Il tema della difesa europea non è l’esercizio di stile su cui si giocano le capacità retoriche di politici o commentatori interessati a rinfacciarsi chi per primo ha detto che l’Ucraina sarebbe stata invasa, o per quale motivo vanno sostenute le rivendicazioni di Mosca o invece quelle di Kiev. Ci siamo lamentati negli ultimi anni perché gli Stati Uniti ci hanno messo sull’attenti di fronte alle loro posizioni e convenienze internazionali: ma il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca cambia brutalmente lo scenario. Ora l’Europa viene considerata da Washington quasi una terra di rapina, da cui sottrarre territori o risorse, popolata da “parassiti” da rimbeccare, e verso cui rivolgersi con disprezzo e indifferenza: sembra perciò ragionevole pensare che gli USA abbiano accantonato l’idea che tenere con sé l’Europa faccia parte dei propri interessi. E’ per questo che il problema della vulnerabilità del nostro continente si pone in maniera inevitabile e in termini enormi: in questo momento non c’è niente e nessuno che impedirebbe ai membri della UE di subire un’aggressione.
La nuova relazione con Washington
Sotto sotto si continuano a considerare poco serie le rivendicazioni di Donald Trump sulla Groenlandia. Il presidente degli Stati Uniti ha ribadito ormai decine di volte che “otterrà” quello che oggi è un territorio autonomo della Danimarca “in un modo o nell’altro”. Scherza? Ce lo possiamo chiedere mentre il Vicepresidente JD Vance e consigliere per la Sicurezza nazionale Mike Waltz visitano la base militare-spaziale di Pituffik, nel remoto settentrione dell’isola (si chiamava Thule fino a poco fa), tra i ghiacci e gli iceberg. E peccato che sia stata cancellata la loro assistenza al campionato nazionale di cani da slitta, “sport che da sempre li appassiona”, aveva specificato la Casa Bianca, per paura di contestazioni, dopo le proteste ufficiali groenlandesi e danesi.
L’Ultima Thule esce così dalle nebbie del mito per entrare nel territorio della cruda realrà: proprio da lì, dal suo fianco nord-ovest, dovrebbe cominciare l’Europa a enumerare i suoi punti deboli. Pituffik è gestita dagli Stati Uniti nel quadro della NATO e in cooperazione con la Danimarca – sulla base sventola anche la bandiera rossa con la croce bianca – e ospita i sistemi che si occupano di sorvegliare i missili nucleari russi puntati verso il Nord Atlantico e l’Europa, piazzati sulla penisola di Kola. Cosa succederebbe se i danesi fossero estromessi dalla base? “Ci serve”, dice Trump. Sì, ma a cosa che non possono fare già adesso? Se gli Stati Uniti annettessero la Groenlandia, condividerebbero le informazioni di sicurezza nucleare con i “parassiti” che tanto detestano?
Trump, Putin, Netanyahu
Sotto i riflettori però, come sappiamo bene, prima dell’Artico c’è l’Est. Resta più che legittimo pensare che la Russia sia stata trascinata dall’Occidente nell’invasione dell’Ucraina – avendo svolto operazioni militari di rilievo negli anni precedenti in maniera evidentemente casuale in Cecenia, Georgia, Siria e Libia, avendo inviato le proprie forze militari a reprimere rivolte popolari contro i regimi amici di Mosca in Kazakistan e Bielorussia, avendo consentito all’esercito dell’Azerbaijan di evacuare gli armeni dal Nagorno-Karabakh nonostante la presenza di un suo contingente di “pace”, avendo sparpagliato in decine di Paesi africani i propri mercenari. E possiamo anche soprassedere sull’esperienza storica che mostra come la Russia tenda a trattare i piccoli Stati e i popoli vicini come pedine da spendere in un gioco diplomatico in cui Mosca si ritiene alla pari soltanto con le “grandi potenze”: i casi sono innumerevoli, ma basti osservare al riguardo le trattative sul futuro dell’Ucraina, condotte in assenza… dell’Ucraina.
Soprassediamo pure. Resta però davanti a queste opinioni la presenza di un fatto ormai persino ammesso quasi apertamente: la reciproca convenienza che sembra esservi tra Donald Trump e Vladimir Putin nel ridurre l’Europa a un bottino da spartire. Nel chiedersi perché Trump ceda a tutte le richieste negoziali di Putin (l’annessione delle quattro province parzialmente occupate, la garanzia che l’Ucraina non entrerà nella UE e nella NATO, che sarà senza difesa, senza flotta, senza industria, senza energia, che il prossimo presidente sarà gradito al Cremlino, che la Russia avrà libertà di manovra fino a Odessa e alla Transnistria…) una delle risposte potrebbe senz’altro essere che in cambio, in futuro, la Russia coadiuverà eventuali manovre americane per ricattare, dividere, piegare al proprio volere l’Europa. Come con le figurine: “Ucraina a me, Groenlandia a te…”
Perché ciò accada, l’Europa dev’essere debole e divisa in Stati che si avversano – prima dell’invasione del 2022 era abbastanza chiaro il sostegno di Vladimir Putin ai partiti politici europei che promuovevano un po’ ovunque il ritorno al nazionalismo delle piccole patrie. Oggi sono Trump, Musk e Vance a farlo, per lo stesso motivo, e alla luce del sole. Il modello europeo di pluralismo politico e inclusione sociale – già indebolito in maniera davvero miope dall’interno della stessa Europa – dev’essere smantellato perché non costituisca più un’alternativa al modello sempre più dispotico e diseguale di Russia e Stati Uniti – pur nelle diversità di condizioni e dinamiche tra i due Paesi. Si critica spesso giustamente l’Unione Europea perché “non esiste”, perché è imbelle, incapace di reagire, di costituirsi in soggetto politico influente: ma chi sostiene queste posizioni cosa sta facendo, se non sottolineare l’esigenza di un rafforzamento della UE?
Si fatica a credere che la Russia, che non è ancora riuscita a sconfiggere, in tre anni, un’Ucraina militarmente nana, svuotata della sua popolazione, e malamente aiutata dall’Occidente, sia capace di condurre un’invasione su larga scala di un altro Paese europeo. Chi scrive condivide questa visione. Però non si può nemmeno negare che i conflitti tendano ormai alla multiformità. Questa include la “guerra grigia” fatta di operazioni circoscritte e mirate, attacchi informatici, manovre di disturbo, sabotaggi di vario genere, che non hanno bisogno di un grande esercito per essere condotte, né di armamenti classici, né di una vera linea del fronte. Da questo punto di vista, l’Europa è del tutto sguarnita: non è un caso che l’idea del rafforzamento militare sia particolarmente popolare nei Paesi baltici e scandinavi che con la Russia confinano, non solo perché condividono una frontiera con una dittatura militarista e para-fascista che le frontiere tende a ignorarle (“la Russia non finisce mai”, specificò Putin parlando di geografia con un bambino), ma anche proprio perché già subiscono questo tipo di operazioni.
Nessuna considerazione sulla sicurezza europea può prescindere dalla situazione in Medio Oriente. Se è stato semplice notare la deleteria convergenza tra la nuova Casa Bianca e il Cremlino, dovrebbe essere altrettanto semplice realizzare il potenziale nefasto dell’altro lato del triangolo politico internazionale che si sta costituendo: quello tra Donald Trump e il premier israeliano Benjamin Netanyahu. In una traiettoria “diplomatica” che ha molti paralleli con quanto accade con la Russia, la nuova amministrazione americana è arrivata a legittimare pienamente tutte le mosse e gli obiettivi dell’attuale governo israeliano: la rottura unilaterale del cessate il fuoco a Gaza con la violenta ripresa della strage nella Striscia, l’ulteriore e sempre più sanguinosa offensiva dei coloni in Cisgiordania, l’idea della deportazione di massa dei Palestinesi, e l’isolamento dell’Iran come linea guida nella politica mediorientale, rafforzata dall’attacco congiunto agli Houthi in Yemen.
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Da parte sua Netanyahu, coerentemente con quanto accade negli Stati Uniti, ha rinfocolato la lotta per il controllo sugli altri organi di potere nazionali, aumentando così il tasso già non indifferente di instabilità interna a Israele – da sempre uno dei fattori che influenza negativamente la conflittualità regionale. Sebbene cominci finalmente ad allargarsi in Europa la consapevolezza di doversi opporre a operazioni politico-militari che potrebbero dilagare in ampiezza (sebbene abbiano già tristemente raggiunto i peggiori picchi di intensità), e che ormai non ci si prende nemmeno più il disturbo di giustificare con motivi securitari o strategici, continua a mancare per gli Stati dell’Unione la possibilità di intervenire sul terreno con forze di interposizione adeguate. Se proprio non si vogliono considerare i principi del diritto internazionale come motivo per schierarsi contro la linea Trump-Netanyahu (“…e Palestina a lui”), contino allora le considerazioni sulla stabilità regionale: già la guerra in Siria, con i suoi milioni di rifugiati, costò all’Europa una grave crisi interna con risvolti politici e ideologici che ancora pesano. Figuriamoci cosa accadrebbe con un conflitto esteso a Beirut, Baghdad e Teheran.
Il fianco Sud
Così è accaduto d’altronde in Libia, uno scenario dove a fronteggiarsi sono soprattutto forze armate russe e turche, dopo che l’intervento NATO nel 2011 ha provocato la fine del regime di Gheddafi. Qui i Paesi europei, benché direttamente interessati, sono stati “calpestati” dagli stivali sul terreno di altri soldati, di potenze concorrenti, perdendo l’occasione per influire sulla stabilità e sul futuro di un territorio praticamente dirimpettaio. Curioso paradosso per il continente che aveva raggiunto ogni angolo del mondo con i propri imperi coloniali: oggi è quasi incapace di influire un metro oltre il proprio confine.
E’ una considerazione, questa, valida anche per l’Africa subsahariana: la sfilza di colpi di stato portati a termine nel Sahel (otto dal 2019) con l’aiuto delle forze mercenarie russe, coadiuvate da una campagna politico-mediatica su larga scala guidata da Mosca, completa a meridione la ricognizione sui fronti sguarniti dell’Europa. Il tramonto davvero inglorioso dell’influenza francese sulla regione, dal Mali al Niger al Burkina Faso, deve far riflettere sulla strategia fallimentare seguita da Parigi. Ma anche sull’incapacità di uno Stato europeo, da solo, di fronteggiare un attore come la Russia in uno scenario tanto impegnativo. Vale per la Francia come per gli altri Paesi della UE: a questa scala, non c’è grandeur nazionale che non si rovesci in piccolezza.
Non si sottolinea mai abbastanza quanto la regione a Sud del Sahara sia fondamentale per gli equilibri europei; Sahel significa “costa”: con questo nome metaforico gli antichi viaggiatori del deserto chiamavano il luogo dove il mare di sabbia infine terminava. A chiudere il cerchio che abbiamo percorso attorno all’Europa, un’Ultima Thule di dune bollenti invece che di pendii glaciali. Non possiamo essere così ingenui da pensare, infatti, che il Cremlino si sia infilato nelle manovre politico-militari locali per dare un qualche impegno a miliziani e funzionari altrimenti annoiati a passeggiare lungo i ponti sulla Neva. No: nella “costa” che si stende tra l’Atlantico e il Mar Rosso ci sono risorse fondamentali come l’uranio e l’oro; c’è la massima concentrazione mondiale di terrorismo jihadista; da lì si controllano e si influenzano grandi traffici internazionali di persone, di armi, di energia: fenomeni con cui la Russia può esercitare pressione sugli stati europei – come ha già fatto con i migranti appositamente spinti verso le frontiere della UE passando dalla Bielorussia: uno di quegli esempi di “guerra grigia” che l’Europa non ha nessuno strumento per fronteggiare.
Tra consenso e frammentazione
Si dice giustamente che un’entità politica completa non può prescindere da strumenti atti a garantirne la difesa e la sicurezza. Se l’Unione Europea vuole perseguire il suo progetto di riarmo, a completamento del progetto di integrazione europea, e in contrasto con la pretesa degli Stati Uniti e della Russia di farne fette di una torta da spartirsi o comunque da sottomettere al proprio volere, servono però delle condizioni di base. Per prima cosa, la maturazione democratica della classe dirigente continentale (purtroppo viziata da decenni di decisioni prese nel segreto dei Consigli Europei), che deve avere il coraggio di presentare le proprie intenzioni davanti all’opinione pubblica e di confrontarsi con i diversi orientamenti in essa presenti.
Non servirà a molto nascondersi dietro qualche giro di parole, come la pipa di Magritte, per dire ”ceci ce n’est pas un réarmement” ma solo un banalissimo progetto come tanti altri che chiameremo… Preparazione 2030. Non servirà nemmeno far finta che il programma di costruzione degli armamenti non sia anche un sostegno pubblico verso storici comparti industriali che non si sa bene come rottamare, e che fino a pochi anni fa costituivano il fior fiore della potenza economica europea. E’ poi lecito dubitare che il ricorso all’allarmismo psicologico, insomma l’idea di comunicare al pubblico l’imminenza di un conflitto aperto e generalizzato, non si riveli oltre che ben poco credibile anche controproducente. E sarebbe infine indegno di un’organizzazione che si ritiene portatrice ed erede di principi liberal-democratici evitare il confronto nel parlamento europeo per affrettare decisioni su cui non dobbiamo affatto affrettarci, ma discutere il più possibile: i pacchetti di sanzioni (ormai siamo a 16!) adottati dalla UE contro la Russia dovrebbero ricordarci dell’importanza di riflettere prima di fare, o mostrare di fare.
Le classi dirigenti europee non possono permettersi atteggiamenti simili su un tema fondante e cruciale come questo. Un tema su cui cercano la propria legittimazione, di fronte alle tante forze politiche e sociali che le contestano da destra e da sinistra: non va infatti dimenticato che l’Europa ha pagato un prezzo economico molto alto per la guerra in Ucraina, ma ora i suoi capi sembrano volerla prolungare. Un’equazione che elettoralmente non può quadrare: non si può mostrare di aver paura della pace.
In Olanda, una mozione parlamentare ha bocciato il piano di Bruxelles, con l’estrema destra primo partito della coalizione di governo a votare contro, e i Socialisti, primo partito dell’opposizione, a favore. In Germania il senso di shock e di urgenza – aggravato in maniera decisiva dal confronto videotrasmesso tra Trump, JD Vance e Zelensky, con la società a chiedersi “cosa farebbero gli Stati Uniti se al posto di Zelensky ci fossimo noi?” – ha portato all’abolizione dello storico “freno” costituzionale sul debito. Una decisione epocale che ha coinciso con lo stanziamento di almeno 500 miliardi per la difesa, accompagnati da altri 500 destinati a interventi sociali, infrastrutturali e per la transizione ecologica – a riprova del fatto che il riarmo non deve andare per forza a discapito della spesa sociale. Ma per farla passare, si è ricorsi all’escamotage di un voto nel parlamento uscente: non era affatto sicuro che il nuovo parlamento, votato dalle elezioni del 23 febbraio e in cui la destra e la sinistra radicali sono più forti, l’avrebbe approvata.
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Oltre a quella del consenso, emerge qui anche la questione degli equilibri all’interno dell’Europa. La Germania è capace di stanziare, da sola, oltre 1000 miliardi per ricalibrare il proprio sistema socio-economico e produttivo. Non è da escludere che questo programma comprenda lo sviluppo di armi atomiche: sarebbe anzi logico, se il ritiro “imperiale” degli Stati Uniti dall’Unione “nata per fregarci”, come dicono Trump e Vance, dovesse compiersi fino in fondo. Sappiamo bene che il sistema industriale tedesco non si limita alla Germania ma è profondamente integrato con quello dei Paesi settentrionali e orientali dell’Unione Europea, che dunque seguirebbero Berlino su quella strada.
Nella “nostra” parte d’Europa i programmi di riarmo sono visti con costernazione, scetticismo e opposizione dalla maggior parte dell’opinione pubblica: 800 miliardi diviso 27 Paesi ci sembrano un peso intollerabile, e i governi gli cambiano il nome perché sennò suona male. Intanto, dall’altro capo del continente, nella Polonia in campagna elettorale si domanda la rottura unilaterale delle relazioni con la Russia, e il posizionamento di armi atomiche sul territorio nazionale – chiesto agli USA dai partiti trumpiani, alla Francia dai partiti europeisti. Tra i Paesi dell’area si è da tempo d’accordo sulla costruzione anche fisica di una nuova cortina di ferro, e il maggior fabbricante europeo di armamenti, la tedesca Rheinmetall, annuncia profitti record (il suo valore in borsa è triplicato dalle elezioni americane, decuplicato da quando la Russia ha invaso l’Ucraina nel 2022) e l’intenzione di rilevare gli stabilimenti Volkswagen destinati alla chiusura per produrre carri armati e radar al posto delle automobili. Una sostituzione, questa, del cui potenziale l’industria europea è consapevole già da anni, ma a cui la guerra su larga scala scatenata da Vladimir Putin e l’arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca hanno offerto le ali per volare.
L’Europa, insomma, rischia una frammentazione e una divergenza molto profonda – proprio mentre ai suoi Paesi viene consentito di indebitarsi per costruire armamenti. L’intero processo non può essere demandato ai singoli Stati, come sta accadendo, fingendo che non riguardi l’intero continente e il futuro dell’Unione Europea. Non può essere gestito con la frivolezza e la superficialità di chi sta soltanto preparando la sua borsetta, come ha mostrato la Commissaria per la Parità, la Preparazione e la Gestione delle Crisi Hadja Labib. Non può essere portato avanti senza il pieno coinvolgimento della cittadinanza europea e dei suoi rappresentanti: cioè discutendo e stabilendo in maniera chiara ragioni, modalità, priorità, obiettivi del rafforzamento della difesa UE. Cosa c’è esattamente nel “kit di sopravvivenza” dell’Unione Europea? Nessuno può davvero rispondere a questa domanda, nessuno al momento può davvero sapere a cosa serviranno o come saranno impiegate – o magari a chi saranno vendute – le armi che ci apprestiamo a costruire.
Servono dunque, ed è cruciale, organismi di coordinamento e controllo sovranazionale, dentro i quali gli Stati UE partecipino in maniera inclusiva, in cambio della propria assunzione di responsabilità, dato che l’aumento della spesa militare si consente utilizzando fondi comuni e sospendendo regole di bilancio finora considerate intoccabili. Altrimenti si corrono due rischi importanti: quello di appaltare alla Germania il ruolo lasciato scoperto dagli Stati Uniti, lasciando che sia il sistema politico-economico che ruota attorno a Berlino a stabilire priorità e obiettivi del riarmo. Oppure, di fronte alla complessità di ciò che c’è oltre le frontiere europee, finire per limitarsi a rimpinguare 27 singoli e inefficienti eserciti di 27 stati che hanno interessi diversi, guidati da governi che sulla Russia o gli Stati Uniti hanno posizioni persino opposte tra loro: l’Europa ha già commesso questo errore in passato.