Se Elizabeth Warren non riuscirà a ottenere la nomination democratica per la presidenza potrà forse rammaricarsi della scelta di sostenere la proposta di Bernie Sanders per una Medicare for all, l’idea di abolire le compagnie di assicurazione sanitaria e passare a un sistema di Sanità pubblica.
Il nodo Medicare
Il motto della senatrice del Massachusetts è “I have a plan for that” dove “that” è riferito a grandi partite che interessano o preoccupano la middle class statunitense in difficoltà. Per quanto riguarda la Sanità, però, Warren ha sposato la proposta Sanders. Una scelta razionale quando è stata fatta: su questo, come su altri temi centrali nella campagna della 70enne ex professoressa di Harvard, i sondaggi hanno indicato esserci ampio consenso. Le ipotesi di innalzare le spesa e la copertura per l’assistenza all’infanzia, ridurre i costi dell’università e per la casa sono popolari, così come l’ipotesi di pagare questo aumento di spesa pubblica con maggiori tasse sulla ricchezza. Così era anche per Medicare for all quando è stata lanciata.
Ma siccome la Sanità è il tema forse più controverso di tutti, Warren si è trovata contro un fuoco di sbarramento. A Sanders non è capitata la stessa cosa. Forse perché nessuno tra i moderati del Partito Democratico lo ha visto, per mesi, come un pericolo reale, come un candidato che avesse qualche chance di vincere. Con la sua capacità di essere più ecumenica e di mostrare empatia, e con il balzo in avanti nei sondaggi dopo l’estate, Warren è invece diventata un bersaglio. E con lei la proposta sul Medicare, accusata di essere troppo radicale.
Il tema della sanità è delicato e scivoloso: molti americani non si rendono conto dell’assurdo sistema sanitario che vige nel loro Paese (il più caro e meno efficace d’Occidente) mentre molti altri, che hanno un buon lavoro e una buona copertura, temono che cambiare implichi perdere ciò che hanno e che per loro funziona. Le assicurazioni e compagnie sanitarie private fanno il resto spendendo milioni l’anno in attività di lobbying e alimentando campagne di informazione non esattamente corretta.
Fatto sta che la Sanità pubblica per tutti potrebbe rivelarsi l’errore politico fatale di Warren. Che infatti a metà novembre, dettagliando il suo piano, ha cominciato a moderare la proposta, parlando di fase uno e fase due, dove il primo passo è l’ampliamento di Medicare attraverso la possibilità per tutti di assicurarsi presso il pubblico, con eguale efficienza e minori costi. Una proposta sostanzialmente condivisa dalla maggioranza dei candidati alle primarie Dem.
Elizabeth e Bernie, nemici-amici
L’altro grande ostacolo alla nomination di Warren si chiama Bernie Sanders: il consenso nei sondaggi dei due candidati più a sinistra alle primarie per il 2020 e la loro capacità di raccogliere fondi attraverso piccole donazioni sopravanza infatti di molto quella di Joe Biden ed eguaglia la somma dei consensi all’ex vicepresidente e il quarto nei sondaggi, Pete Buttgieg. Ma Sanders ha una sua base fedele, un’organizzazione rodata, ereditata dalla campagna del 2016, e una notorietà maggiore.
Come è successo che una professoressa di Harvard capace di costruirsi una grande reputazione nell’accademia sia diventata una candidata radicale e (un po’) populista con più di una possibilità di giungere alla Casa Bianca?
La sua è la tipica storia di successo, di quelle americane degli anni ‘60, che ti portano dalle stalle alle stelle perché quella era una società che premiava l’impegno e perché diversi strumenti voluti da Franklin Roosevelt (1933-45) favorivano l’ascesa sociale – il GI Bill consentì a tanti veterani di fare il college, per esempio. Per Warren, dunque: middle class dell’Oklahoma, passata attraverso una crisi dovuta all’infarto e al licenziamento del padre, matrimonio, figli, studi interrotti e poi ripresi e, infine, l’ascesa nel mondo accademico fino a divenire una delle professoresse meglio pagate di Harvard.
Quella storia sembra non essere più possibile oggi per le stesse ragioni per cui Sears, la catena per cui lavorava la madre della adolescente Elizabeth, che aveva ripreso a lavorare dopo che il marito era stato licenziato, ha chiuso centinaia di negozi e si prepara a chiuderne altri 100 nel 2020. Quel mondo, quella organizzazione sociale, quella economia non ci sono più in America. E questa è una delle ragioni per cui il presidente Trump ha vinto nel 2016 e la candidatura di Bernie Sanders alle primarie di quell’anno ha avuto tanto successo. La vicenda personale rende Warren – intellettuale e professoressa in una università di élite e Senatrice di uno Stato liberal per eccellenza – capace di essere empatica e parlare a coloro che si sentono lasciati indietro, e che sono al di fuori delle sue cerchie immediate di riferimento.
Formazione, ricerca, evoluzione
La vicenda personale è anche la chiave per giustificare la scelta di Warren di correre con una piattaforma che promette cambiamenti strutturali: un sistema sanitario pubblico, la cancellazione del debito studentesco, un aumento delle tasse sui redditi milionari. Al liceo Warren vinse un premio statale per la sua capacità di dibattere in pubblico, vinse una borsa di studio, che lasciò per sposare Jim Warren – con il quale ebbe due figlie – completò gli studi a Houston, si trasferì in New Jersey dove insegnò in una scuola per ragazzi con disabilità, rimase a casa per un periodo, e si trasferì con il marito in New Jersey, per poi prendere una seconda laurea, stavolta in diritto.
La pausa casalinga, nei racconti recenti, è associata con il suo non essere stata richiamata al lavoro dopo aver annunciato di essere incinta. Un altro tassello da aggiungere alla propria narrazione – o volendo essere benevoli, un tassello che contribuisce a forgiare l’idea che i limiti esistenti tra la middle class e la ricerca della felicità cui si richiama il secondo paragrafo della Dichiarazione di indipendenza siano figli di una politica al servizio delle grandi corporation e della loro capacità di fare lobby. In fondo è quanto dicono tutti i politici di successo dal 2008 in poi: Trump ha vinto spiegando di aver donato soldi a Repubblicani e Democratici perché la palude di Washington è in vendita.
Eppure Warren non è stata sempre una progressista: l’Oklahoma è uno Stato conservatore che non ha conosciuto gli anni ‘60 della California o di New York. In effetti, è dopo il trasferimento in New Jersey e il divorzio nel 1978 che cominciamo a vedere la Warren contemporanea. I suoi studi la portano a occuparsi di bancarotta, scegliendo come obiettivo di studio le famiglie che finivano rovinate, anziché le banche o le imprese. Con il giurista Jay Westbrook e la sociologa Teresa Sullivan ha fatto ricerche sulle famiglie per anni e scritto due volumi. Gli anni di Harvard sono anche quelli in cui si fa la nomea di lavoratrice instancabile, professoressa dura ma di altissimo livello. Ostinazione, fatica, responsabilità sono tutte caratteristiche di quella narrazione che ne ha fatto una beniamina del campo progressista.
Le sue ricerche e i suoi studi contribuirono a farle cambiare idea sul perché le persone normali finivano sott’acqua per i debiti. Coloro a cui cui capitava un problema non erano irresponsabili buoni a nulla, ma normali famiglie middle class americane. I cui salari non mantenevano il ritmo dei costi crescenti di alcune spese fondamentali quali l’istruzione e la sanità. Quel che prima era parte delle sicurezze regalate dal sogno americano (almeno per i bianchi), smette lentamente di esserlo dagli anni ’80. Con il 2008 si passa ancora a un altro livello: le banche (o meglio, i promotori finanziari che a loro volta vendono pacchetti di mutui alle banche) arrivano al paradosso di indurre a indebitarsi clienti palesemente non in grado di ripagare.
Finanza, equità, protezione dei consumatori
La capacità di dibattere, non deviare dal tema, incalzare sapendo di cosa si parla, Elizabeth Warren l’ha mostrata nelle audizioni in Senato. Diversi scambi dai toni duri con i CEO di banche ne hanno fatto una campionessa della battaglia per il ridimensionamento e i controlli sulla finanza, per la creazione di strumenti di difesa dei consumatori e per una tassazione più progressiva.
Prima di correre per il seggio al Senato, Warren scriveva e avanzava proposte con il suo lavoro a Harvard. L’idea del Consumer Financial Protection Bureau (CFPB), l’agenzia per la protezione dei consumatori della finanza voluta da Obama nel 2011, è sua. Il proscenio nazionale ottenuto con la creazione del CFPB è anche il momento in cui Warren passa dall’accademia alla politica – un’esperienza precedente è quella nella commissione per la legge che riforma la bancarotta negli anni ‘90.
La mancata nomina di Warren a direttore del CFPB da parte di Obama pure deve aver giocato una parte. La scelta cadde su Richard Cordray perché si riteneva che Warren non avesse i voti per essere confermata dal Senato a maggioranza repubblicana. Il Grand Old Party non ha mai digerito il CFPB né le regole introdotte dalla riforma delle banche che va sotto il nome di Dodd-Frank.
L’opposizione preventiva alla nomina di Elizabeth Warren venne anche molto da Wall Street, e oggi come allora i finanzieri democratici mettono in guardia il partito dallo scegliere come candidata la loro arci-nemica. In molti hanno annunciato in forma anonima o pubblica che se costretti preferiranno votare Trump piuttosto che la senatrice. Inutile sottolineare che quel che i finanzieri potrebbero far mancare, più che pochi voti, sono milioni in donazioni per le campagne presidenziale, governatoriali e del Congresso.
La scalata alla politica nazionale
Non si tratta di un aspetto da sottovalutare. D’altro canto l’ostilità di Wall Street consente a Warren di raccogliere consensi a sinistra, di poter immaginare di incalzare Sanders tra i giovani e di avere un messaggio forte e popolare (anche in termini di consenso) da portare alla middle class che si sente mancare il terreno sotto ai piedi.
La Warren come pubblica paladina contro le corporation fa un balzo in avanti nel 2012. La allora professoressa era in piena corsa per il seggio senatoriale che avrebbe strappato a Scott Brown, repubblicano che aveva vinto il seggio lasciato vacante da Ted Kennedy. Pur partendo in svantaggio, Warren finì con il vincere per 17 punti e il video di un suo discorso durante quella campagna contribuì a farne un personaggio nazionale: “Non c’è nessuno in questo paese che si sia arricchito da solo. Nessuno. […] Tu hai portato le tue merci sulle strade che il resto di noi ha pagato; hai assunto lavoratori a cui abbiamo pagato gli studi; sei stato al sicuro nella tua fabbrica grazie alle forze dell’ordine e ai vigili del fuoco che il resto di noi paga… hai costruito una fabbrica e si è trasformata in qualcosa di fantastico, o in una grande idea. Dio ti benedica. Tienitene un bel pezzo. Ma parte del contratto sociale di base è che con una parte dei soldi che guadagni paghi in anticipo per il prossimo che arriva”.
Questo suo ruolo e la coerenza nel proporlo sono stati abbastanza per entrare di prepotenza sul podio della corsa democratica, ma non di operare balzi in avanti oltre una certa soglia. Warren è sempre stata terza o seconda (tranne in un paio di sondaggi Economist/YouGov in cui era prima di un soffio) e a novembre ha perso ancora (leggermente) terreno. La sua capacità di maneggiare i temi con competenza le ha fatto guadagnare ampi consensi tra i bianchi con istruzione, un gruppo sul quale ha mantenuto percentuali alte da quando ha cominciato a crescere nei sondaggi. Ma va meno bene tra i bianchi della working class e le minoranze. E meno bene, nelle ultime settimane, nei primi Stati dove si vota a partire da febbraio (Iowa, New Hampshire, South Carolina, Nevada).
Dolenti note
Che Warren non abbia bucato nell’elettorato meno ricco, meno acculturato e tra gli afroamericani è il vero nodo della sua campagna: proposte pensate per rendere meno diseguale il Paese non pagano abbastanza tra coloro a cui sono rivolte. In fondo una parte consistente degli afroamericani è moderata e un po’ conservatrice, Biden è stato il vice di Obama e lo stile professorale convince meno dello stile antagonistico di Sanders o, appunto, quello franco e diretto di Biden. Anche per questo Warren ha cercato e ottenuto l’endorsement di Ayanna Pressley, rappresentante del Massachusetts e membro di quel pack di donne progressiste che include anche Alexandria Ocasio-Cortez, giunte a Washington con le mid-term del 2018.
La nomination di Elizabeth Warren potrebbe rappresentare il secondo tentativo di portare una donna alla Casa Bianca: dopo aver evitato per mesi di sottolinearlo, ora il tema si è fatto spazio nella sua campagna. Non centrale, ma nemmeno messo da parte. Warren ha nominato co-direttrici della sua campagna tre elette a Washington: Deb Haaland (una nativa), Katie Porter (stella nascente della politica California e sua ex studentessa) e la stessa Ayanna Pressley.
La sua campagna è finanziata con i soldi raccolti senza ricorrere ai grandi finanziatori e alle corporation. Un tema della propaganda sua e di Sanders e un punto su cui ha attaccato Buttgieg e Biden: chi prende soldi dai miliardari non può promettere di cambiare l’America contro i loro interessi.
Programmi, carattere, capacità di stare con il pubblico e di dibattere, preparazione e dedizione, organizzazione. E persino mancanza di errori tattici e gaffes.
Cosa manca allora a Warren per essere una candidata ideale? La prima risposta vale per tutti gli altri personaggi in corsa: il campo è ricco e ciascun candidato ha dei fattori di forza. Warren non è la più radicale, non è la più giovane, non è la più moderata. E vende la sua proposta come una proposta per salvare il capitalismo da se stesso, non per sovvertirlo. E cerca di parlare a destra e a manca anziché corteggiare una constituency specifica. Un esempio è la reazione dopo l’uccisione di Qasem Soleimani: toni duri contro il presidente ma patriottici in un primo tweet, più radicali e anti-guerra nel secondo. Questa relativa ambiguità la rende piacevole per tutti, ma non la prima scelta di molti. Spesso nei sondaggi è il secondo candidato nominato dagli interrogati. Anche questo in realtà potrebbe essere un vantaggio: dopo le prime tornate e con tanti molto indecisi sul da farsi, essere la seconda scelta può significare raccogliere i voti in uscita da altre campagne. Prima però occorre ottenere dei buoni risultati nei primi Stati a votare. Non impossibile, non facile.