Più di un mese dopo la decisione dei cittadini britannici di uscire dall’Unione Europea, e con un sistema politico stabile quanto un castello di carte, il Regno Unito non è mai apparso più disunito. Mentre il 48% dei cittadini, per lo più millenials, che ha votato a favore del remain si sente ora privato del proprio futuro all’interno dell’UE e sembra aver riscoperto una latente identità europea che non considera rappresentata da nessuna forza politica, molti sostenitori della Brexit vedono ora le proprie aspettative tradite da un élite incapace di guidare il Paese e di portare avanti le riforme promesse.
Lungi dall’essere un problema solo britannico, la Brexit si profila non solo come l’ennesima dimostrazione di un crescente distaccamento sociale dal progetto europeo, ma mette anche in luce un’inadeguatezza dei sistemi politici odierni a rispondere in maniera efficace alle necessità dei cittadini.
In effetti, alla vittoria del Leave sono susseguite le dimissioni del Primo Ministro David Cameron, che nel 2013 aveva lanciato l’idea del referendum per acquisire la legittimità politica necessaria a vincere le elezioni e guidare il Paese. Secondo Cameron, dopo aver combattuto per rimanere all’interno dell’UE con la testa ed il cuore, è giunto il momento di lasciare spazio ad una nuova leadership capace di guidare il Paese nel processo negoziale con l’Unione nel rispetto della decisione dei cittadini britannici.
A seguire, lo stesso Boris Johnson, l’ex sindaco di Londra che aveva sostenuto invece l’uscita della Gran Bretagna, ed era considerato possibile successore di Cameron, ha dichiarato di non voler condurre il partito dei Tories ed il Paese verso l’exit, precludendosi quindi la possibilità di guidare il governo. Allo stesso modo, Nigel Farage, leader dell’UKIP, il partito euroscettico britannico per antonomasia, a sua volta in prima linea durante la campagna referendaria, ha deciso di abbandonare il timone del suo partito con la scusa di aver ormai raggiunto il proprio obiettivo: la Brexit.
D’altro canto, anche il Labour è diviso. Jeremy Corbyn, alla guida dei laburisti dopo aver vinto le primarie lo scorso settembre, è stato sfiduciato dai maggiorenti del partito. Motivazione: non essersi dimostrato un leader pro-europeo convincente. Ora la direzione del partito è nuovamente contesa tra diversi candidati. In effetti, l’europeismo dei laburisti è sempre stato freddino e utilitaristico; la dichiarazione pro-Remain è suonata debole e di circostanza: solo sei elettori su dieci l’hanno seguita, con un picco di “indisciplinati” proprio nelle regioni industriali, bastioni elettorali del partito.
Rimane poi aperta anche la questione di unità nazionale. All’indomani del voto i parlamentari e gli europarlamentari scozzesi e dell’Irlanda del Nord hanno più volte dichiarato la loro intenzione di non accettare la Brexit. In particolare, secondo Nicola Sturgeon, leader dello Scottish National Party e First Minister della Scozia, il loro mandato è quello di rappresentare la maggioranza dei loro elettori che di fatto hanno votato Remain (62% in Scozia e 55,8% in Irlanda del Nord). Questo fa intravedere la possibilità, per i due Paesi, di indire un referendum per separarsi dall’Inghilterra e dal Galles, riunendosi all’Unione Europea una volta indipendenti.
Un’alternativa potrebbe essere invece che sia Irlanda che Scozia rimangano all’interno del Regno Unito ma anche membri dell’UE, lasciando uscire solo Inghilterra e Galles. Oltre ad essere tecnicamente difficile da realizzare -gli scozzesi e gli irlandesi potrebbero essere rappresentati solo al parlamento europeo- tale opzione sembra difficilmente accettabile per l’Ue, perché fomenterebbe le spinte di alcuni movimenti separatisti, come quello catalano, ad ottenere maggiore indipendenza dalle loro nazioni.
Questi numerosi conflitti interni potevano far intravedere la possibilità di delegittimare il risultato referendario, di fatto non legalmente vincolante, tramite nuove elezioni ed una massiccia campagna pro europea, per non destabilizzare ulteriormente il paese. Ciononostante, il Fixed-Term Parliament Act del 2011 stabilisce che la durata di una legislatura debba essere di cinque anni e consente uno scioglimento anticipato solo nel caso di voto di sfiducia del Primo Ministro o qualora i 2/3 dei parlamentari votassero a favore. Quest’ultimo scenario, che rimane l’unico possibile, è altamente improbabile visto lo stato di divisione interna del partito laburista e la volonta’ dei Tories di non perdere la guida del Paese.
Infatti, la carica di Primo Ministro è ora passata nelle mani del membro del partito conservatore Theresa May, che nonostante si fosse schierata a favore del remain si è detta pronta “a guidare il Paese verso la exit, risollevando le sorti del Regno Unito e rinegoziandone le relazioni con l’UE”. Nel suo discorso d’insediamento la May ha inoltre dichiarato di voler ristabilire il ruolo prominente che il Regno Unito deve giocare nel mondo, prendendo cosi le distanze dalla sfera eurocentrica. La volontà della May di portare avanti la Brexit è evidente anche nella scelta dei propri ministri. In particolard, Davies Davies, conosciuto per le sue posizioni euroscettiche, si occuperà dei negoziati con l’Unione europea come Ministro della Brexit, mentre Boris Johnson, che si era fatto portavoce del leave durante la campagna referendaria, è il nuovo Ministro degli Esteri.
Tuttavia, le intenzioni della May non chiarificano la strategia britannica. Apparentemente il governo, non avendo previsto che la Brexit sarebbe diventata realtà, non sembra avere un piano ben definito e punta a negoziare un pre-accordo con l’Unione Europea prima che il Parlamento britannico richieda l’attivazione dell’articolo 50 del trattato di Lisbona, che aprirebbe formalmente il processo negoziale per l’uscita della Gran Bretagna dall’UE. Nello specifico, il Regno Unito vuole ottenere garanzie sulla concessione di uno status particolare che gli consenta libero accesso al mercato unico ma limiti l’immigrazione.
Sembra però difficile immaginare che l’Unione accetti ancora una volta di scendere a compromessi con Londra, soprattutto dopo le ripetute concessioni fatte prima del referendum. Al contrario, potrebbe prevalere in molti Paesi europei una determinazione a voler “punire” la sventatezza del governo britannico per aver indetto un referendum popolare su un tema così delicato e complesso, i cui risultati potrebbero minare la stabilità sia economica che politica di molti altri stati membri. In altre parole, constatare che la Brexit comporti conseguenze pesanti per il Regno Unito potrebbe essere l’unico deterrente al tanto temuto effetto domino, per cui i cittadini di altri paesi dell’UE voterebbero anch’essi per l’addio all’Unione.
Certo è che l’UE non può nemmeno lasciare precipitare il Regno Unito senza pagarne i costi, visti i livelli di integrazione raggiunti in questi anni. In questo frangente, sembra che l’unica opzione per la Gran Bretagna sia quella di accettare una posizione analoga alla Norvegia, che pur avendo libero accesso al mercato unico, non è membro dell’UE, non ha potere decisionale e non può quindi né bloccare né rallentare le decisioni prese a Bruxelles. Questo tuttavia andrebbe a peggiorare la posizione britannica: come membro dell’UE, il Regno Unito aveva mantenuto un certo grado di libertà d’azione grazie allo status speciale che gli era stato concesso, ma poteva anche esercitare un livello di controllo sulle politiche europee – sia facendo valere la propria contrarietà nei casi di decisioni da prendere all’unanimità, sia creando “minoranze di blocco” su altre questioni.
Quello britannico pare quindi profilarsi come un gioco a somma zero. Mentre le fazioni pro-Brexit non sembrano avere un piano d’azione credibile, le negoziazioni con l’UE potranno solo partire con l’attivazione da parte del Parlamento britannico dell’articolo 50, azione quest’ultima che, secondo il neo-ministro Davies sarà portata a termine entro gennaio dell’anno prossimo
Il rischio è che questo processo non porti solo ad un duro scontro politico, con possibili spinte separatiste in Scozia e Irlanda del Nord, ma anche sociale. Il governo dovrà far fronte alle aspettative dei sostenitori del leave, al malcontento degli elettori a sostegno del remain, e al senso di insicurezza generale di quei 3 milioni di cittadini europei che da anni vivono e lavorano nel Regno Unito senza averne richiesto la cittadinanza, e che ora vedono il loro status divenire molto incerto.
Come e se la May sarà in grado di condurre un paese così diviso fuori dalla crisi politica ed economica non appare ancora chiaro. Ciò che invece è trasparente, è il fallimento dei sistemi partitici nel guidare i cittadini piuttosto che semplicemente assecondare le loro pulsioni per fini elettorali. In questo senso, la situazione della Gran Bretagna è in realtà uno specchio allarmante di quello che potrebbe accadere in altre democrazie europee.