Da otto anni si parla di politica “in rete”. Anzi, forse da dodici, quando Howard Dean rimase in corsa per mesi nelle primarie democratiche grazie a un sistema online per la raccolta di piccole donazioni. All’epoca era una novità assoluta, poi venne la campagna che cambiò tutto, quella di Obama ’08.
Questa mostrò al mondo come utilizzare Internet per aumentare la partecipazione al processo elettorale, ottendere fondi da migliaia di donatori, divulgare al meglio il proprio messaggio. La mobilitazione virtuale, grazie anche al contributo di fonti esterne, moltiplicava la capacità di fuoco della comunicazione politica. Alcuni video pro-Obama divenuti virali, infatti, non erano un prodotto dello staff dell’allora senatore dell’Illinois; ma si fece in modo che apparissero come tali.
Altro aspetto cruciale della “prima campagna post-moderna” fu l’uso dei dati relativi agli elettori registrati: l’irruzione prepotente dei Big Data nella politica. Attraverso l’incrocio dei dati, gli attivisti potevano bussare alle case giuste, saltando quelle delle famiglie che, secondo le elaborazioni, non si sarebbero potute convincere. I volontari erano poi già istruiti con esattezza su quali argomenti specifici toccare, quando qualcuno apriva la porta.
Nel 2012 tutto questo era già normalità: a ogni team di campagna era richiesto di saper gestire questi nuovi strumenti, in particolare i social network. Durante gli otto anni della presidenza Obama tali innovazioni si sono cementate nella pratica comune, ma alcune novità cruciali ci saranno anche nel 2016. In effetti, rispetto alle due tornate elettorali precedenti, oggi i social network sono cresciuti per peso, penetrazione e differenziazione, con gli smartphone che hanno reso la loro pervasività totale. Le app rendono ancora più immediato e personalizzato l’accesso e lo scambio di informazioni – anche quelle politicamente rilevanti.
Da un punto di vista economico, un rapporto della società di ricerca di mercato BorrellAssociates indica quanto il digitale sia cresciuto nel mercato pubblicitario politico. La spesa in questo senso potrebbe superare il miliardo di dollari nel 2016 (ovvero il 9,5% della spesa pubblicitaria politica totale e circa un quinto di quello che viene ancora destinato alle televisioni). Il boom è però drogato dalla grande quantità di candidati repubblicani attualmente in gioco, che non si arrendono all’idea che Donald Trump possa vincere davvero le primarie del partito.
Il vantaggio maggiore di fare pubblicità sui social network, rispetto ad esempio alla tv, è che questi si posizionano all’incrocio tra enormi bacini di utenza e i Big Data. Offrono quindi la possibilità di raggiungere proprio il pubblico che si desidera e, quindi, di calibrare alla perfezione il messaggio: secondo gli interessi (a favore o contrario al matrimonio gay, al fracking, all’aborto), il profilo sociale (età, comportamento di voto, livello di interesse per la politica o per il candidato), la geografia (una zona specifica, una contea, un quartiere).
Ciò naturalmente aiuta a ottimizzare le limitate risorse di una campagna elettorale, come esemplificato dal caso del New Hampshire. Piccolissimo stato in cui, volendo puntare sulla pubblicità televisiva, servirebbe comprare spazi su un mercato televisivo grande e costoso, che include anche Boston, il Vermont e il Maine – località la cui audience non sarebbe interessata al messaggio. L’ostacolo spaziale si può invece aggirare con la profilazione resa possibile dai social network.
L’ambito digitale inoltre offre una serie enorme di strumenti impensabili per la pubblicità tradizionale. Ad esempio Twitter consente di raggiungere gli utenti dividendoli per codice postale. Mentre Snapchat insiste: se volete parlare ai giovani che si informano, venite qui, la nostra base di 100 milioni di utenti è fatta per il 63% di 18-34enni. Proprio quelli che una convinzione devono ancora farsela, e che soprattutto si può spingere a impegnarsi, fare i volontari e andare a votare. Insomma, politica e mercato lavorano assieme: per i social network la campagna è un affare in termini di soldi incassati, e anche di vivacità delle piattaforme. Per i comitati elettorali, i social network sono un arma in più da usare nella battaglia per la Casa Bianca.
Ad ogni modo, i candidati usano quest’arma in modi e con scopi differenti. Bernie Sanders ha bisogno di ricevere donazioni (di piccola taglia), motivare la base e organizzarla per il porta a porta. E così quando un gruppo di sostenitori ha creato l’app Field the Bernie – che consente agli attivisti di registrarsi per gli eventi, coordinarsi, cercare altri volontari nel vicinato – lo staff del senatore ha deciso di farla propria. Mentre ancora nel 2012 i candidati costruivano e lanciavano il loro messaggio a un pubblico vasto e incontrollato, qui siamo davanti a una vera e propria mobilitazione digitale bottom-up, dal basso.
I social network però sono difficili da maneggiare. Jeb Bush ha fatto partire la sua campagna su Snapchat. Mossa sbagliata: per un candidato moderato che deve piacere al grosso della base repubblicana il social migliore è piuttosto Facebook, i cui utenti somigliano di più all’elettore medio. Nel caso di Jeb avrà forse pesato la voglia di essere primi a lanciarsi su Snapchat; ma la sua esperienza ci ricorda che, indipendentemente dalla campagna specifica, che sia quella di Sanders o di Bush, ciò che conta alla fine non è quante persone in assoluto ricevono il messaggio elettorale, ma la mobilitazione dei propri sostenitori o potenziali tali. Tuttavia, neanche questo è del tutto vero: avere 5 milioni e passa di follower su Twitter, come è il caso di Trump, aiuta anche a galvanizzare la base. E non è un caso che i tre candidati più popolari (Trump, Clinton e Sanders) siano anche quelli con più follower e like su Facebook.
Proprio su questo ha puntato Hillary Clinton. L’approccio della sua fallimentare campagna del 2008 era tutto piramidale; oggi, i media raccontano che Hillary e i suoi strateghi lasciano spazio ai volontari e allo staff, rilanciando ad esempio i loro tweet in gran quantità. Gli account della candidata hanno un profilo molto spigliato, giovanilista, cool, non certo per caso: l’obiettivo è attirare i sostenitori più giovani, che per il momento tifano Sanders. Ogni sforzo è teso a quell’obbiettivo: dalle foto di lei bambina e di lei nonna, alla playlist delle sue canzoni preferite sul canale streaming Spotify.
E poi c’è il fenomeno Trump: mirato a massimizzare la potenza di fuoco dei sostenitori presenti sui social network, invitati a rilanciare con furia tutte le sparate del miliardario. Con loro, Trump comunica direttamente, approfittando di un altro vantaggio del mondo digitale: fare a meno dell’intermediazione dei media classici. I suoi tweet più provocatori, gli insulti agli avversari, non vengono più cancellati: Donald Trump ha capito che sparare nel mucchio piace, e se prima cercava di moderare il proprio profilo, ora non si trattiene più. Resta da vedere se una tale strategia porterà davvero dei risultati tangibili in termini di mobilitazione e voto; l’impressione è che non sia così.
È presto per dire come verranno utilizzati i social network quando il gioco si farà duro e i candidati resteranno due: il periodo delle primarie servirà anche per testare, migliorare o scartare ipotesi di lavoro. Su questo fronte però, i Democratici sembrano avere un certo vantaggio. Ma sapremo se saranno capaci di portare più giovani al voto, cambiando in maniera decisiva la demografia elettorale, solo mercoledì 9 novembre 2016.