La mobilitazione anti-Trump negli USA: un ritorno della società all’impegno politico?

Chi pensava che le contraddizioni tra le molte anime culturali e politiche degli USA fossero ormai una questione archiviata, materia buona per gli storici, si dovrà ricredere. Come questo primo scorcio di presidenza Trump ci lascia intravvedere, le tensioni che sono insite nella stessa nascita degli Stati Uniti, e che più volte nella loro storia hanno rischiato di mandare in frantumi la coesione nazionale, sono più vive che mai.

Solitamente, nel susseguirsi delle amministrazioni alla Casa Bianca, se da una parte c’è un consolidato attivismo iniziale per tracciare un evidente segno di discontinuità rispetto al passato, specialmente nel caso dell’arrivo di un presidente di colore politico diverso, dall’altra soprattutto sui grandi temi e interessi nazionali c’è una sorta di continuità di sistema. La prassi vuole che si cerchi di vagliare e modificare i provvedimenti dell’amministrazione precedente in maniera pragmatica, ma più di ogni altra cosa che si proceda senza discostarsi da quelli che sono considerati i “valori condivisi”.

La fretta di Donald Trump, oltre a non rispettare quest’ultima regola non scritta, è pure ispessita dall’irruenza del personaggio e dalla forte impronta ideologica del cerchio più stretto dei suoi collaboratori. Ciò ha prodotto, in una maniera che sembra bulimica, non solo provvedimenti del tutto opposti rispetto al precedente gabinetto, ma anche dai toni e dai contenuti estremi senza compromessi. D’altronde, questo stile rispecchia la campagna elettorale del nuovo presidente, sia dal punto di vista dello spirito che da quello dell’emotività.

L’esempio più clamoroso è dato dall’indirizzo di politica economica, una vera inversione di 180° rispetto agli anni recenti: il ritiro dall’accordo commerciale firmato da Barack Obama con i paesi del Pacifico (TPP) e l’annuncio di revisione di quello con Canada e Messico, il NAFTA dei tempi di George Bush e Bill Clinton. Passi, questi, accompagnati da una retorica critica e minacciosa verso le aziende americane (dai produttori di auto ai colossi della tecnologia) che producono all’estero.

L’inaspettata elezione di Trump ha prodotto però anche un’altra novità, in parallelo. Parti della società americana si sono lanciate in una mobilitazione con pochi precedenti, partecipando con convinzione e affollando le variegate proteste già organizzate in gran numero contro il Presidente. Non solo la Women’s March (con 3 milioni di persone in piazza in tutto il paese) ma anche quella spontanea negli aeroporti dopo la stretta sui visti e i rifugiati, o quella convocata da alcuni scienziati in materia ambientale. La novità è ancor più eclatante se si pensa all’atteggiamento di freddezza espresso dagli americani per i candidati durante la campagna elettorale: sia Hillary Clinton sia Donald Trump giunsero all’“election day” con un record negativo nei livelli di gradimento.

In questa condizione, le mosse a tutto campo di Trump possono trasformarsi in un boomerang, con reazioni da diversi settori del paese. Bernie Sanders, sfidando il freddo, ha riunito migliaia di persone al Macomb Community College in Michigan il 15 gennaio, in difesa di Obamacare. Le iscrizioni alla League of Women Voters, per la promozione del ruolo delle donne in politica, sono esplose nelle ultime settimane. Il 22 gennaio Planned Parenthood, associazione che fornisce assistenza sanitaria alle donne, ha organizzato un seminario di formazione politica per duemila volontari, sul passaggio dalla protesta alla proposta e sulla capacità di influenzare i processi decisionali. Molti avvocati continuano a offrirsi pro bono in favore di chi ha perso il diritto di entrare negli Stati Uniti con i provvedimenti sull’immigrazione. E infine dal mondo della scienza – scatenando anche un dibattito sulla neutralità o meno delle professioni scientifiche – è stata convocata un’altra grande manifestazione contro gli “executive order” in materia ambientale, accompagnati dalle dichiarazioni di Trump secondo cui in America “regna un ambientalismo fuori controllo”.

Il clima fuori dal palazzo ha rianimato i Democratici, che sembravano tramortiti dal risultato elettorale e dal passaggio di tutte le istituzioni sotto il controllo dei Repubblicani, e lo scontro si è trasferito nelle istituzioni. Per cominciare, 48 parlamentari Dem hanno disertato l’Inaguration Day (teoricamente, l’evento bipartisan per eccellenza), e 16 procuratori generali in 16 Stati Democratici e Repubblicani hanno poi emesso una dichiarazione congiunta di incostituzionalità sull’ordine esecutivo presidenziale in materia di immigrazione (in quanto violerebbe il principio di libertà religiosa). Alla rimozione del Segretario alla Giustizia pro-tempore Sally Yates, che aveva pubblicamente istruito il Dipartimento a disattendere l’ordine e quindi a non difendere il decreto sull’immigrazione in tribunale perché “illegale” oltre che “ingiusto”, è seguita poi la firma di una lettera contro lo stesso decreto da parte di più di un migliaio di funzionari del Dipartimento di Stato nelle ambasciate, e infine la sentenza del giudice federale James Robart della corte distrettuale di Seattle, che ne ha comportato la clamorosa sospensione, e la conseguente furia del Presidente.

Che il carattere di Trump non avrebbe portato a una riconciliazione nazionale dopo il voto era prevedibile, considerando anche la delegittimazione a prescindere che l’altra metà degli Stati Uniti gli ha riservato già dalla campagna elettorale. Questa è stata rafforzata dall’esito del voto popolare: il Presidente non può proclamare di agire sulla base del voto della maggioranza, perché benché i meccanismi della legge elettorale gli abbiano dato la vittoria, Hillary Clinton ha ottenuto quasi 3 milioni di voti in più. E in effetti, secondo la rilevazione Gallup, il mandato di Trump si apre con il più basso indice di gradimento iniziale, da quando questo è misurato: un 49% che sfigura sia con il primo mandato di Obama (68%), sia con il primo di George W. Bush (57%, sebbene anche Bush avesse preso in totale meno voti dello sfidante, Al Gore). Ma la reazione della società americana, sia nei numeri che nelle iniziative (qualcuno già la chiama new resistance), è comunque degna di nota – soprattutto forse agli occhi della disillusa Europa.

Ciò non assicura, ovviamente, che chi protesta riuscirà a influire sulla Casa Bianca. Non bisogna tralasciare gli orientamenti dell’opinione pubblica nel suo complesso (la rilevazione Reuters/Ipsos al 2 febbraio indica che il 48,4% degli americani è favorevole alle scelte di Trump sull’immigrazione, mentre il 42% è contrario), né i numeri del Congresso: questi, almeno per i primi due anni, garantiscono la supremazia ai Repubblicani.

Il primo banco di prova parlamentare sarà la ratifica della nomina di Neil Gorsuch, appena designato da Trump come nono membro della Corte Suprema. Gorsuch, giudice antiabortista e ultra-conservatore, piace a quella parte di elettori Repubblicani che, più che vissuto, ha “subito” i due mandati di Obama quasi come un sopruso o uno spodestamento illegittimo. La ratifica però avrà bisogno del voto di 60 senatori su 100, mentre i Repubblicani possono contare solo su 52 voti e i Democratici tenteranno la carta dell’ostruzionismo. Se Donald Trump, come sembra, volesse forzare le procedure istituzionali, si arriverebbe di nuovo allo scontro aperto con i Dem e soprattutto con la piazza.

Vari movimenti di contestazione americani, negli anni recenti, sono riusciti a ottenere l’attenzione dei media e dell’opinione pubblica di tutto il mondo: pensiamo ai Tea Parties, a Occupy Wall Street o a Black Lives Matter. Si tratta di esperienze su scala non ridotta che ci dicono come le attuali mobilitazioni non debbano essere considerate poi così sorprendenti; d’altra parte, i Tea Parties sono stati rapidamente riassorbiti dal Partito Repubblicano, mentre le altre due esperienze sono rimaste limitate a un’unica sfera di interesse (la finanza, la violenza discriminatoria della polizia) e dunque non sono riuscite a influenzare il dibattito e la politica abbastanza da diventare agenti di cambiamento.

Al contrario, il movimento attuale non sembra (quantomeno non ancora) avere contorni definiti, se non una dura reazione all’Amministrazione Trump: paradossalmente, all’iperattivismo del Presidente sta corrispondendo un iperattivismo sociale diffuso, accompagnato dall’idea di “fare politica”. Una vera novità rispetto al recente passato americano. Inoltre, ad esempio con la Women’s March, si è assistito al tentativo da parte degli organizzatori di rivolgersi anche di fuori dei loro gruppi di riferimento, partendo dall’assioma che New York o la California non sono più speciali di quanto lo siano il Kansas o il Missouri. E così è stato: il 21 gennaio si è manifestato in tutti gli Stati Uniti – non solo nei centri urbani delle coste ma anche in quelle zone del paese, solitamente più silenziose, che a novembre hanno votato Trump.

Per valutare correttamente quanto sta accadendo negli Stati Uniti – influenza sulla politica, sull’Amministrazione, o solamente nuove forme di aggregazione politica? – servirà ancora qualche tempo. Molti fattori entreranno in gioco: la contro-reazione di Donald Trump e dei Repubblicani, la capacità di chi protesta di non appassire in un “ghetto”, la volontà dei Democratici di offrire una sponda politico-istituzionale.

Non ultima, conterà la capacità dell’Amministrazione di produrre buoni risultati per gli americani. Se questo non accadrà, la promessa del Presidente “porteremo il potere da Washington al popolo” potrebbe trasformarsi in una profezia davvero beffarda.

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