È stato così ma con un’aggiunta importante, che cambia anche un po’ l’ottica. Il modo liquidatorio con cui è stato trattato Zelensky ha trasformato la comparsa in vittima, suscitando una diffusa dose di fastidio per i comportamenti della Casa Bianca, anzitutto in Ucraina: un cambio al potere diventa semmai più difficile. L’atteggiamento di Trump ha poi spinto gli europei a rafforzare la loro solidarietà a Kiev, con la guida decisiva di Londra nelle discussioni sulla difesa. Si unisce il particolare, certo non secondario, che il presidente dell’Ucraina ha ancora in mano la firma dell’accordo sullo sfruttamento delle risorse minerarie del Paese. Ossia l’unica leva negoziale di cui dispone nei confronti di Washington. Se l’avesse giocata l’avrebbe anche persa.
Una tesi possibile, insomma, è che il presidente dell’Ucraina abbia sfruttato l’accordo sui minerali strategici per andare alla Casa Bianca, non poteva apparire del tutto fuori dai giochi. Ma non era pronto a firmare senza avere garanzie di sicurezza da Washington: se Trump guarda a un “deal” quasi immediato, Kiev continua per ragioni ovvie a distinguere fra una tregua e una resa. È chiaro che una linea del genere, da parte di Zelensky, avrebbe potuto fare saltare il banco. Era un rischio, che il presidente dell’Ucraina ha deciso di correre. Ma che oggi comporta delle conseguenze drammatiche: la sospensione degli aiuti militari americani a Kiev, decisa da Trump anche come conseguenza dello scontro che si è consumato nello studio ovale. Secondo le stime degli analisti, l’Ucraina avrà i mezzi per combattere per altri sei mesi, fra produzione interna, residui mezzi americani già consegnati e aumento degli aiuti europei. Dopo di che, sarà in evidente difficoltà.
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Si è creata così una situazione senza precedenti. L’ Europa, con pochi distinguo, e l’Ucraina combattono almeno apparentemente la stessa battaglia per la sicurezza europea: le condizioni per sedersi al tavolo negoziale sono già, da questo punto di vista, parte della soluzione futura. L’amministrazione Trump, decisa a raggiungere un cessate-il-fuoco quanto più ravvicinato possibile, ritiene invece che il problema esclusivo sia di spingere Putin a negoziare. Nella logica del deal-making di Trump, alla parte ritenuta forte, la Russia, vanno dati tutti gli incentivi necessari per sedersi al tavolo; la parte debole, Kiev, deve accettare o avrà tutti i disincentivi del caso, a cominciare appunto dalla sospensione degli aiuti militari americani.
È una situazione senza precedenti perché – se guardiamo agli allineamenti verso l’Ucraina dal 2014 al 2022 – l’America era sempre stata più vicina a Kiev e più lontana da Mosca di quanto fossero gli europei. Oggi le parti sono rovesciate. È chiaro che anche gli europei, come Kiev, guardano a una soluzione negoziale. E da questa prospettiva, un dialogo fra Trump e Putin è necessario. Ma le pre-condizioni contano, perché influenzeranno un esito successivo che avrà un’influenza diretta sulla sicurezza europea.
Il problema di eventuali garanzie americane (che Trump continua ad escludere, perlomeno in questa fase) è a questo punto affidato alla trattativa fra Washington e l’Europa, che è tornata in gioco con la guida di Londra. Il riavvicinamento fra la Gran Bretagna e l’Europa, sul piano della difesa, è uno degli effetti della guerra in Ucraina e di questi ultimi sviluppi diplomatici. Poi vediamo cosa davvero produrrà.
L’Italia punta comunque, come la Gran Bretagna, a rafforzare le capacità europee nella NATO, ritenendo che senza una futura copertura americana qualunque sforzo europeo per garantire un eventuale cessate-il-fuoco sarebbe troppo costoso e rischioso. La Francia, che continua a mettere sul tavolo sue proposte (un mese di tregua del conflitto nei cieli, sui mari e sulle infrastrutture energetiche, ma non sulla linea del fronte), convergerà probabilmente su questa conclusione. Francia e Gran Bretagna, come potenze nucleari, hanno un ruolo decisivo nella configurazione che assumerà la difesa europea. Ed è chiaro, per ciò che riguarda le garanzie di un cessate-il-fuoco, che qualunque impegno europeo dovrà avvenire nella modalità di una “coalition of the willing”, superando così i possibili veti di paesi come Ungheria e Slovacchia. In ogni caso: la piega che ha preso la crisi in Ucraina, e le pressioni della Casa Bianca, costringono finalmente l’Europa a porsi seriamente il problema delle proprie responsabilità e capacità di difesa, con i relativi finanziamenti.
La futura coalizione tedesca, guidata da Friedrich Merz, darà quasi certamente luce verde – nelle forme da decidere – a nuove erogazioni di bilancio, nazionali ed europee. Se l’America terrà sospesi gli aiuti, l’Europa sarà anche spinta a valutare se e come utilizzare i 200 miliardi circa di riserve congelate dalla Russia: tema molto delicato per la futura credibilità dei depositi in euro (tema di nuovo sollevato da Parigi).
Resta per il momento in frigorifero l’accordo economico sullo sfruttamento delle risorse minerarie dell’Ucraina: Zelensky si è detto disposto a firmarlo in qualunque momento ma è probabile che possa farlo solo nel contesto di un eventuale cessate-il-fuoco che offra rassicurazioni anche a Kiev. Il pendolo, in questa vicenda, va in modo rapidissimo. Putin ha molte ragioni per brindare; ma prima o poi si troverà di fronte a sua volta a un prendere o lasciare. Senza avere raggiunto gli obiettivi iniziali della sua guerra.
Uno dei paradossi della vicenda è che l’Ucraina non ha in realtà grandi riserve di terre rare; e che i minerali critici (cosa diversa) sono in larga parte concentrati nei territori controllati dalla Russia. L’agenzia Bloomberg ricorda che non è la prima volta che l’America prende una toppa sulla geologia di una zona di guerra. Nel 2010, gli Stati Uniti annunciarono che l’Afghanistan sarebbe potuto diventare una specie di “Arabia Saudita del litio”. Cosa campata per aria, che infatti non ha poi impedito il ritiro americano.
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L’Ucraina non viene neanche citata dal Rapporto della US Geological Survey fra i produttori importanti di terre rare. Ciò dimostra che l’accordo proposto a Kiev – già migliorato rispetto alle condizioni iniziali, eccessive e di stile quasi “neo-coloniale” – è essenzialmente un segnale politico.
La tesi di Trump è che l’accordo economico – che nella versione attuale prevede la creazione di un Fondo congiunto per la ricostruzione, la cui governance verrà però decisa successivamente – sia una sorta di garanzia indiretta degli Stati Uniti circa la sopravvivenza del Paese. Gli investimenti americani nei minerali critici invece che i soldati di cui stanno discutendo gli europei. E’ un argomento che Zelensky non ha per ora “comprato” fino in fondo. E che indica come gli Stati Uniti vogliano a questo punto monetizzare il dopo-guerra, lasciando agli europei la patata bollente della sicurezza. Anche qui: una sorta di rovesciamento dei ruoli. Che posiziona in anticipo l’America sulla ricostruzione, tema su cui l’Italia sta organizzando una conferenza internazionale per la prossima estate.
Per la Casa Bianca, l’accordo è anche uno strumento di consenso interno. Donald Trump usa la diplomazia coercitiva per dimostrare al suo elettorato che gli aiuti già erogati all’Ucraina verranno compensati. In che misura e quanto non è chiaro; la logica riparatoria invece è chiarissima, nel mondo duro e capovolto della Casa Bianca (sarebbe l’Ucraina ad avere la responsabilità della guerra). Gioca poi la competizione con la Cina, che va in giro per il mondo alla ricerca di minerali critici per le nuove tecnologie. Il rapporto con l’Ucraina era parte della Belt and Road Initiative di Pechino. Washington ne è consapevole; ma altrettanto lo è Kiev.
In conclusione, la penosa ora di televisione a cui abbiamo assistito ha avuto degli effetti a cascata, non tutti positivi per Washington. Ma anche assai complicati da gestire per Zelensky (che non ha “buone carte” in mano, gli ha ricordato senza complimenti Trump) e problematici per l’Europa: che ha invece delle carte da giocare, che non può farsi escludere da un dossier decisivo anche per la propria sicurezza, ma che sta cominciando solo oggi a ragionare, dopo tre anni di guerra sanguinosa alla sua frontiera orientale, da attore internazionale nel settore della difesa.