Indo-Pacifico: segnali contraddittori per USA e Cina

L’anno appena concluso ha offerto una serie di conferme per quanto riguarda il settore Indo-Pacifico: molte delle linee di tendenza evidenziatesi nei mesi precedenti si stanno rafforzando. Tra le principali conferme: la firma del Joint Vision Statement per il 2020 tra Usa e Thailandia; lo sgarbo di Donald Trump nei confronti del blocco ASEAN rappresentato dall’abbassamento del livello della delegazione americana inviata ai vertici “congiunti” della Organizzazione dei Paesi del Sud Est asiatico e dell’EAS (East Asian Summit); il referendum a Bougainville nel quale il 98% degli abitanti dell’isola si sono pronunciati per l’indipendenza da Papua Nuova Guinea; i decisivi passi avanti verso il varo della RCEP (Regional Comprehensive Economic Partnership) – che presumibilmente verrà ufficializzato entro i primi mesi del 2020 – e la parallela uscita dell’India dal sodalizio, che ne viene così notevolmente indebolito.

 

Riallineamento strategico

Su tutto aleggia l’unilaterale ritiro americano, il 2 agosto scorso, dal trattato INF con la Russia (a suo tempo Unione Sovietica) sui missili (nucleari a non) a breve e medio raggio. Si tratta di una mossa militarmente e politicamente rilevante – nonostante il trattato in sé avesse carattere bilaterale – dato che l’accordo, sottoscritto nel 1987, collegava il concetto di equilibrio militare tra le grandi potenze a quello della verificata eliminazione di un’intera classe di armamenti. Appare di conseguenza un implicito invito al riarmo, specialmente se messa in relazione con la costante crescita della capacità di proiezione “in acque profonde” della marina militare cinese; crescita salutata il 18 dicembre dalla cerimonia alla base di Sanya, isola di Hainan, presente lo stesso presidente Xi Jinping, con la quale Pechino ha “festeggiato” il raggiungimento della piena operatività della prima portaerei interamente costruita in Cina, la Shandong.

Trump ha motivato il suo rifiuto di rinnovare il trattato INF con le violazioni commesse dalla controparte, ovvero la Russia (peraltro confermate anche da molti osservatori indipendenti). Ma è convinzione generale che il motivo fosse ben altro e riguardasse appunto il quadrante Indo-Pacifico. L’INF infatti vincolava gli USA (oltre, teoricamente, alla Russia) ma non la Cina. Era logico che nel momento in cui, tramontata l’Unione Sovietica, il principale antagonista a livello globale degli USA diventava Pechino, l’INF evidenziasse agli occhi di Trump la sua obsolescenza, peraltro amplificata dal prevalere, su qualsiasi istanza isolazionista, della necessità di preservare l’ordine mondiale a trazione occidentale. Il paradosso però è che l’abbandono dell’INF potrebbe risultare del tutto inutile se non controproducente all’interno della strategia americana mirata sull’Indo-Pacifico.

Anziché stabilità potrebbe derivarne un aumento della tensione, pur in nome della deterrenza. La Cina, che già fatica ad accettare l’installazione a terra da parte americana di sistemi antimissile – come la passata durissima querelle sul sistema anti-missile THAAD con Seul ha dimostrato – avrebbe inoltre buon gioco nel sottolineare che i missili a media gittata americani (basati a terra) potrebbero colpire il suo territorio mentre le analoghe armi cinesi non possono colpire il territorio statunitense (con l’eccezione di Guam). Né Washington potrebbe mai colmare il gap numerico con la Cina per quanto riguarda tali armamenti se ci si limita a guardare l’Asia Orientale.

Il Segretario alla Difesa Mark Esper si è affrettato a dichiarare di essere intenzionato a dispiegare i missili a medio raggio nel Pacifico occidentale il più velocemente possibile, ma già due dei Paesi candidati a ospitarli, Corea del Sud e Australia, hanno fatto sapere di essere contrari; anche il Giappone sembra orientato al no. Pesa infatti il timore di irritare la Cina proprio in una fase in cui i tre fondamentali alleati degli USA sono impegnati a migliorare i rapporti con Pechino. D’altra parte non è chiaro cosa guadagnerebbero, in termini di sicurezza, gli USA creando in Asia delle basi a terra da cui colpire il territorio cinese. Di tale capacità, infatti, già dispongono attraverso i missili collocati su aerei e sottomarini. Accrescerebbero – è vero – l’ombrello difensivo regalato agli alleati, in primo luogo il Giappone, estendendolo dal nucleare al convenzionale. Ma lascerebbero aperto l’interrogativo di fondo circa la disponibilità di Washington a sferrare un contrattacco missilistico (col rischio di scatenare una guerra totale tra le due maggiori potenze mondiali) per proteggere un alleato.

 

La partita economica – e quella militare

Ciononostante gli USA conservano l’immagine di partner preferito dalla maggior parte dei Paesi della regione sul piano strategico, mentre l’avanzata cinese sembra irrefrenabile soprattutto sul piano economico. Pechino però potrebbe essere abile nell’approfittare delle occasioni che le si presentano (e che aiuta a presentarsi): caso tipico Bougainville, che potrebbe diventare, se accedesse all’indipendenza, una delle perle di una nuova collana di basi o punti di appoggio, disposta questa volta non lungo le coste asiatiche dell’Oceano Indiano, ma nel Pacifico occidentale, a cavallo dell’equatore.

L’isola di Bougainville, a poca distanza dall’Australia

 

Subito in effetti è scattato l’allarme, dato il precedente delle vicine Solomone e Vanuatu, piccole e povere come Bougainvillle e in più indipendenti, sulle quali i cinesi stanno cercando di mettere le mani. Il premier di Papua Nuova Guinea, James Marape, ha detto che il referendum ha solo un valore indicativo e che si avvierà una road map per venire incontro alle esigenze della popolazione. Ma il timore è che, se viene concesso troppo poco, riprenda vigore la sanguinosa guerra civile che ha imperversato dal 1989 al 2002 e che altre isole appartenenti a Papua Nuova Guinea marcino nella stessa direzione: il tutto sotto la spinta di Pechino, che ha interesse a indebolire l’ordine postcoloniale ora vigente. Lo ha ben capito il governo di Canberra e il primo ministro Scott Morrison è stato chiaro in proposito: “Questa è la nostra parte di mondo. Qui è dove abbiamo speciali responsabilità. Le abbiamo e le avremo sempre”.

Nella logica del consolidamento dei legami esistenti rientra anche il rinnovato e crescente interesse americano per un’alleanza, in primo luogo di carattere militare, con la Thailandia. Questa è uno dei cinque partner regionali legati a Washington da trattati formali: gli altri sono Giappone, Corea del Sud, Australia e Filippine. Negli anni ’50 la Thailandia fu inserita nella Southeast Asia Treaty Organization (SEATO). Durante la guerra del Vietnam svolse un fondamentale ruolo di supporto. Poi ha perso importanza per riacquistarla negli ultimi anni, malgrado il colpo di stato del 2014 abbia ritardato il compimento del processo sancito con la firma del Joint Vision Statement il 17 novembre. Il Paese del Sud-Est asiatico, rientrato a fare parte del ristretto gruppo dei maggiori alleati non-NATO, appare così chiamata a risucchiare verso gli USA l’ASEAN o quanto meno i membri dell’Associazione meglio preparati a resistere alle profferte cinesi.

 

Lo sgarbo di Trump e il fattore India 

Formalmente la Casa Bianca spera ancora di portare l’ASEAN in toto dalla sua parte. Tanto è vero che ha convocato per i prossimi mesi in terra americana un super-vertice USA-ASEAN, ma evidentemente ha sottovalutato le conseguenze dell’avere snobbato ai primi di novembre i vertici dell’ASEAN e dell’EAS. Per Trump era solo una conferma della sua idiosincrasia per ogni forma di multilateralismo, ma nella realtà si è trattato di un regalo fatto alla Cina, che si è ancora una volta accreditata come partner non solo generoso e affidabile, ma anche rispettoso. La decisione americana di mandare una delegazione guidata solo dal Consigliere per la Sicurezza Nazionale Robert O’Brien ha irritato molti governanti asiatici e ha eretto un muro di frustrazioni e sfiducia, tanto più alto in quanto contemporaneamente venivano sciolti molti dei nodi che ancora impedivano un’intesa sulla nascita del RCEP.

In sostanza – a sette anni dal lancio dell’iniziativa – si è a un passo dalla nascita di un’enorme area di libero scambio prefigurata dalla Cina per soddisfare le sue esigenze strategiche non solo in termini di accrescimento della propria presenza ma anche di affermazione dei principi che secondo Pechino devono informare la cooperazione internazionale: nella fattispecie si è puntato sull’abolizione delle tariffe doganali trascurando altri temi come servizi e investimenti. L’approccio è forse vecchio ma realistico; infatti è stato accettato anche da Paesi come Nuova Zelanda, Corea del Sud e soprattutto Australia e Giappone, che pure fanno parte dello schieramento filoamericano esplicitamente orientato a “contenere” la crescita del peso cinese nella regione.

Autoesclusosi dal TPP nel 2017, ora messo di fronte al fatto (quasi) compiuto del RCEP, Trump può consolarsi con la fuoriuscita dal RCEP dell’India che, così facendo, ha depauperato la erigenda area di libero scambio di un mercato di oltre un miliardo di persone e di molti suoi sottintesi strategici. L’India insomma ha confermato di svolgere un crescente ruolo per gli USA. E’ membro del Quad, il gruppo informale che va sempre più amalgamandosi sul piano militare e di cui fanno parte anche USA, Giappone e Australia. Contribuisce, inoltre, a dare consistenza al progetto caro alla Casa Bianca di alleanze agili, informali ma solide, il cui prototipo potrebbe essere quella che unisce New Delhi a Tokyo e che il 2 dicembre ha portato al primo “incontro due più due” (ministri esteri e difesa), base del coordinamento politico militare: una “quasi alleanza”, la chiamano i giapponesi, simile a quella del Sol Levante con Australia e Gran Bretagna.

 

 

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