La carta cinese dell’Europa: interessi e speranza

 L’Europa gioca una carta cinese. O meglio cerca di giocarla con nuove missioni a Pechino: prima lo spagnolo Pedro Sánchez (Madrid avrà da giugno la presidenza di turno dell’UE), poi Emmanuel Macron in tandem con Ursula von der Leyen. La tentazione irresistibile del presidente francese è di “europeizzare” la strategia nazionale della Francia; l’opposto di quello che ha fatto il Cancelliere tedesco Olaf Scholz a novembre, con la sua visita solitaria a Pechino. Nella carta cinese dell’Europa, interessi e speranza hanno in questo momento un peso simile.

 

Gli interessi sono economici, naturalmente. La Cina resta un partner commerciale decisivo dei grandi Paesi europei, Italia inclusa; ed è abbastanza evidente che l’UE non intende prevedere un “decoupling” che colpirebbe le industrie continentali. Le scelte non sono però così semplici: va deciso fino a che punto seguire Washington nel bando dell’export alla Cina di semi-conduttori (l’Olanda ha scelto di farlo, la Germania esita) e come evitare una dipendenza eccessiva dalla Cina (la situazione attuale) per quel che riguarda tecnologie decisive per la transizione energetica.

L’Europa, dopo il precedente del gas con la Russia, sa che deve evitare di legarsi mani e piedi a Pechino sul fronte della green economy. E sta quindi puntando a rendersi più autonoma e a diversificare la catena produttiva. Ci vorrà tempo. Ma intanto l’implicazione è geopolitica. La Cina, oltre che un essenziale partner commerciale, è considerata un “rivale sistemico” dalle democrazie occidentali. E’ la ragione per cui, parlando a Bruxelles in vista della missione a Pechino, Ursula von der Leyen ha fatto una distinzione fra “decoupling”, da rigettare, e “derisking”, da tentare.

Washington è entrata da tempo in una logica di contenimento, unico punto di accordo bipartisan nel mondo politico americano. Gli europei temono una “guerra fredda 2.0” e sono in parte divisi su come gestire l’ascesa della potenza cinese. Ma il vecchio mercantilismo è comunque finito. L’Italia, che ha firmato nel 2019 la propria adesione alla Belt and Road Initiative di Pechino, ha adesso sul tavolo la grana del rinnovo di un Memorandum che non dà particolari vantaggi economici e crea invece problemi politici.

Esiste, accanto agli interessi, la speranza. La speranza è legata all’idea che Pechino possa nel tempo favorire negoziati in Ucraina, utilizzando le leve di pressione che ha acquisito su Vladimir Putin: la guerra tragica e sbagliata di Mosca ha trasformato la Russia in un junior partner della Cina, che la tiene in vita finanziariamente comprando (a prezzo scontato) gas e petrolio.

 

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Fino a che punto è una speranza fondata? A giudicare dalla visita a Mosca di Xi Jinping, dieci giorni fa, la Cina coltiva la sua ambiguità. Difende a parole il principio dell’integrità territoriale (pensando a Taiwan come parte dell’unica Cina) ma non chiede il ritiro delle forze russe dall’Ucraina e condivide, almeno sul piano ufficiale, la narrativa di Putin sulle responsabilità occidentali nella guerra. Xi ha lasciato per ora cadere l’invito di Volodymyr Zelensky a un dialogo diretto. La Cina, che non è neutrale se non a parole, non è nella posizione di “mediare”: deve piuttosto premere su Mosca, che pretende di controllare il 20% circa del territorio ucraino mentre combatte da mesi per Bakhmut e mentre le nuove forniture militari occidentali dovrebbero permettere a Kyiv una prossima offensiva a Sud.

Pechino vorrà e saprà farlo? Sotto la superficie di dichiarazioni retoriche, la Cina ha interesse a salvare il salvabile di una guerra fallimentare, evitando rischi nucleari e limitando l’eventuale sconfitta della Russia, sua alleata nel confronto con Washington; ma non ha intenzione di farsi trascinare nelle imprese neo-imperiali di Vladimir Putin.

 

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C’è anche una storia di diffidenza alle spalle, fra russi e cinesi. Pechino è alle prese con una traiettoria di crescita strutturalmente deludente, per la prima volta da decenni; non può rischiare di compromettere i rapporti con le economie occidentali, che sono molto più consistenti di quelli con la Russia. Per questa ragione, l’appoggio di Pechino a Mosca è rilevante, per i destini dell’Ucraina e per gli equilibri globali; ma ha limiti e vincoli che lo sono altrettanto. La speranza europea è di riuscire a forzarli, portando Xi fuori dalla sua ambiguità. Prevarranno, da parte dell’Impero di Mezzo, le motivazioni politiche o gli interessi economici? Un tempo, avremmo scommesso sul pragmatismo della leadership cinese. Con Xi Jinping è più difficile farlo.

Pechino è di fronte a un trilemma. Può restare alla finestra in Ucraina, traendo vantaggi potenziali dalla guerra e tenendo gli Stati Uniti impegnati in Europa, piuttosto che in Asia (ma i due teatri sono ormai un continuum); può aiutare Mosca sul piano militare, ma questo le costerebbe moltissimo nei rapporti con i Paesi occidentali; o può favorire una soluzione diplomatica sapendo che alla fine Washington ne sarà l’interlocutore centrale.

L’Europa spera di facilitare questa terza ipotesi, in accordo con Washington e aprendo la strada agli Stati Uniti. Per farlo dovrà essere chiara su un punto essenziale: la coesione occidentale, decisiva per l’esito della guerra in Ucraina, terrà. E terrà anche nei confronti della Cina. Se esitasse su questo, l’Europa – più che giocare una carta cinese – darebbe in mano a Pechino una carta europea da far valere nei confronti dell’America.

 

 

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