La guerra fra piani di pace in Ucraina

In quasi tutte le guerre, tutti i contendenti dichiarano di volere la pace e di essere pronti a negoziare. Beninteso, vogliono la loro pace; quella che intendono imporre anche con le armi. Lo ha recentemente affermato il portavoce di Vladimir Putin, Dmitrij Peskov, dichiarando che mai Mosca accetterà che le precondizioni per iniziare i negoziati vengano stabilite da altri. Tutti propagandano la propria pace come “giusta” o, comunque, come l’unica possibile e accettabile. Poiché gli avversari non accettano invece tali condizioni, li accusano di non volere la pace, ma la continuazione della guerra. Spesso non precisano i loro obiettivi, come nel caso di Mosca in Ucraina. Se lo facessero, temono di sbilanciarsi e di legarsi le mani, compromettendo le loro posizioni negoziali. Quindi, dichiarano obiettivi chiaramente inaccettabili per la controparte.

E’ quanto avviene in Ucraina per entrambe le parti. Kiev pone come precondizione di negoziati di pace il ritiro completo russo anche dai territori occupati già nel 2014, quindi anche dalla Crimea. Mosca vuole che sia riconosciuta la sua sovranità sulle quattro province annesse alla Russia dopo i referendum del 2022, oltre che sulla Crimea. Qualsiasi accordo sull’inizio di negoziati presuppone l’accettazione da parte di Mosca e di Kiev di una soluzione intermedia fra tali due estremi. E’ quanto cerca di ottenere Joe Biden da Volodymyr Zelensky, pur rendendosi conto che gli USA non possono cessare di sostenere l’Ucraina senza perdere la faccia.

Volodymyr Zelensky e Joe Biden

 

Sembra comunque che Putin abbia ridimensionato i suoi obiettivi iniziali. Che abbia cioè rinunciato all’annessione dei “fratelli ucraini”, limitandosi a punirli bombardandoli per il loro rifiuto. Le sorti del conflitto si giocheranno con l’esito della preannunciata ripresa offensiva russa, che potrebbe iniziare anche a febbraio. Non va però escluso che essa fallisca o che venga resa impossibile da nuovi successi ucraini. Le trattative di pace potrebbero dunque non avere successo, e non iniziare neppure.

Rimangono intanto in sospeso questioni cruciali anche per il futuro potere di Putin, quali le garanzie per la sicurezza dell’Ucraina (per Emmanuel Macron anche della Russia) e i problemi delle riparazioni e dei crimini di guerra. Non sembra al momento possibile che i negoziati siano preceduti da un “cessate il fuoco”. Sarebbe troppo favorevole alla Russia. Le darebbe il tempo per addestrare i riservisti e per riorganizzare le sue unità, in modo da ottenere poi qualche successo sul terreno. E’ difficile che Mosca accetti di trattare seriamente nelle attuali condizioni d’inferiorità. Come accadde in Corea negli anni ’50 del secolo scorso, durante i negoziati continueranno i combattimenti. Il loro esito condizionerà l’intero processo di pace e anche la situazione interna al Cremlino.

Queste osservazioni ci ricordano un punto concettuale più ampio: contrariamente a quanto molti affermano, ricorso alle armi e negoziati diplomatici non si escludono a vicenda. Entrambi fanno parte della politica. La guerra è la continuazione della politica con l’aggiunta delle armi agli altri suoi mezzi. Durante le operazioni belliche, la diplomazia non cessa; è condizionata dall’andamento delle operazioni. Queste ultime determinano le scelte negoziali. Molto spesso, ragioni politiche e diplomatiche, nonché di propaganda interna e internazionale, influiscono negativamente sulle scelte strategiche.

Nel conflitto ucraino tale dipendenza è più accentuata per i russi. Putin pretende di guidare direttamente dal Cremlino le sue forze ed è responsabile di molti dei loro disastri sul campo. I capi militari ucraini hanno invece dimostrato di saper far prevalere le loro ragioni tecniche sulle pressioni che certamente ricevono da Zelensky, anche se devono tener conto della sua public diplomacy, parte essenziale dell’infowar sempre coesistente con le operazioni belliche. Anche il sostegno all’Ucraina della coalizione a guida americana tiene conto dell’impatto di fattori diversi da quelli propriamente militari. Per gli USA, che forniscono i tre quarti delle armi e i due terzi degli aiuti finanziari complessivi a Kiev (finora rispettivamente gli hanno trasferito 20 e 100 miliardi di dollari, a cui verranno aggiunti altri 2 miliardi in armamenti e 45 in aiuti, recentemente approvati dal Congresso), il sostegno militare è stato condizionato dalla scelta di non superare due “linee rosse”: evitare di dare a Kiev mezzi che possano colpire in profondità il territorio russo; ridurre il pericolo di escalation, limitando non solo la qualità, ma anche la quantità degli aiuti, in modo da mettere gli ucraini in condizioni di resistere ai russi, ma non di imporre loro un’umiliante sconfitta.

 

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Durante la “visita lampo” di Zelensky a Washington dello scorso dicembre, tali limitazioni sono state ribadite da Biden e giustificate anche con la sua esigenza di tenere unita la coalizione di cui fanno parte Stati, come la Francia e la Germania, preoccupati di un possibile collasso russo, seguito da una situazione di caos interno (la frammentazione della Russia in più di un’ottantina di Oblast sarebbe ben più caotica di quella dell’URSS nelle 15 repubbliche che la costituivano).

La visita è stata un grande successo per Biden, che sta leccandosi ancora le ferite del disastroso ritiro dall’Afghanistan, ma non per il presidente ucraino, anche se è stato ricevuto con tutti gli onori e ha ottenuto appunto un ulteriore pacchetto di aiuti (tra cui anche una batteria di Patriot antiaerei/antimissili). Non è stata un successo perché Zelensky non ha ottenuto l’esplicito sostegno USA per il completo ritiro russo da tutti i territori occupati anche nel 2014 (Crimea inclusa), né armi a più lunga gittata in grado di colpire le basi di lancio dei missili e dei droni con cui la Russia sta distruggendo il sistema elettrico ucraino, né una quantità di nuovi armamenti e di munizioni che lo pongano sicuramente in grado di anticipare l’offensiva su ampia scala che i russi stanno preparando. Inoltre, Zelensky non è riuscito a ottenere il sostegno incondizionato dei parlamentari repubblicani, che da gennaio hanno la maggioranza al Congresso. Oltre la metà di essi continua a dire di non avere l’intenzione di dare all’Ucraina un “assegno in bianco”, ma di voler decidere a Washington i compromessi che saranno necessari per qualsiasi accordo di pace. La posizione di parte del Partito Repubblicano non deriva tanto dalle fantasie di Donald Trump (e di Macron) di migliorare i rapporti con Mosca per allontanarla da Pechino, quanto dalla tradizionale propensione del GOP a contenere le spese federali e dai suoi riflessi isolazionisti.

Un dato di fatto è che, intanto, è risultata impraticabile (come era del resto prevedibile) anche una tregua natalizia. Non si sarebbe saputo, peraltro, quale Natale scegliere. Metà degli ucraini, nella loro ansia di liberarsi da tutto ciò che è russo, non lo festeggia più il 7 gennaio, secondo il calendario giuliano adottato dal Patriarcato di Mosca, ma il 25 dicembre come fanno cattolici e protestanti secondo il calendario gregoriano.

Alla sua partenza per tornare a Kiev, Zelensky ha affermato che riformulerà il suo piano di pace in 10 punti, che aveva proposto a fine novembre. Lo ha fatto di certo per le pressioni di Biden. Alla sua dichiarazione ha fatto seguito quella del suo Ministro degli Esteri Dmytro Kuleba, di voler organizzare a breve una conferenza internazionale sulla pace in Ucraina sotto l’egida dell’ONU. La Russia non potrà allora più accusare l’Ucraina di non voler negoziare. L’intera competizione fra le varie proposte di trattative di pace è stata “arricchita” dall’annuncio del Segretario di Stato USA Antony Blinken, che avrebbe proposto un suo piano di pace al G-7, alla Cina e alla Turchia.

Lo stesso Putin ha, per quanto genericamente, dichiarato che tutte le guerre terminano sempre con trattative. Quest’ultima uscita – a parte l’ironia suscitata dal suo uso del termine “guerra” in Ucraina, fatto per il quale centinaia di russi sono in carcere per averlo usato al posto di “operazione militare speciale” – sembra suggerire che gli esiti dell’incontro a Pechino del 21 dicembre fra Dmitry Medvedev e Xi Jinping siano stati disastrosi per la Russia. Ammesso, ma non concesso, che non ne fosse già consapevole, Putin si è reso conto che il “partenariato senza limiti” promessogli dalla Cina ha invece limiti e molto stretti, e che Mosca non potrà contare sul sostegno di Pechino, preoccupata di non venire colpita dalle sanzioni extraterritoriali americane.

 

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Se sarà coordinato, come ritengo probabile, sia con Pechino che con Kiev, il “piano Blinken” costituirà una solida base per un serio negoziato. Esso non dovrà riguardare solo la contingente soluzione territoriale dell’Ucraina, ma estendersi alle condizioni di sicurezza non solo di quel paese, ma anche dell’intera Europa e forse dell’Eurasia. Sarà certo difficile per la Russia, senza pressioni cinesi molto forti, “ingoiare il rospo”. Dovrà comunque farlo in caso d’insuccesso della sua controffensiva. Qualora si risolvesse in un nuovo smacco, la Russia dovrà accettare le condizioni che le verranno imposte. Comunque, ne risulterà ridimensionata, e di fatto lo è già. Non tanto per merito degli ucraini né dell’Occidente che ha mantenuto la sua coesione oltre ogni ottimistica previsione, quanto per gli errori compiuti da Putin, che ha messo in luce le debolezze anche militari della Russia.

Checché ne dicano molti improvvisati analisti strategici televisivi o i retori di un pacifismo da salotto, un ulteriore successo delle forze ucraine costituisce l’unico sicuro mezzo di promozione della pace. Chi desidera veramente la fine degli orrori di quella guerra spaventosa non può sottrarsi alla responsabilità di fornire a Kiev le armi per avere la meglio quando fra qualche settimana riprenderanno i combattimenti su larga scala.

 

 

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