Dalla prima grande manifestazione indipendentista dell’11 settembre del 2012, che si apriva con lo striscione “Catalogna, nuovo stato d’Europa”, ben poco sembra essere cambiato nella ricca regione nord-orientale della Spagna (19% del pil, 7,5 milioni di abitanti). La situazione continua ad essere di impasse, nonostante la vera e propria pioggia di appuntamenti elettorali caduta negli ultimi anni: per quanto riguarda la Catalogna, due elezioni regionali (novembre 2012 e settembre 2015) e un referendum non ufficiale sull’indipendenza, chiamato “processo partecipativo”, ma di fatto un “macro-sondaggio” (9 novembre 2014). Ma anche, ed è bene ricordarlo, le due elezioni generali spagnole (dicembre 2015 e giugno 2016) e le amministrative del maggio 2015) che hanno cambiato per la prima volta il panorama politico di tutto il Paese, fin lì regolato dai meccanismi della transizione alla democrazia avviata a metà degli anni ‘70. La fine del bipartitismo tra i popolari del PP e i socialisti del PSOE con l’affermazione dei nuovi partiti Podemos e Ciudadanos, la vittoria di liste civiche nate dal basso in grandi città come Madrid e Barcellona e, prima, l’abdicazione del re Juan Carlos nel giugno 2014, hanno segnato il cambio di epoca.
Il prossimo 1° ottobre potrebbe essere – il condizionale è d’obbligo – il momento che segna la fine di questa lunga fase della politica catalana, conosciuta come procés sobiranista (“processo sovranista”). Lo scorso 9 giugno, il governo regionale, retto da una coalizione di partiti indipendentisti, ha convocato per quella data un “referendum unilaterale di autodeterminazione”, di cui però ben poco si sa, oltre alla domanda che verrà posta ai catalani – “Vuole che la Catalogna sia uno stato indipendente in forma di repubblica? – e al fatto che, nel caso di vittoria del “sì”, si proclamerebbe immediatamente la “Repubblica catalana”. Il Governo spagnolo, guidato dal conservatore Mariano Rajoy, appoggiato in questo dal PSOE e Ciudadanos, considera illegale il referendum e ha ribadito che userà tutti i mezzi necessari che gli fornisce la Costituzione e lo stato di diritto per impedirlo, iniziando dagli interventi del Tribunale Costituzionale che comporterebbero l’inabilitazione dei membri del governo regionale.
Tra fine agosto e metà settembre il governo catalano prevede l’approvazione di una Legge del Referendum, presentata lo scorso 4 luglio, e di una Legge di Transitorietà Giuridica, chiamata di “disconnessione” (dallo Stato spagnolo). Secondo questi provvedimenti, non ci sarà bisogno né di una soglia di maggioranza nel voto né di una percentuale di partecipazione elettorale minima per proclamare l’indipendenza in caso di vittoria del Sì. Per permetterne la votazione rapida senza che le opposizioni ne conoscano previamente il testo e possano presentare emendamenti, la maggioranza indipendentista ha modificato il regolamento del Parlamento di Barcellona.
Ma, al di là delle continue dichiarazioni del governo regionale catalano, manca qualunque tipo di garanzia per una celebrazione regolare del referendum, a cominciare da quelle per i funzionari pubblici che potrebbero venire sospesi o multati dal governo spagnolo nel caso in cui collaborassero alla sua realizzazione. Inoltre, nessuna delle condizioni della Commissione di Venezia, l’organo consultivo del Consiglio d’Europa che si occupa delle questioni relative alla democrazia e al diritto, sarà rispettata: tanto riguardo all’osservanza della costituzione del paese di appartenenza – la Costituzione spagnola non contempla un referendum di autodeterminazione di un suo territorio – quanto riguardo al calendario – il referendum dovrebbe essere convocato con un anno di anticipo – o all’imparzialità delle istituzioni.
È praticamente impossibile che l’Unione Europea consideri valido il referendum, qualora si celebri, ma anche che intervenga nel contenzioso, come molti indipendentisti sembrano credere. Bruxelles ha fatto sapere che giudica gli eventi in corso “una questione interna del Regno di Spagna”.
Il 1° ottobre, dunque, è probabile che tutto si riduca a un nuovo “macro-sondaggio” – come quello del 9 novembre del 2014 –, nel caso si aprano i collegi e ci siano delle urne. Oppure, potrebbe tenersi una nuova, grande manifestazione, nello stile di quelle che nell’ultimo lustro hanno invaso le strade di Barcellona.
Perché tanta fretta allora, se il referendum non ha speranze di essere considerato valido? L’accelerazione del governo catalano si deve essenzialmente a due ragioni. In primo luogo, all’assenza di un dialogo serio con il governo di Madrid, che dal 2012 si trincera nella posizione giuridico-amministrativa e costituzionale che nega la possibilità del referendum e dell’indipendenza, senza però fare nessuna offerta politica ai catalani (chiaramente insoddisfatti del loro rapporto con lo stato spagnolo). Sul piatto si potrebbe porre una riforma della Costituzione, una maggiore autonomia regionale, un nuovo sistema di finanziamento alla regione, ecc. Il partito di Mariano Rajoy si mostra restio a qualsiasi concessione anche perché il muro contro muro contro i catalani porta voti al PP nel resto della Spagna.
In secondo luogo, l’accelerazione si deve al cul de sac in cui si trova l’esecutivo regionale guidato da Carles Puigdemont, formato da una “grande coalizione patriottica”, Junts pel Sí (JxS). Il raggruppamento trasversale riunisce la destra del Partit Demòcrata Europeu Catalá (PDeCAT) e il centro-sinistra di Esquerra Republicana de Catalunya (ERC) ed è appoggiato da un partito anticapitalista, la Candidatura d’Unitat Popular (CUP). JxS vinse le “elezioni plebiscitarie” regionali del settembre 2015 – quando, chiedendo il voto in nome della disconnessione dalla Spagna, ottenne una maggioranza in seggi, ma non in voti (47,8%). Junts pel Sí aveva promesso “l’indipendenza in 18 mesi” (periodo già concluso), e pur non avendo parlato di referendum in campagna elettorale, ha tirato in gioco la questione nel settembre dello scorso anno.
L’obbiettivo dell’accelerazione è dunque duplice. Da un lato bisogna dimostrare ai militanti indipendentisti – i quali manifestano una certa stanchezza dopo cinque anni di continue mobilitazioni – che si fa sul serio. L’idea è quella di superare almeno il tasso di partecipazione del referendum del 9 novembre 2014 (2,3 milioni di partecipanti, di cui 1,8 milioni, pari a meno del 30% degli aventi diritto al voto, votò a favore dell’indipendenza). Dall’altro, si vuole provocare una reazione dura del governo spagnolo – come la sospensione dell’autonomia regionale, prevista dall’art. 155 della Costituzione – nella speranza di internazionalizzare la causa catalana e di ampliare il fronte interno degli indipendentisti. In effetti, se la consultazione si trasformasse in una specie di momento di protesta contro l’immobilismo del PP a Madrid, i partecipanti potrebbero essere addirittura di più che se si votasse davvero per l’indipendenza.
Puntare sul tot o res (“tutto o niente”), e prolungare infinitamente il procés sobiranista, presentando l’indipendenza come la panacea di tutti i mali, serve poi al governo catalano per evitare di fare i conti con una società che è stata colpita duramente dalla crisi economica e che ha sofferto le politiche di austerità applicate con zelo non solo dal PP, ma anche dalla formazione di Puigdemont, che governa la regione dal 2010.
La società catalana, per di più, sembra molto più eterogenea e stratificata di quel che credono i partiti al governo, sia a Barcellona che a Madrid. Secondo un recente sondaggio, infatti, il 71% dei catalani sarebbe favorevole a un referendum, ma di questi solo il 37,8% difende la via unilaterale: la grande maggioranza appoggia un referendum concordato con lo Stato – posizione difesa da Podemos e dalle sue confluenze, con la sindaca di Barcellona Ada Colau in testa. Ma il sondaggio, che conferma precedenti inchieste, dice di più: solo il 26% dei catalani considera l’indipendenza come la migliore soluzione (e solo l’11,9% crede che si otterrà), mentre il 36,8% preferisce una riforma della Costituzione e un 20,6% un’interpretazione diversa del dettato costituzionale che permetta un sistema finanziario-fiscale più vantaggioso per la Catalogna.
Ciò non toglie che l’indipendentismo si è trasformato in un fenomeno di cui non si potrà non tenere conto nel futuro: era assolutamente minoritario fino a dieci anni fa quando interessava il 10-15% della popolazione ma ha ora un peso rilevante (attorno al 40-45%) soprattutto nella Catalogna interiore, in buona parte della classe media e tra i giovani. Succeda quel che succeda a inizio ottobre, si concluda o continui sotto nuove spoglie il procés sobiranista, la rivendicazione indipendentista catalana non scomparirà. Continuerà a segnare la politica catalana anche se questa entrasse in una nuova fase, e continuerà ad essere fondamentale per la politica spagnola nel suo insieme.