Il Mali è sprofondato di nuovo nel caos. Il secondo colpo di stato in meno di un anno (il quinto dal 1960) è scoppiato il 24 maggio – senza spargimento di sangue – per mano degli stessi militari del golpe del 18 agosto 2020, e getta ombra sulla stabilità e la credibilità internazionale di un paese al centro della guerra al neo-jihadismo saheliano. La Francia, cogliendo l’occasione per defilarsi da un ginepraio in cui è bloccata dal 2013, annuncia il ritiro graduale dei propri soldati impegnati nella regione (5100). I paesi del Sahel, di contro, cercano nuovi partner per tagliare il cordone che ancora li stringe all’ex madrepatria coloniale – vale per lo stesso Mali, come anche per le principali ex colonie francesi in Africa occidentale. Intanto, Russia e Turchia – come Cina, Arabia Saudita ed Emirati – approfittano del vuoto lasciato dal distacco francese, flirtando con la Giunta maliana guidata dal giovane Colonnello Assimi Göita. Una matassa d’interessi strategici, dispiegamenti militari e alleanze geopolitiche ancor più complicata da nuovi giochi di potere che intrecciano il presente e il prossimo futuro dell’intero Sahel.
Quello andato in scena a Bamako il 24 maggio scorso è stato definito, per tempistiche e modalità, dal presidente francese Emmanuel Macron “un golpe nel golpe”. Il rimpasto tentato dal Consiglio Nazionale di Transizione (CNT) per riequilibrare i poteri militari e civili all’interno del governo transitorio ha causato la veemente reazione della Guardia Nazionale, fedele a Göita. Il Presidente ad interim Bah N’Daw e il primo ministro Moctar Ouane sono stati arrestati e rinchiusi nella base di Kati (città-guarnigione a una quindicina di chilometri da Koulouba, sede del potere politico di Bamako), poi costretti alle dimissioni e liberati. Ad assumere pieni poteri è il nuovo uomo forte del Mali, il 37enne Assimi Göita, ex-capo delle forze speciali anti-terrorismo, uscito allo scoperto dopo i primi mesi di transizione trascorsi dietro le quinte.
Nonostante il 24 maggio non sia stato sparato nemmeno un colpo, le condanne internazionali non si sono fatte attendere. Dapprima l’Unione Africana (UA) e la Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (Cedeao/Ecowas), poi Nazioni Unite, Francia, Stati Uniti e Unione Europea. Le istituzioni africane, dopo aver sospeso temporaneamente il Mali, hanno chiesto che si tengano comunque le elezioni (previste per il 27 febbraio 2022) e la nomina di un primo ministro civile, seguendo i malumori espressi dall’Unione Europea – primo partner finanziario di Bamako che, già l’11 maggio scorso, ha sospeso in maniera cautelativa il sostegno diretto al bilancio dello stato, congelando 38,5 milioni di euro di aiuti.
Se da parte africana, diversamente dal precedente golpe del 18 agosto 2020, non sono scattate le paventate sanzioni economiche (e non si è mai usato il termine “colpo di stato”, sostituito nei comunicati ufficiali dell’UA, come ad agosto scorso, dal più generico “atto illegale”), Francia e USA hanno espresso dure critiche nei confronti di una “deriva autoritaria preoccupante”. Spingendosi ben oltre lo sdegno di rito, il presidente francese Emmanuel Macron, in occasione del G7 nel Regno Unito il 10 giugno, ha annunciato la “fine dell’Operazione regionale Barkhane” e la “trasformazione profonda” dell’intervento nel Sahel. L’auto-incoronazione a giugno di Göita, riconosciuto de facto dalla comunità politica regionale e continentale, ha accelerato un processo che era in atto ben prima dell’ennesimo scossone nella politica interna del Mali.
La missione francese – che costa circa un miliardo di euro l’anno, ha visto cadere 55 soldati dal 2013 e conta su 3 basi permanenti (a N’Djamena, capitale del Ciad, dove risiede il quartier generale, Niamey e Gao, nel nord del Mali), 8 basi avanzate dalla Mauritania al Ciad, 7 caccia aerei, 20 elicotteri e 3 droni armati – era già stata temporaneamente sospesa il 3 giugno scorso.
A Parigi, però, negano che esista un nesso diretto con il golpe di fine maggio. Durante il summit di N’Djamena del febbraio scorso, in effetti, Macron aveva espresso pubblicamente la volontà di studiare un piano di ritiro graduale dal teatro saheliano, soprattutto alla luce del crescente sentimento anti-francese nella regione e degli insufficienti risultati militari raggiunti contro i jihadisti. Le sigle legate ad Al-Qaida nel Maghreb Islamico (AQMI, con la branca saheliana del Gruppo a Sostegno dell’Islam e dei Musulmani, GSIM) e allo Stato Islamico nel Grande Sahara (ISGS), nonostante abbiano subito l’eliminazione di diversi quadri, hanno espanso il proprio raggio d’azione dapprima dal nord al centro-sud del Mali per poi sconfinare, dal 2015, nei vicini Burkina Faso e Niger e, più recentemente, minacciare l’est del Senegal e il nord di Costa D’Avorio, Ghana, Togo e Benin. La notte fra il 4 e il 5 giugno l’attacco terrorista della località di Solhan, nel nord-est del Burkina Faso, vicino alla frontiera col Niger, ha causato oltre 160 morti civili. E’ il peggiore massacro dall’inizio dell’espansionismo jihadista nella regione.
L’indomani dell’annuncio francese del ritiro di Barkhane (il cui calendario sarà comunicato da Parigi dopo le consultazioni con USA, alleati europei e partner africani del G5-Sahel), il Colonnello Göita ha formato un nuovo governo ad interim, in cui nei posti-chiave siedono militari della Giunta. Il Colonnello Sadio Camara, uno dei principali autori del colpo di stato dell’agosto 2020, ritrova il Ministero della Difesa, il compagno Modibo Koné quello della Sicurezza e Ismael Wagué, altro golpista, ottiene il dicastero della Riconciliazione Nazionale. Il colpo di mano dei colonnelli è stato preceduto dalle proteste della società civile maliana e dei sindacati contro la nomina di alcuni ufficiali militari alla testa dei centri del potere politico ed economico di Bamako, come la presidenza dell’Ospedale Gabriel Touré, principale clinica pubblica della capitale. Una sollevazione sindacale organizzata dall’Union National de Travailleurs du Mali (UNTM) ha portato, due settimane prima del golpe, a uno sciopero generale contro il Consiglio Nazionale di Transizione, fortemente criticato anche per il mancato pagamento degli stipendi arretrati agli amministratori pubblici.
Per concludere l’opera, Göita nomina Primo Ministro Choguel Kokalla Maïga, presidente del comitato strategico del Mouvement du 5 juin-Rassemblement des forces patriotiques (M5-RFP), il movimento cittadino che, l’anno scorso, ha contribuito alla cacciata dell’ex presidente Ibrahim Boubacar Keita.
Da allora tale compagine, guidata da alcuni influenti leader religiosi (centrale la figura di Mahmoud Dicko, controverso imam wahabita ultimamente defilatosi dalla scena pubblica), accompagna la Giunta in un continuo balletto di poltrone e sfere d’influenza. Con questa nomina il Colonnello Göita riesce, da una parte, a dare un contentino di facciata alle richieste avanzate dalla comunità internazionale e, dall’altra, a ottenere la legittimazione popolare che ancora gli mancava. Diverse manifestazioni di sostegno alla Giunta hanno sfilato per le strade di Bamako. Quella del 27 maggio, tre giorni dopo il colpo di stato, ha raggruppato un centinaio di persone davanti all’Ambasciata russa per invocare l’intervento di Mosca.
Anche la Turchia, attualmente impegnata su più fronti (come Libia e Mediterraneo orientale) contro la Francia, starebbe dialogando con la Giunta di Bamako. Mercenari e consiglieri militari russi e turchi sono stati avvistati nei pressi di Kati già durante il golpe di agosto 2020. A far gola a tali nuovi potenze regionali sono le prospettive economiche e le ricche possibilità di cooperazione militare coi paesi saheliani impegnati nella lotta al terrorismo.
In Mali, analogamente che in Repubblica Centrafricana (dove la Francia ha sospeso, a fine aprile, gli aiuti diretti al bilancio dello stato), si è così acceso uno scontro d’influenze fra Francia e Russia, fatto di sgambetti diplomatici, corsa agli appalti e guerra cibernetica a colpi di propaganda e fake news. Al netto di un sensibile aumento, negli ultimi anni, della frustrazione contro la presenza militare francese nel Sahel, parte dell’opinione pubblica maliana è convinta che Parigi abbia “due pesi e due misure” nei confronti dei golpe nelle sue ex-colonie: condannato quello in Mali e supportato, invece, il colpo di mano che ha portato alla successione arbitraria ad aprile in Ciad del figlio del dittatore Idriss Déby, principale alleato regionale della Francia.
Parigi sa bene che una partenza affrettata trasformerebbe il Mali nel suo Afghanistan. Perciò Emmanuel Macron, durante il G7 in Regno Unito, ha invocato la nascita di una “alleanza internazionale anti-terrorismo nel Sahel”. Strategicamente la Francia mira a coprire il proprio ritiro con un maggiore coinvolgimento dei paesi saheliani nella Force G5-Sahel (che riunisce Mauritania, Mali, Burkina Faso, Niger e Ciad) e dei partner europei nella “task force Takuba” (a cui da febbraio partecipa attivamente anche l’Italia, per un totale, ancora non raggiunto, di 200 soldati delle forze speciali, 20 mezzi terrestri e 8 elicotteri).
Secondo fonti bene informate, sul terreno è previsto un dimezzamento degli effettivi francesi, che saranno portati a 2500 entro l’inizio del 2023, oltre alla chiusura delle basi di Timbuctu e Kidal, per concentrarsi su Gao, città del nord Mali in cui risiede la principale base francese nel paese, e sul Liptako-Gourma, la “zona delle 3 frontiere” a cavallo fra Mali, Burkina Faso e Niger. L’Operation Sabre, portata avanti da forze speciali e servizi d’intelligence militare francese dal lontano 2009, continuerà ad operare soprattutto attraverso azioni mirate, riducendo invece i confronti coi jihadisti in spazi aperti.
Siamo di fronte a quella che, almeno per ora, appare una confusa riconfigurazione degli assetti militari regionali: un processo che, insieme al riproporsi della crisi maliana, acuisce la faglia di rottura della politica estera francese, sempre più in difficoltà nel suo pré carré in Africa occidentale.