopia, che convoglia il 94% delle proprie importazioni attraverso lo snodo gibutiano.

Il porto container in acque profonde costruito a Shanghain dalla Compagnia di Ingegneria e Costruzioni dello Stato cinese (CSCEC), modello per il futuro ampliamento del porto di Gibuti.

 

Il futuro però non è completamente in discesa. Secondo un rapporto della World Bank, mentre la Cina mantiene il primato nei commerci con il continente, quando si prendono in esame le singole nazioni africane scopriamo che molte privilegiano altri partner asiatici. Un esempio è l’India, dal 2005 prima destinazione delle esportazioni a Oriente di Nigeria, Tanzania e Ghana. Lo stesso vale per il Pakistan con il Kenya. A complicare il quadro concorre il progressivo restyling del modello di sviluppo cinese.

Lo spostamento della Cina verso un’economia a “doppia circolazione” – più incentrata sui consumi interni anziché sull’export – potrebbe implicare un ulteriore allontanamento dalle importazioni di materie prime, vero zoccolo duro delle relazioni sino-africane nelle trascorse due decadi. Per Eric Olander, fondatore di China Africa Project, gli ultimi sviluppi dimostrano come la strategia cinese nel continente sia sempre più influenzata dall’agenda politica di Pechino. Finora è andata bene. Ma non è detto che le priorità della leadership comunista coincideranno con gli interessi delle capitali africane anche tra dieci, venti o trent’anni.

 

 

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