La paura dei numeri

Dal numero 95 di Aspenia

Come tutti ricorderanno, il 14 novembre 2020 decine di migliaia di sostenitori di Donald Trump si sono riuniti a Washington, gridando alla frode elettorale e chiedendo a Trump di non riconoscere la vittoria di Joe Biden. “Quest’elezione ci è stata rubata”, ha detto l’attivista conservatrice del Nevada Courtney Holland arringando la folla. “Se rubano il voto del 2020”, hanno tuonato gli altoparlanti, “non ci sarà un voto nel 2024!”

Le proteste di massa contro i brogli elettorali non sono eccezioni nella storia della democrazia. Come ironicamente suggerito dal commediografo britannico Tom Stoppard, “a fare la democrazia non è il voto, ma la conta dei voti”. La storia delle democrazie, inclusa quella americana, è per molti aspetti una storia di elezioni truccate[1].

 

2020: “L’ULTIMA ELEZIONE”? Quel che ha stupito dei cortei pro-Trump successivi al voto, dunque, non è l’accusa di brogli ma l’idea che negli Stati Uniti non potranno più svolgersi elezioni regolari. A fare infuriare i sostenitori di Trump non è stata la conta dei voti, ma chi li ha espressi. Ai loro occhi, le elezioni sono state falsate non da brogli nei seggi, ma dai confini aperti e dall’eccessiva facilità nella naturalizzazione degli stranieri: politiche introdotte dai democratici per cercare di consolidare il loro vantaggio modificando l’elettorato in un senso demografico favorevole. I trumpisti, in sostanza, hanno accusato i loro avversari di aver “rubato il paese” per mezzo delle elezioni, tentando di rimpiazzare gli americani con un popolo nuovo.

“Credo che questa sarà l’ultima elezione in cui i repubblicani avranno una possibilità di vincere”, ammoniva Trump in un comizio elettorale del 2016, “perché ci sarà un fiume di gente che entrerà dal confine con il Messico, ci saranno immigrati irregolari che verranno legalizzati e quindi potranno votare. Dopo, scordatevi una vittoria repubblicana.”[2]

Più di ogni altro politico, Donald Trump ha dato voce alle paure del gruppo numericamente dominante negli Stati Uniti di essere surclassato e politicamente emarginato dal cambiamento demografico e generazionale. Il rifiuto di riconoscere la vittoria di Biden e l’idea dei suoi sostenitori che questa fosse “l’ultima elezione” fotografa il momento in cui le paure demografiche hanno posto una larga fetta di elettorato repubblicano contro la democrazia.

 

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In democrazia chi esce sconfitto dalle urne lo ammette per due ragioni principali. Primo, perché perdere un’elezione in un regime democratico implica non perdere troppo, non dovere temere di essere arrestati o privati dei propri beni. Secondo, perché si possono nutrire fondate speranze di vincere la volta successiva. La convinzione che gli sconfitti di oggi abbiano buone probabilità di essere i vincitori di domani è precondizione della longevità di una democrazia. In un sistema politico democratico, gli sconfitti – piuttosto che scendere in strada o barricarsi nei propri uffici – incanalano la loro delusione nello sforzo di vincere le elezioni successive. I perdenti in una democrazia puntano su ciò che von Clausewitz chiamava “l’istinto di rappresaglia e vendetta” delle truppe che hanno subìto una sconfitta. “È un istinto universale”, scriveva il generale, “condiviso dal comandante supremo e dall’ultimo dei fanti; il morale delle truppe non è mai così alto che nel momento in cui si tratta di restituire questo tipo di offesa. […] Vi è dunque una naturale propensione a sfruttare questo fattore psicologico per riprendere quanto si è perso.”

 

I FANTASMI DELLA DEMOGRAFIA. Ma che succede se i sostenitori di un partito sconfitto credono di essere spacciati e di non potere vincere mai più? E cosa accade se il loro pessimismo è alimentato dall’ansia di essere sempre di meno, mentre gli avversari aumentano grazie all’immigrazione e all’avvento di una generazione percepita come non meno estranea dei migranti stessi? In guerra l’eroismo delle truppe può dimostrarsi più importante del numero di soldati, ma in democrazia sono i numeri a decidere. Da qui il dilemma: i partiti minacciati dal declino numerico del loro elettorato resteranno fedeli alla democrazia e alle sue regole?

I fantasmi della demografia sono centrali per capire la trasformazione del partito repubblicano e l’attuale crisi della democrazia americana. La demografia non è destino, ma “i mutamenti demografici plasmano il potere politico come l’acqua modella le rocce”. La democrazia è un gioco di numeri; quando i numeri cambiano, il potere passa di mano. Il discorso democratico insiste sul fatto che il potere passa da un soggetto a un altro perché gli elettori cambiano idea, ma in realtà la causa può essere anche un cambiamento dell’elettorato. Magari una generazione con forti preferenze collettive diventa maggiorenne, come accaduto negli anni Sessanta e Settanta. Oppure un gruppo consistente di persone va a integrare il corpo elettorale e ne cambia il volto, come avvenuto in molti paesi quando fu introdotto il suffragio universale o come sperimentato da Israele alla fine della guerra fredda, quando molti ebrei provenienti dall’ex Unione Sovietica immigrarono e presero la cittadinanza. In Europa centrorientale questo fenomeno ha preso un’altra forma: milioni di persone sono emigrate, soprattutto verso ovest, facendo crollare le basi elettorali delle forze liberali.

Ogni discorso sul futuro delle democrazie deve rispondere a una semplice domanda: in che condizioni una parte consistente dell’elettorato finisce per convincersi che per essa la democrazia non può più funzionare? E cosa sono disposte a fare le maggioranze minacciate per mantenere il potere preservando al tempo stesso il sistema democratico?

 

LE PAURE DEI REPUBBLICANI E LA SPINTA AL NATIVISMO. È impossibile comprendere le trasformazioni della democrazia americana nell’ultimo decennio se si ignora il ruolo centrale che rivestono le preoccupazioni demografiche nelle scelte del partito repubblicano. Queste paure sono alimentate non solo da cambiamenti reali nella composizione dell’elettorato statunitense o dalle proiezioni dei demografi, ma anche dal modo in cui le dinamiche etnico-demografiche vengono presentate nel dibattito pubblico. A volte lo sono in modo errato. Come riporta Suketu Mehta, “in media gli americani pensano che gli stranieri rappresentino il 37% della popolazione, quando in realtà sono appena il 13,7%”.

Le ricerche delle psicologhe sociali Jennifer Richeson (Yale) e Maureen Craig (New York University) hanno mostrato l’influenza politica delle percezioni demografiche, evidenziando che nelle società democratiche la consistenza numerica di un gruppo concorre a determinarne la preminenza e che il suo ridimensionamento può invece alimentare un senso di minaccia e impotenza. In questi lavori, pubblicati per la prima volta nel 2014[3], ad americani bianchi scelti casualmente veniva fatto leggere uno studio del Census Bureau secondo cui nel 2044 i bianchi non sarebbero più stati maggioranza nel paese. Come risultato, questo gruppo era più incline a percepire negativamente le minoranze etniche rispetto a un gruppo alternativo, tenuto all’oscuro dello studio. Chi aveva letto lo studio del Census Bureau era anche più incline a sostenere politiche di restrizione all’immigrazione e ad affermare che forse in futuro i bianchi avrebbero perso il loro status e subìto discriminazioni[4].

In tale contesto, ciò che fa paura dell’immigrazione non è la diversità culturale o la competizione per i posti di lavoro, ma la perdita di potere. Restare maggioranza, dal punto di vista demografico. è il vero tratto identitario dei bianchi che votano Trump.

 

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IL RISCHIO DEL DETERMINISMO DEMOGRAFICO. Nella loro storia gli Stati Uniti hanno assistito quattro volte all’emergere di forti movimenti nativisti che si battevano per porre restrizioni all’immigrazione. In tutti e quattro i casi, a determinarne l’ascesa sono stati volumi molto alti di arrivi e cambiamenti radicali nell’origine degli immigrati. Da tempo gli storici hanno appurato che gli ex immigrati sono disposti ad accogliere solo i nuovi arrivati della loro stessa stirpe. Si è avuta soltanto una grossa ondata d’immigrazione che non ha provocato simili reazioni nativiste: l’afflusso forzato di afroamericani. Gli afroamericani sono stati “accolti” negli Stati Uniti non per le somiglianze culturali con la componente allora predominante della società americana, ma perché – privi di qualsiasi diritto politico e sociale – non erano percepiti come una minaccia al potere politico della maggioranza.

È il determinismo demografico di Trump e dei suoi sostenitori a spiegare il nuovo tono apocalittico della politica repubblicana. Fino a pochi anni fa, i repubblicani erano pronti ad abbracciare il cambiamento demografico dell’America come promessa di una nuova maggioranza favorevole: nel suo Future Right: Forging a new Republican majority del 2016, lo stratega repubblicano Donald T. Critchlow sostiene che “l’idea che la demografia favorisca i democratici come partito del futuro è sbagliata”. Secondo Critchlow la base democratica, un’instabile coalizione di donne, minoranze e giovani, è permeabile ai repubblicani. La configurazione etnica del paese avrebbe consentito al Partito repubblicano di conquistare il voto di ispanici e asiatici. Questi ultimi in particolare, eccellendo nelle università, sono naturalmente ostili alle politiche che avvantaggiano le (altre) minoranze in ambito accademico e altrove. Mentre il fatto che il grosso degli ispanici si consideri bianco e viva in quartieri etnicamente misti li rende sensibili al discorso repubblicano.

Il determinismo demografico espresso da Trump e dalla sua base mina la democrazia quando teorizza che si possa conoscere o almeno prevedere il comportamento elettorale delle persone conoscendone l’identità etnica. In tempi di politica identitaria, le elezioni finiscono per somigliare sempre più a dei censimenti.

Supporter trumpiani prima di un comizio del presidente (2018)

 

QUANDO IL GOVERNO ELEGGE IL PROPRIO POPOLO. “La democrazia”, scrive lo scienziato politico Adam Przeworski, “è incertezza istituzionalizzata”. La gente vota e lo fa segretamente, dunque non sappiamo chi vincerà le elezioni. Ma che succede quando la gente si sente incerta anche su chi avrà diritto di voto alle prossime elezioni o tra dieci anni?

In una democrazia la gente elegge il proprio governo, ma anche il governo ha l’opportunità di scegliersi la sua gente. Lo fa con le norme sulla cittadinanza, con le leggi elettorali, con il disegno delle relative circoscrizioni, con i requisiti di registrazione al voto. I governi “eleggono” il proprio popolo con le politiche sull’immigrazione, legiferando sull’età del voto, consentendo a nuove coorti di entrare nel corpo elettorale. Possono farlo cambiando i confini dello Stato, o concedendo la cittadinanza a persone fino a quel momento prive di diritti politici. In questi frangenti, spesso gli elettori scelgono il loro governo nella convinzione di eleggere solo “le persone giuste”. È allora che le politiche dell’immigrazione e della cittadinanza diventano centrali nell’agone elettorale.

Alla fine, il modo in cui i governi scelgono la propria gente potrebbe rivelarsi più importante per il futuro della democrazia di quale governo viene scelto dagli elettori.

 

 


*Questo articolo è stato pubblicato sul numero 95 di Aspenia

 

 


*Footnotes: 

[1] Tracy Campbell, Deliver the vote: A history of election fraud, an American political tradition. 1742-2004, Carroll & Graf Publishers, 2005.

[2] Harper Neidig, “Trump says 2016 is the GOP’s last chance to win”, The Hill, 9 agosto 2016.

[3] Maureen A. Craig, Jennifer A. Richeson, “More diverse yet less tolerant? how the increasingly diverse racial landscape affects white Americans’ racial attitudes”, Personality and Social Psychology Bulletin 1-12, 2014.

[4] Sabrina Tavernise, “Why the announcement of a looming white minority makes demographers nervous”, New York Times, 22 novembre 2018.

 

 

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