Sono passati dieci anni dalla morte dei due adolescenti – fulminati all’interno di una centralina elettrica mentre fuggivano dalla polizia nella periferia nord-est di Parigi – che diede il via alla più grande rivolta delle banlieuefrancesi. Tre settimane di sommosse, terminate con più di 6.000 arresti in 300 diversi comuni e un danno stimato di 250 milioni.
Non era la prima volta – né fu l’ultima – che gli abitanti dei “quartieri sensibili” (questa la dicitura eufemistica ufficiale) si ribellavano; la rivolta partita da Clichy, tuttavia, rivelava anche agli occhi più restii la profondità e la gravità delle fratture sociali e culturali all’interno della società francese, e delle conseguenze di una tale situazione. A essere franchi infatti, il decennale dell’evento non offre grandi motivi di soddisfazione.
La denuncia di Manuel Valls all’indomani della strage di Charlie Hebdo è stata molto eloquente sui risultati dei tanti provvedimenti legislativi intrapresi al riguardo: il Primo Ministro francese ha parlato della permanenza di un “apartheid territoriale, sociale ed etnico” nelle banlieue. A sconvolgere Valls, e i francesi, è la provenienza tutta locale degli attentatori, nati e cresciuti nell’Île-de-France; ma anche Mohammed Merah, autore di sei omicidi in tre diverse uccisioni nel 2012, era un “prodotto” della banlieue di Tolosa. La tendenza al “comunitarismo”, cioè la chiusura definitiva delle comunità etniche in se stesse, aborrita dal sistema francese nominalmente favorevole all’amalgama delle diversità nei valori fondanti dello Stato, sembra inarrestabile.
La natura delle crisi delle banlieue è evoluta negli anni, pur restando la violenza una costante. La rivolta di Minguettes (periferia di Lione), scoppiata nell’estate del 1983 – anno nero degli omicidi a sfondo razziale in Francia – si concluse con un evento politico epocale. La Marcia per l’uguaglianza e contro il razzismo segnò l’ingresso nell’arena politica dei figli degli immigrati. Fu battezzata dai media Marche des beurs (termine che indica gli immigranti di provenienza araba) a causa della prevalente origine magrebina dei partecipanti.
Negli anni successivi, i pessimisti sull’efficacia delle misure di integrazione intraprese dalla République si contavano tra i fan de “l’Odio” (la Haine), film manifesto del 1995 sulla rabbia dei giovani banlieusard e la repressione poliziesca. Gli ottimisti facevano al contrario notare che la vittoria casalinga ai mondiali di calcio del 1998 di una nazionale mista black blanc beur poteva essere interpretata come un buon segno di riconciliazione.
Un’illusione, quest’ultima, svanita proprio in seguito ai fatti di Clichy, dal marzo 2005 in poi. Le tante associazioni cresciute dopo le sommosse sono state per lo più ignorate dalla politica e hanno dunque esaurito i loro effetti in attività e liste civiche locali. L’unica risposta ufficiale rimase quella dell’allora Ministro dell’Interno Nicolas Sarkozy, che promise di ripulire i quartieri sensibili dalla “feccia” (racaille) che li abitava usando il Kärcher, la macchina idropulitrice degli spazzini parigini.
Negli anni, cambiamenti anche molto positivi sono rimasti confinati al livello urbanistico. L’impegno per una migliore scolarizzazione è fallito – la Francia resta uno dei Paesi occidentali in cui lo scarto tra i risultati degli scolari delle aree benestanti e di quelle emarginate è maggiore – mentre la promessa fatta da Sarkozy durante la campagna presidenziale del 2007 di “un piano Marshall per le banlieue” è stata rapidamente dimenticata. Forse è stato proprio l’antisarkozysme l’ultimo collante politico delle periferie francesi, evidentissimo in occasione del ballottaggio presidenziale del maggio 2012, quando François Hollande venne addirittura plebiscitato in alcune banlieue del nord-est parigino e di altre aree della Francia.
Quel sostegno, decisivo per la risicata vittoria dell’attuale Presidente (51,6%), non sembra ricambiato. Il primo riferimento di Hollande alle banlieue arriva due anni e mezzo dopo il voto (nel dicembre 2014, l’annuncio di un nuovo piano di recupero urbano da 5 miliardi), nonostante la sua campagna elettorale parlasse di giovani – le periferie delle grandi città sono la zona demografica più giovane di Francia – ed égalité a ogni piè sospinto. La delusione e il distacco, aggravati da crisi economica e disoccupazione, ha portato a tassi di astensione senza precedenti agli appuntamenti elettorali degli ultimi due anni.
Ciò ha avvantaggiato non tanto il Front National (in crescita come ovunque ma sempre relativamente debole nelle periferie urbane), quanto soprattutto, paradossalmente, l’UMP di Nicolas Sarkozy. Clamoroso è stato l’appoggio diretto offerto da Saïd Taghmaoui, uno dei tre protagonisti de “l’Odio”, al candidato sindaco UMP (poi eletto) di Aulnay-sous-Bois, comune della cintura nord-est parigina che ospitava uno storico stabilimento Peugeot-Citroën, chiuso infine lo scorso anno dopo aspre lotte sindacali.
Chi si occupa di riempire il vuoto politico e la mancanza di prospettive economico-sociali delle banlieue? Secondo Gilles Kepel, noto accademico e specialista del mondo musulmano, nei quartieri sensibili prospera “una doppia dialettica, un doppio modello, un doppio spettro: quello del pusher e quello del salafista”. Un panorama certamente reale, ma difficilmente stimabile nelle sue dimensioni, da un lato per l’assenza di dati statistici “etnicizzati” tipica della Francia, e dall’altro per la latitanza del controllo istituzionale, limitato alle associazioni riconosciute, sull’evoluzione della vita musulmana nelle periferie.
Si è visto come gli attentatori di Parigi e quello di Tolosa fossero già da un decennio parte attiva dell’islamismo radicale francese, e ciononostante liberi di andare e venire a loro piacimento dal Medio Oriente. Ma anche altri segnali fanno capire quanto pericoloso – da ogni punto di vista – sia il rischio della definitiva perdita di contatto politico e sociale con il resto del Paese: dal mancato rispetto in molte città del minuto di silenzio in occasione degli attentati di matrice islamica, ai sonori fischi alla Marsigliese quando la nazionale francese incontra qualche squadra maghrebina, alla scarsa partecipazione dalle banlieue alla marcia per i valori repubblicani successiva alla strage di Charlie Hebdo.
D’altro canto, la tendenza all’isolamento non è univoca. Un circuito politico-mediatico sensibile solo al fatto di cronaca eclatante o spaventoso contribuisce all’ignoranza generalizzata sulle vere condizioni di vita delle periferie (non certo così drammatiche nel quotidiano) e alla ghettizzazione automatica dei loro abitanti: una sorta di profezia (negativa) che si autoavvera, e certo un’ulteriore barriera al loro inserimento.
Si tratta dunque di un circolo vizioso senza speranza? Il problema, in realtà, potrebbe non essere focalizzato correttamente. Secondo il geografo Cristophe Guilluy, ad esempio, le banlieue possono approfittare dei vantaggi del sistema produttivo globalizzato che ha il suo centro nelle grandi città, grazie al loro grande serbatoio di lavoratori a basso costo, adatti a un’economia dei servizi flessibile e mutevole. Gli abitanti delle periferie avrebbero dunque più opportunità di mobilità sociale di altri francesi (e di quanto può sembrare a prima vista): lo dimostrerebbe la nascita di una piccola borghesia di origine nordafricana che ha ormai abbandonato i suoi vecchi quartieri dormitorio, sostituita da una nuova ondata migratoria proveniente dall’Africa centrale, dalle Antille e dall’Europa orientale, destinata allo stesso percorso.
Stando a questa visione, la vera periferia francese, abitata dagli “sconfitti della globalizzazione” e davvero dimenticata, e sconosciuta, dalle élite, è in effetti quella lontana dai centri urbani: un tempo caratterizzata da piccole e medie imprese e agricoltura fiorente, o legata ad alcune grandi zone industriali oggi dismesse, è ora condannata all’immobilismo e a un lento declino economico e sociale. Si tratta di un’area territoriale che coincide in maniera impressionante con le aree di forza del Front National, anche secondo diversi altri analisti. Saranno i prossimi anni a rivelare se questa periferia ulteriore finirà per adottare in qualche maniera il motto imparato dai giovani delle banlieue: “soltanto spaccando tutto ci staranno a sentire”.