La corsa al Corno d’Africa passa per i Paesi del Golfo

Seppur lontano dall’eco mediatica di altri teatri di crisi globali vicini (Siria, Iraq, Libia, Gaza o Yemen), il Corno d’Africa nel corso degli ultimi due decenni ha incontrato un diffuso interesse da parte degli attori esterni alla regione. Infatti la compresenza quasi straordinaria di conflitti endogeni ed esogeni (la guerra tra Eritrea ed Etiopia, la crisi somala e quella yemenita), dinamiche politico-securitarie rilevanti a livello internazionale (terrorismo islamista e pirateria) e fenomeni umanitario-ambientali (crisi migratorie e alimentari in parte legate a siccità e cambiamenti climatici) hanno reso questa penisola triangolare una meta ambita ed estremamente importante della geo-strategia mondiale.

Non è un caso se si segnala una competizione tra attori mediorientali (monarchie del Golfo, Turchia, Iran, Egitto e Israele) e internazionali (Stati Uniti, Cina, India, Russia ed Europa) tutti interessati, per motivi differenti, ad estendere la propria presenza e influenza nella regione attraverso l’installazione di strutture militari, la costruzione di hub logistico-portuali o più semplicemente detenendo un ruolo dominante nel controllo delle rotte marittime commerciali nel quadrante afro-asiatico-indiano. Che sia la ricerca di una maggiore influenza politico-diplomatica o la necessità di dare nuovo impulso alle proprie strategie di politica estera, questi player hanno investito un rilevante capitale strategico nel Corno d’Africa. In quella che appare una riedizione della “corsa” all’Africa orientale, anche le principali potenze mediorientali – specie quelle del Golfo Persico/Arabico – hanno manifestato un coinvolgimento, a tratti aggressivo, nell’intento di proteggere il proprio interesse nazionale. Un’attenzione alla regione che rischia di trasformarsi in un’estensione geopolitica di macro-dinamiche propriamente mediorientali.

Il 2015, anno dell’inizio del conflitto in Yemen e del nuclear deal tra i paesi del 5+1 e l’Iran, ha rappresentato uno spartiacque fondamentale nella nuova condizione della sub-regione africana. Ma è dal 2017 in poi che l’intera costa africana orientale e i paesi del Golfo hanno vissuto una compenetrazione profonda degli eventi, accentuata dall’intensificarsi della crisi intra-Golfo che ha visto scontrarsi il Qatar da un lato e l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti (EAU) dall’altro, decretando una rivalità molto accesa che ha prodotto riallineamenti geopolitici imprevedibili nella regione del Corno soltanto fino a pochi anni fa.

Le relazioni tra il Corno d’Africa e il mondo mediorientale sono di lunga data e raccontano storie, a tratti simili, di popoli e culture millenarie. Negli anni Sessanta del Novecento, il Mar Rosso fu teatro indiretto di due conflitti mediorientali (la guerra civile yemenita del 1962-1970 e la Guerra dei Sei giorni del 1967) che vedeva contrapposti, soprattutto, gli interessi di Egitto, Arabia Saudita e Israele. Tra gli anni Settanta e Ottanta, i rapporti tra i paesi dell’area africana orientale e quelli mediorientali diventavano sempre più stretti, seppur regolati nella logica bipolare della Guerra fredda.

Solo dagli anni Novanta, con il superamento della politica dei blocchi e il successivo disimpegno internazionale dall’area, il Corno iniziò ad entrare gradatamente ma costantemente nel raggio di interessi contrapposti delle potenze del Golfo, le quali sfruttarono le debolezze e le criticità degli attori locali, replicando in questa regione le tensioni tipiche del Medio Oriente contemporaneo. Non a caso a guidare le interazioni odierne tra Corno e Golfo sono per l’appunto le necessità e le opportunità legate per lo più alla geopolitica e alla geo-economia.

Oltre ad essere accomunate dalla geografia e dalla storia, il Corno d’Africa e la regione del Golfo Persico/Arabico sono fortemente intrecciate e connesse anche sul piano securitario, a causa della presenza di minacce e vulnerabilità comuni: conflitti armati, jihadismo transnazionale, violenza politica, criminalità organizzata e pratiche illegali (tratta di esseri umani, contrabbando di armi e droga e riciclaggio di denaro sporco). Di fatto i fattori di criticità con alto potenziale destabilizzante che si manifestano in una regione potrebbero avere effetti indiretti anche nell’altro versante.

A ciò devono sommarsi le rivalità tra arabi del Golfo e Iran, e le tensioni tutte interne al Consiglio di cooperazione del Golfo, le quali sono oggi percepite come una delle minacce maggiori alla stabilità e alla pace del Corno intero. Queste dinamiche hanno avviato una competizione strategica nella regione tra almeno tre blocchi: il cosiddetto “quartetto arabo”, costituito da Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Egitto, Bahrain (e in aggiunta l’azione interessata di Israele in funzione anti-iraniana); l’asse Qatar-Turchia; l’Iran.

Il Corno d’Africa, la Penisola arabica e il Golfo Persico

 

Questa competizione ha portato ad un’iniezione impressionante di capitali e investimenti, civili e militari, da parte dei paesi mediorientali (circa 13 miliardi di dollari tra il 2000 e il 2017 secondo uno studio del Clingendael) principalmente in Etiopia e Sudan, nei settori agricolo, manifatturiero e delle costruzioni, anche nel tentativo di espandere le strutture economiche dei paesi di provenienza al di là dei settori del petrolio e del gas. Allo stesso tempo, la natura stessa degli investimenti sinora avanzati riflette, almeno in parte, gli obiettivi divergenti delle diverse dottrine o strategie di sicurezza (che sono di natura politico-militare ed economico-commerciale) perseguite dalle potenze mediorientali in gioco in questa porzione di Africa.

Gli investimenti portuali da parte degli EAU a Berbera (Somaliland), Doraleh (Gibuti), Bosaso (Puntland, Somalia) e Assab (Eritrea); la costruzione di avamposti militari sauditi e turchi a Gibuti, in Eritrea e Somalia; il riorientamento diplomatico di Eritrea, Gibuti e Sudan – dietro promesse di ingenti aiuti allo sviluppo e militari – in favore di una posizione pro-Riyad; il ruolo di mediazione di Arabia Saudita ed EAU nell’accordo di pace tra Eritrea ed Etiopia dopo 20 anni di “guerra fredda”; l’impegno arabo nella protezione dei flussi commerciali ed energetici marittimi nel Mar Rosso e nell’Oceano Indiano occidentale; i progetti di land grabbing delle monarchie del Golfo in tema di sicurezza alimentare sempre in Etiopia e Sudan. Tutti questi elementi fanno parte di una strategia mirata sia a espandere e/o consolidare il soft-power dei singoli attori, sia a portare avanti la strategia araba  di contenimento all’Iran, nel quadro delle crescenti rivalità tra conservatori (il quartetto arabo per l’appunto) e Islam politico moderato (asse turco-qatarino).

L’Iran, da parte sua, punta a creare nuovi equilibri tra attori asiatici e africani facendo leva sulla propria influenza nella regione del Corno attraverso un’azione bi-dimensionale. Da un lato una diplomazia impegnata a rinsaldare gli storici legami con Eritrea e Sudan in funzione anti-saudita, garantendo al contempo un appoggio indiretto alle milizie filo-sciite houthi nel vicino Yemen; dall’altro con una dottrina navale di tipo militare, che favorisca l’ammodernamento delle strutture iraniane nella prospettiva di una competizione marittima tra Teheran e i suoi competitor arabi del Golfo sui flussi commerciali ed energetici euro-asiatici. Lo dimostrano le reiterate minacce iraniane di chiusura dei chokepoint internazionali degli stretti di Bab al-Mandeb tra Mar Rosso e Oceano Indiano e di Hormuz (il passaggio nel Golfo Persico che isolerebbe Dubai, Abu Dhabi e Manama) – nodi strategici dove transitano il 25-30% di tutte le merci trasportate in mare del mondo – all’indomani dell’imposizione da parte degli Stati Uniti di nuove sanzioni economiche contro l’Iran (effettive dal 5 novembre).

Da parte loro, sebbene condividano, almeno nelle intenzioni, la volontà di limitare l’ascesa dell’Iran nel Corno d’Africa, le monarchie arabe del Golfo agiscono e operano nell’area mosse, ognuna in ordine sparso, da un desiderio di stabilire delle gerarchie di potere precise all’interno del mondo arabo-sunnita.

L’Arabia Saudita, ad esempio, ha sempre considerato i territori africani del Mar Rosso come un proprio retrovia strategico da salvaguardare e i popoli e gli stati dell’area come dei naturali e fedeli alleati, subordinati alle esigenze politico-economiche di Riyad. Partendo da questo assunto, gli al-Saud stanno investendo massicciamente in infrastrutture marittime di tipo militare (base a Gibuti di prossima apertura) e civile (progetto NEOM) nella speranza di poter definire una strategia saudita del Mar Rosso utile a diversificare la propria struttura economica e a fidelizzare gli alleati attraverso partnership e accordi finanziariamente vantaggiosi. Parallelamente, gli EAU fanno leva  su un mix di diplomazia economico-infrastrutturale e una politica marittima interventista necessarie sia a proteggere i propri interessi economico-commerciali nel quadrante afro-asiatico sia a favorire alternative geo-economiche e strategiche utili ad aggirare l’influenza saudita nel Grande Medio Oriente. Di converso, il Qatar, in cooperazione con la Turchia, è operante tra le aree del Mar Rosso e dell’Oceano Indiano occidentale nel tentativo di uscire dall’isolamento diplomatico impostogli da Riyad e Abu Dhabi e nel contempo pragmaticamente impegnato a perseguire i propri interessi geopolitici ed economici.

Nel complesso, la competizione nell’area tra gli stati arabi del Golfo potrebbe sì aumentare l’importanza strategica della regione, ma parallelamente rischia di alimentarne conflitti o esacerbare nuove tensioni, rendendo l’area esposta ad una propagazione di tensioni esterne che vanificherebbero anche i tentativi recenti di stabilizzazione. Una prospettiva che tramuterebbe di fatto il Corno d’Africa in un retrovia degli (dis-)equilibri geopolitici di Medio Oriente sempre più allargato.

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