Pur accettando i tempi rapidi che caratterizzano il dibattito pubblico rispetto all’ascesa e al declino di qualsivoglia tema, soprattutto quelli internazionali, la questione della fornitura di carri armati pesanti all’esercito ucraino merita un approfondimento. La chiave interpretativa alla quale si intende ricorrere è di carattere sostantivo. Se da un lato, sul piano del diritto, non vi sono dubbi su chi sia l’aggressore; dall’altro, un’analisi legata a considerazioni di potere e interesse, anche nel caso di questo argomento, offrirà una gamma di sfaccettature ampia e, soprattutto, adattiva rispetto all’evoluzione della guerra stessa.
Riguardo la necessità di esaminare più a fondo il tema delle forniture militari, le ragioni sottostanti questa considerazione, in sintesi, si possono raggruppare in tre insiemi: i) militari o più propriamente strategiche, nel senso dell’applicazione dell’uso della forza agli scopi della politica; ii) diplomatiche, concernenti cioè la caratterizzazione che tale scelta può imprimere alle relazioni tra l’Occidente, in particolare l’Europa, e la Russia per il tramite dell’Ucraina; e infine iii) simboliche, nella fattispecie in rapporto alla rappresentazione e al potere evocativo del conflitto stesso.
Sul piano militare, una prima riflessione riguarda il fatto che il ricorso alla guerra corazzata, in particolare l’idea che i carri armati possano rivelarsi decisivi, rappresenterebbe un anacronismo rispetto al corso che la dottrina strategica occidentale ha assunto a partire dagli anni Settanta. Poiché Putin è un uomo del passato e la sua strategia anche – come è stato spesso notato – varrà la pena domandarsi se sfidarlo sul suo stesso terreno abbia senso. Insomma, saranno le forze corazzate a consentire all’Ucraina di vincere la guerra? Inoltre, la decisione di inviare quelle forniture riflette appieno gli obiettivi dell’Occidente, che è un attore terzo, non direttamente coinvolto nelle ostilità?
Guerra tecnologica e convenzionale: la relazione tra mezzi e fini
Dopo le eroiche battaglie della Seconda guerra mondiale culminate nello scontro di Kursk (circa 600 km a Sud di Mosca) – tuttora la più imponente battaglia di carri della storia – la popolarità di questo strumento era iniziata a declinare. Complici gli sviluppi del potere aereo e le armi nucleari, l’efficacia offensiva delle forze corazzate inizierà a essere riconsiderata. Le prime perplessità sarebbero sorte già negli anni Cinquanta agli esordi del conflitto indocinese. Nel corso della guerra arabo-israeliana del 1967, allorché i carri israeliani penetreranno così in profondità nel territorio egiziano da rischiare un fatale sbilanciamento offensivo, quelle perplessità muteranno in scetticismo. Sarà tuttavia in seguito alla guerra dello Yom Kippur, nel 1973, che l’impiego massivo delle forze corazzate sarà bollato come non decisivo ed eccessivamente costoso, soprattutto da parte di USA e URSS che, pur riluttanti, avevano fornito un gran numero di mezzi ai rispettivi partner, senza tuttavia essere riusciti a esercitare un controllo significativo sulle loro strategie.
Sorprende, quindi, che dopo aver scommesso per oltre trent’anni sulla guerra tecnologica, nelle sue diverse declinazioni ed etichette, l’Occidente sembri assecondare la richiesta della leadership di Kiev di dotarla di mezzi convenzionali la cui efficacia sul piano militare è dubbia, che movimentare verso il teatro delle operazioni è affatto semplice e che, sul piano operativo, si omologherebbe alla tattica di Mosca – la quale non solo padroneggia l’impiego delle forze corazzate, ma ne dispone in gran quantità. È davvero una scelta azzeccata, mi domando, scontrarsi con la Russia su un terreno e con tecniche che le sono favorevoli? I precetti della strategia suggerirebbero di no, soprattutto in presenza di possibili alternative.
Pur senza venire meno all’impegno preso nei confronti di Kiev, una considerazione pragmaticamente ponderata in merito al rapporto tra vantaggi militari e possibili svantaggi politici associati alla scelta di dotare le forze ucraine di carri armati è mancata. Rovesciare il paradigma strategico occidentale e le modalità con le quali l’Occidente aveva deciso di alimentare la difesa di Kiev potranno forse rivelarsi la scelte migliori. La decisione di soddisfare le richieste del governo ucraino, però, avrebbe dovuto trovare un chiaro ancoraggio sul piano del vantaggio strategico – un fatto né scontato né così evidente.
Benché quella ucraina sia una guerra difensiva, l’obiettivo di Kiev parrebbe quello di riconquistare i territori perduti, che tecnicamente corrisponderebbe a una controffensiva. Prima di stabilire che i carri rappresentassero un mezzo indispensabile, andava quindi chiarito se e sino a che punto l’Occidente – perché le posizioni al suo interno sono al minimo variegate – sarà disposto a sostenere quel disegno. In casi come questo, la coerenza della relazione mezzi-fini è cruciale, del resto. Diversamente, infatti, si rischierebbe di dare origine uno stallo, anziché, parafrasando Machiavelli, fare della ‘spada’ uno strumento in grado di dare consistenza alla diplomazia. Se quello fosse lo scenario, la notoria resilienza di Mosca ne trarrebbe vantaggio: l’Ucraina diventerebbe l’ennesimo “conflitto congelato”.
Il senso politico dell’invio di carri pesanti
Relativamente alla dimensione politica, in particolare, la decisione di inviare non genericamente carri armati, ma un certo tipo di carri armati – quelli pesanti – assume poi un particolare significato. Dotare un alleato di carri di quel genere implicherebbe formazione, assistenza e più in generale livelli di integrazione con le pratiche e gli strumenti occidentali ben più profonde di quelle attuali – sistemiche, direi. Schierare carri pesanti, benché in numero ridotto, garantirà a Mosca la possibilità di alimentare la narrativa dell’accerchiamento da parte della NATO. E poiché il tema dell’integrazione dell’Ucraina nelle strutture di sicurezza, politiche ed economiche occidentali non è ancora stato chiaramente delineato – e la cautela sinora non è mancata – limitare al minimo l’offerta di alibi a “basso costo” consisterebbe di per sé in un metodo per non avvantaggiare Mosca. È vero che la Russia ha aggredito e ad alcuni potrebbe apparire ridicola questa sottigliezza, ma poiché – secondo questa analisi – i carri non sono né saranno risolutivi rispetto alle sorti del conflitto, nella battaglia che si combatte sui fronti interni, minimizzare le circostanze in cui Putin sarà in grado di ‘vendersi’ come vittima aiuterà sia Kiev sia l’Occidente nella sua azione di sostegno. In tal senso, il caso dei carri potrebbe costituire un’occasione persa.
Ricorrere ai carri pesanti non migliorerà le capacità ucraine di neutralizzare i tank russi. Di contro, renderà più complessi i rapporti con i Paesi occidentali – soprattutto con quelli la cui opinione pubblica non è così coesa, a causa dei costi di quei sistemi d’arma – e imporrà agli ucraini livelli di efficienza tecnica che potrebbero anche non raggiungere nei tempi necessari a sfruttare sul campo i vantaggi potenziali associati all’uso di quei dispositivi. Per colpire con altrettanta efficacia, minori costi e, soprattutto, con tempi di preparazione del personale incomparabilmente più brevi, i cannoni montati sui veicoli corazzati AMX 10 offerti da Parigi, infatti, sarebbero stati comunque adeguati.
Leggi anche: Come l’Ucraina cambia la Germania
La questione di fondo riguarda il messaggio politico che sottende la fornitura di carri, non meno che il trasferimento di know-how necessario a gestirli. Se l’obiettivo è quello di utilizzarli per avviare una trasformazione nelle forze armate di Kiev, allora la scelta assumerà un valore primariamente politico ancorché militarmente non sia migliore di altre. Di contro, se lo scopo primario fosse quello militare, colpire duramente nella maniera meno plateale possibile, probabilmente, sarebbe stata la condotta più efficace con una controparte ossessionata dall’idea di non essere trattata da grande potenza. Infine, andrebbe chiarito se dietro la richiesta di Kiev ci fossero motivazioni altre rispetto all’efficacia sul campo di battaglia. Intuitivamente direi di sì. In quel caso, alcuni dilemmi tipici delle alleanze non andrebbero sottostimati.
Il nodo dei rapporti con l’Ucraina
Sinora le potenze occidentali hanno sostenuto Kiev in modo variegato, ciascuna rispondendo in primo luogo a incentivi nazionali, spesso di carattere elettorale come nei casi italiano e tedesco, oppure di tipo identitario, come in quello polacco. A dispetto di tali differenze, tuttavia, tutti gli Stati che hanno deciso di schierarsi dalla parte di Kiev si sono confrontati con uno dei più caratteristici fenomeni delle relazioni con gli attori che possiamo definire “secondari”: il tentativo da parte dell’Ucraina di mettere in atto comportamenti che li trascinino sempre più dentro il conflitto, rispondendo dal canto loro con delle strategie volte a contenere l’esuberanza del partner. In tal senso, la vicenda delle forniture dei Leopard II, parrebbe perfettamente ascrivibile a tale casistica, con un fattore addizionale che, a mio parere, merita di essere preso in considerazione.
Se da un lato, la fornitura in questione ha un valore militare sostantivo – benché affatto determinante – il suo impatto più significativo riguarda l’integrazione tra forze armate e, conseguentemente, le sue implicazioni sul carattere del conflitto. Diversamente dai sistemi di ricognizione e altri sistemi d’arma trasportabili o collocati in territorio ucraino, la fornitura di carri armati ha una valenza strutturale rispetto all’organizzazione delle forze armate ucraine. In particolare, in ragione dei loro costi, del tempo necessario a formare un equipaggio e della relazione che, come effetto dei primi, si determinerà tra il Paese fornitore e il destinatario, essi potrebbero costituire il primo vero elemento di integrazione delle forze armate di Kiev nel dispositivo militare Occidentale. Insomma, di fronte alle aperture misurate di NATO e UE rispetto a una possibile futura integrazione dell’Ucraina nelle rispettive strutture, la richiesta di carri armati pare un metodo piuttosto efficace per giungere surrettiziamente allo stesso esito.
Ci sarebbe da domandarsi però a chi gioverà la cosa in questa fase. L’Europa, infatti, tuttora arranca sul piano dell’organizzazione della propria industria della difesa e della propria identità in materia di uso della forza. Mentre Kiev, benché abbia compiuto un miracolo nel resistere, dispone di forze armate comunque ancora molto acerbe. Gli Stati Uniti, di contro, mordono il freno, è noto, per una maggiore coesione e proattività da parte dei partner continentali. Forzare i tempi, tuttavia, potrebbe trasformarsi in un autogol. Uno stallo, qualunque esso sia, favorirà Mosca.
Leggi anche: L’Occidente e l’Ucraina: perché il fronte euro-americano tiene, seppure tra dubbi e voci dissonanti
Parafrasando un celebre spot di un noto brand di diamanti, anche un carro armato pesante è per sempre. Non si tratta di un sistema d’arma che si può fare giungere sul teatro delle operazioni per vie traverse, attraverso un passaggio presso Stati terzi e, indubbiamente, esprime una ‘muscolarità’ che nella psicologia del conflitto merita di essere tenuta in considerazione. Nella scelta di ricorrere in maniera massiccia a questo tipo di forze ho ravvisato nelle intenzioni di Mosca quella di ribadire – se mai ce ne fosse stato bisogno – allo ‘Stato ribelle’ la propria stazza da peso massimo della politica internazionale. Tuttavia, se la leadership russa fosse effettivamente affetta da un tale complesso di inferiorità, perché confrontarsi sul medesimo piano alimentando l’impressione presso quegli stessi decisori di volersi cimentare in una sorta di pose-down in stile Mister Olympia? Ne deriverebbe un qualche effetto strategico positivo? Credo nessuno.
Un leader come Putin è costretto per la struttura stessa del suo comando a ostentare la propria forza, a ribadire, con modalità quasi liturgiche, la matrice alfa del suo potere. Una strategia efficace, dunque, mirerà a disinnescare questo circolo vizioso – non ad alimentarlo. L’integrazione strutturale tra forze armate ucraine ed occidentali è prematura e qualora si verificasse una volta terminate le ostilità, credo, ne trarrà beneficio. Entrambe le parti negozierebbero le condizioni di quell’accordo in maniera più libera e senza le interferenze generate dal conflitto con Mosca.
In questa fase, quindi, avrebbe avuto forse più senso indirizzare Kiev verso qualcosa del tipo ‘fluttua come una farfalla e pungi come un’ape’ – citando il grande Muhammad Ali – senza concedere a Mosca il vantaggio del terreno. Con i carri armati non è andata così. La partita è lunga e complessa, tuttavia, e le occasioni per esaminare la decisioni descritte in queste pagine sulla scorta di nuovi e ulteriori dati forniti dal campo di battaglia non mancheranno.