Si potrebbe quasi dire che quello all’ultimo vertice NATO di Madrid (28-30 giugno) è stato un “one man show”. Il presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, ha letteralmente rubato la scena agli altri leader mondiali e lo ha fatto con il metodo che gli è più congeniale: battere i pugni sul tavolo, pronto a misure drastiche per ottenere quello che vuole.
Questa volta è toccato a Finlandia e Svezia che, per avere il via libera dalla Turchia per il loro ingresso nella NATO, sono state costrette a sottoscrivere un memorandum nel quale si impegnano a contrastare il terrorismo di matrice curda. I punti principali sono tre. I due Paesi hanno accettato di estradare decine di sospetti militanti del PKK, il Partito dei Lavoratori Curdi attivo in Turchia – dove il governo lo considera “terrorista”, definizione adottata anche da Stati Uniti e Unione Europea – e nel Kurdistan iracheno che Ankara chiede da tempo vengano consegnati alla giustizia turca. Il secondo aspetto riguarda l’ostacolare il finanziamento e il reclutamento di queste due organizzazioni sui loro territori nazionali. Non solo. Svezia e Finlandia si impegnano a introdurre restrizioni nella vendita di armi ai gruppi armati curdi. In realtà, fra gli elementi di cui è stata richiesta l’estradizione, ci sono anche almeno una decina di gulenisti, ossia appartenenti al network di Fethullah Gülen, ex imam, a capo di un movimento della destra islamica turca contrapposto a quello del presidente Erdogan e accusato di essere il mandante del cosiddetto golpe fallito del luglio 2016.
Il capo di Stato turco ha dato vita a una vera e propria prova di forza nell’Alleanza atlantica, anche considerando che Gülen risiede negli Stati Uniti e la causa dei curdi gode di non piccole simpatie nell’opinione pubblica europea. Secondo Sinan Ülgen, direttore del think-tank Edam, la scelta di pubblicizzare apertamente le richieste della Turchia e non lasciare le mediazioni dietro le quinte dei vertici internazionali, segue una logica ben precisa.
«La decisione di giocare la partita apertamente – ha spiegato Sinan Ülgen ad Aspenia online – è dettata da tre motivazioni. La prima è quella di fare concreta pressione su Finlandia e Svezia. La presenza di numerosi elementi del PKK in Svezia è un problema di lungo corso. In secondo luogo credo che la linea dura adottata con Stoccolma rappresenti un avvertimento per altre nazioni che fanno parte del Patto Atlantico e che ospitano sul loro territorio elementi del PKK. La Turchia ha voluto fare vedere quanto consideri prioritario il problema del terrorismo di matrice curda e quanto per Ankara la comunità internazionale abbia superato una ‘linea rossa’ in questo senso. C’è poi un chiaro intento di raccogliere un dividendo politico per il governo in un momento in cui il consenso è diminuito considerevolmente a causa della situazione economica».
Questo aspetto non va trascurato: Erdogan è in calo vertiginoso dei consensi a causa della grave crisi economica: ha così l’occasione per spostare l’attenzione dell’elettorato verso un tema, quello del terrorismo di matrice curda, in grado di compattare tutta l’opinione pubblica, esclusa ovviamente la minoranza in questione.
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«Il presidente Erdogan – spiega ad Aspenia online Berk Esen, Professore di Scienze Politiche alla Sabanci Universitesi di Istanbul – ha voluto dare l’impressione anche sullo scenario nazionale di essere un leader forte, e ci è riuscito. L’obiettivo era quello di fare apparire la Turchia un Paese importante nell’arena internazionale. La Svezia, ma anche la Spagna, in questi ultimi anni erano diventate molto attive nella protezione di elementi del PKK, quindi la questione ad Ankara era oggettivamente molto sentita e non solo dal governo. Il problema del terrorismo di matrice curda compatta anche tutta l’opposizione in Turchia, tranne l’HDP (il Partito Democratico dei Popoli, formazione curda nel parlamento turco). Tuttavia non credo vi sarà un grande impatto sulla situazione interna. C’è una crisi economica enorme in corso. Qualsiasi risultato si possa conseguire sull’arena internazionale difficilmente potrà avere un riflesso sul consenso interno e le elezioni. Erdogan continua ad apparire molto potente, ma è vero solo fino a un certo punto. Non dimentichiamo che ha perso le principali città nel voto amministrativo del 2019 e secondo i sondaggi l’opposizione è in ascesa. Credo che le prossime elezioni saranno molto difficili per lui».
Il mese di giugno ha fatto segnare un nuovo picco per l’inflazione, arrivata al 78,6% rispetto allo stesso periodo dello scorso anno, livello più alto negli ultimi due decenni. La lira turca dall’inizio dell’anno ha perso oltre il 20% rispetto al dollaro, anche a causa delle scelte in politica monetaria poco ortodosse del Presidente Erdogan, che da anni fa pressione sulla Banca Centrale turca perché tenga i tassi di interesse molto bassi per spingere il consumo interno. Una decisione che ha avuto conseguenze deleterie, soprattutto sulle importazioni.
Convinto che la sua ricetta sui tassi verrà adottata anche da altri Paesi in futuro, il capo di Stato si prepara intanto a dare lo scacco matto alla minoranza curda nel Paese. E per farlo, oltre ai risultati del vertice NATO, può contare anche sul silenzio-assenso di Mosca sulla prossima operazione militare turca nel nord della Siria, annunciata dal Presidente Erdogan in persona e che, secondo gli esperti, potrebbe avere luogo in tarda estate. L’obiettivo di Ankara è quello di creare una zona-cuscinetto di 30 chilometri per separare curdi turchi e curdi siriani del YPG, gruppo armato attivo nella regione del Rojava che la Turchia considera strettamente collegato al PKK. Ankara controlla già una importante parte di quel territorio, frutto di operazioni militari portate avanti fra il 2016 e il 2019.
«L’Operazione speciale in Siria – spiega ancora Esen – è una preoccupazione reale nel Paese. Il timore è che si voglia instaurare un’area indipendente nel Nord della Siria per i gruppi curdi e che gli Stati Uniti li possano finanziare attraverso le armi. Portare avanti un’operazione del genere può dare molta popolarità al presidente, ma dubito influirà sulle elezioni, visto che manca ancora un anno».
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Erdogan deve però anche fare attenzione a come si muove. Lo YPG è anche la componente principale delle Syrian Democratic Forces, la coalizione appoggiata dagli USA che ha affrontato e sconfitto Daesh fra il 2014 e il 2019. Ankara in questi mesi è impegnata in una delicata operazione di recupero dei rapporti proprio con Washington.
Un’operazione militare nel Nord della Siria potrebbe rendere questo processo più difficile e il presidente ha importanti obiettivi diplomatici da raggiungere con la Casa Bianca in vista della riconferma nel 2023, come l’abolizione delle sanzioni per aver acquistato il sistema missilistico russo S-400 nel 2018 e il rientro nel programma della costruzione dei caccia F-35.