Da “allievo modello” a capofila dell’euroscetticismo. Le relazioni dell’Ungheria con l’UE, e l’atteggiamento del paese verso la limitazione di sovranità rappresentata dall’appartenenza europea, sono radicalmente cambiati nel corso degli ultimi vent’anni. Si tratta di una trasformazione che, con diverse intensità, ha riguardato anche altri paesi dell’Europa centro-orientale.
“Noi non crediamo nell’Unione Europea ma nell’Ungheria, e consideriamo l’UE da un punto di vista secondo cui, se facciamo bene il nostro lavoro, allora ciò in cui crediamo, l’Ungheria, avrà il suo tornaconto”, dichiarava il premier Viktor Orbán durante la presidenza di turno dell’Unione, nel primo semestre del 2011. Eppure, durante il periodo precedente all’adesione (1993-2004), l’Ungheria si era distinta per la velocità del consolidamento democratico e l’entusiasmo nell’adottare molte delle riforme richieste dall’UE.
Il Consiglio Europeo di Copenaghen, nel giugno 1993, aveva stabilito che i paesi coinvolti nell’allargamento a Est dell’Unione avrebbero dovuto assicurare la stabilità democratica, lo stato di diritto, la protezione delle minoranze e rapporti di buon vicinato con gli stati confinanti. In seguito (1999), la Commissione assegnò a ogni paese candidato un dossier contenente in dettaglio le riforme da adottare, come precondizione per il buon esito dei negoziati.
Il nazionalismo è tornato ad essere, molto presto, una delle correnti politiche principali della nuova democrazia magiara. Il primo capo di governo eletto dopo libere elezioni, Jószef Antall, si presentò come il premier “nello spirito” di quindici milioni di ungheresi, includendo nel conteggio le minoranze presenti in Slovacchia, Romania e Serbia. Subito dopo, iniziò una incessante attività diplomatica allo scopo di far riconoscere queste minoranze come titolari di diritti collettivi (non solo individuali). L’Ungheria, al momento di stipulare trattati con i vicini, dovette accettare di abbandonare questa pretesa, e ogni rivendicazione sui territori abitati da ungheresi, perchè l’UE fece capire che il riconoscimento dei diritti collettivi avrebbe potuto portare al mutamento dei confini esistenti e alla rottura delle relazioni di buon vicinato: inammissibile, nell’ottica dell’ingresso nell’Unione.
Nonostante questa sofferta concessione, i governi Horn (1995-98), Orbán I (1998-2002) e Medgyessy (2002-04) attuarono a tempo di record gran parte del programma richiesto dalla Commissione – da qui il titolo di “allievo modello”. Il consenso nei confronti dell’Unione Europea era condiviso da circa i due terzi della popolazione; la società civile, tra le più organizzate dell’Europa centro-orientale, manteneva forti legami culturali con Bruxelles, potendo anche contare su un ampio ventaglio di programmi di sostegno finanziario, e si occupava efficacemente di propiziare e sorvegliare l’adeguamento legislativo.
Gli anni dal 2005 in poi indicano un’evoluzione di segno opposto. A precipitare la svolta è stata una congiuntura economica negativa e la scoperta, attraverso la diffusione audio di una riunione del partito socialista, che il premier Gyurcsány aveva deliberatamente nascosto al paese l’entità esatta della crisi. Ciò ha innescato nell’opinione pubblica una crisi di sfiducia che ha investito in pieno il rapporto degli ungheresi con l’Unione Europea – a cominciare dalla percezione di una mancata convenienza economica – facendo scendere il tasso dei soddisfatti dell’appartenenza all’UE intorno al 30%. Le elezioni dell’aprile 2010, che hanno dato ai nazionalisti del FIDESZ (Unione Civica Ungherese) di Orbán una schiacciante maggioranza, hanno sancito l’istituzionalizzazione di questo stato d’animo.
L’Ungheria è subito tornata a scontrarsi con Bruxelles: durante il semestre di presidenza europea, Orbán si è visto contestare il progetto di legge sull’informazione, che permette al governo di condizionare i media. Le proteste europee – se una legge del genere fosse entrata in vigore negli anni ’90 l’Ungheria non sarebbe stata accettata come membro dell’UE – e dei governi tedesco e francese hanno convinto il premier a rinviarne l’approvazione. Ma la legge è entrata comunque in vigore un mese dopo la fine della presidenza di turno.
Il secondo governo Orbán ha poi affrontato senza mezze misure le questioni più delicate, sulla base di un concetto di sovranità ritenuto ormai esclusivamente nazionale: una nuova legge ha esteso la cittadinanza a tutte le minoranze ungheresi presenti nei paesi vicini, riaprendo un duro confronto col governo slovacco; in più, i negoziati col FMI e l’Unione Europea sul programma di riforme da adottare in cambio di aiuti anti-crisi sono stati chiusi bruscamente: alla conseguente perdita dei crediti pregressi si è risposto con l’avvio di un programma di nazionalizzazioni.
I fattori alla base di questo cambiamento sono molteplici. Per la maggioranza dei paesi dell’Europa centro-orientale, la democratizzazione post 1989 ha coinciso con un processo di europeizzazione: il ritorno all’Europa ha significato insieme costruire uno stato democratico e ricucire la frattura cinquantennale con le nazioni dell’Ovest, naturalmente a cominciare dall’istituzione continentale per eccellenza, l’UE. Assecondare questo umore è stato un compito che i nuovi governi democratici hanno assolto volentieri: l’appartenenza all’Unione Europea sembrava garantire dei vantaggi materiali e politici che valevano qualunque rinuncia.
Una volta concluso il grande allargamento (2004-2007) i termini dell’equazione sono però saltati: da un lato è scomparso il meccanismo di sanzione che convinceva i governi ad adattarsi all’agenda di Bruxelles, pena l’esclusione dai negoziati (e che premiava i partiti che spingevano in quella direzione); dall’altro le stesse istituzioni europee si sono indebolite, perdendo prestigio e credibilità: il discorso euroscettico o nazionalista ha trovato spazio crescente nelle forze politiche dei nuovi membri (come dimostra chiaramente l’evoluzione del FIDESZ di Orbán), e l’opinione pubblica ha perso la sua identità di vedute sull’UE. In particolare, gli effetti della crisi economica hanno scavato una frattura di censo e di età nella considerazione delle istituzioni europee: i più benestanti e i più giovani sono eurottimisti, diversamente da adulti, anziani, operai, disoccupati e casalinghe.
Tra i paesi in cui queste tendenze sono più nette, oltre all’Ungheria, si trovano la Repubblica Ceca e la Croazia (curiosamente, un tempo unite nell’impero Austro-ungarico). In Repubblica Ceca, il partito di centro-destra al potere dal 2006 è apertamente contrario a una maggiore integrazione europea; (peraltro, lo stesso accadeva in Polonia prima che il PiS dei gemelli Kaczyński perdesse governo e presidenza della Repubblica). Il dato croato è sorprendente, trattandosi di un paese ancora in fase negoziale per il suo ingresso nell’UE ed essendo le principali forze politiche almeno formalmente europeiste. Gli altri paesi candidati, come Montenegro e Macedonia, fanno registrare un tasso di favorevoli dell’80%.
Questo quadro complessivo conferma l’esistenza, tra i paesi di recente adesione, di una frattura anche a livello politico-partitico rispetto alla cessione di sovranità. Le forze conservatrici, appartenenti al Partito Popolare Europeo o situate alla sua destra, sono più libere rispetto a quelle socialiste, liberali o verdi di ispirare o spalleggiare le tendenze eurofobe dell’elettorato. I partiti che compongono il PPE infatti spesso governano con formazioni nazionaliste che condividono le stesse tendenze, e non sono in grado di sanzionarle in Parlamento a Bruxelles per motivi di equilibrio politico.
Proprio il funzionamento intermittente, quando non controproducente, delle istituzioni europee negli ultimi anni, e la percezione di un irrisolto deficit democratico che ne delegittima le decisioni, hanno provocato frustrazione e senso di ingiustizia in chi si è trovato a subirne le conseguenze da una posizione di debolezza. Un sentimento che rinvigorisce tendenze nazionaliste e isolazioniste chiaramente antitetiche ai principi dell’UE.
Queste tendenze politiche in Europa centro-orientale rendono ancora più urgente che le istituzioni di Bruxelles sappiano rappresentare un’idea dinamica di sovranità: una sovranità a cui non si rinuncia, ma che si condivide per affrontare da una posizione più forte problemi ormai di dimensione globale.